NIETZSCHE E LA "COSCIENZA"
OVVERO LA FILOSOFIA DELL'HIC ET NUNC
Si parla, talvolta, di “coscienza” anche
per l’”anima”, quindi per l’atman indiano, o per la “scoperta dell’anima” che
avrebbe fatto Socrate. Ed è certo che, in base alle acute analisi di Nietzsche,
si spiega benissimo quello che, altrimenti, apparirebbe come un comportamento
contraddittorio di Socrate di fronte al fatto che venne condannato
ingiustamente da Atene, cioè la contraddizione tra l’obbedire alla sua
coscienza e l’obbedire alle leggi di Atene. Proprio Nietzsche ci mostra che
obbedire alla coscienza e obbedire alla comunità sono la stessa cosa, per
questo Socrate, per obbedire alla sua coscienza, obbedì alle leggi della
comunità che lo condannavano ingiustamente. La coscienza era diventata il
massimo dell’abnegazione e dell’alienazione, cioè della perdita di se stesso.
Tuttavia, appunto, non è il caso di soffermarsi sul modo antico di intendere la
“coscienza”, ma è, invece, il caso di andare direttamente al modo moderno di
intenderla.
Il concetto moderno di “coscienza” nasce,
indubbiamente, con la Riforma protestante. In precedenza la “coscienza”
personale non esisteva se non come istintivo senso di sopravvivenza, l’ordine
veniva imposto, non veniva facilmente “interiorizzato”. La “coscienza” come
cavallo di Troia per l’imposizione, tramite l’interiorizzazione, dell’ordine
sociale, cioè del potere, ancora non esisteva. Socrate e Gesù Cristo erano solo
delle figure pervertite dall’interiorità (comunità o divino) che anticipavano la
“coscienza moderna”. Roma impose il suo ordine con la forza, non certo con la
coscienza comunitaria e gregaria, la quale esisteva solo a livello locale e in
modo ancora molto approssimativo. E’ dal protestantesimo in poi che la
coscienza diventa un’entità egemone nell’individuo e, in quanto tale, cioè
coscienza, essa è automaticamente quello che, secondo la corretta analisi di
Nietzsche, nasconde, cioè “spirito comunitario e gregario”. La cosa è talmente
evidente che la Chiesa cattolica non aveva alcuna difficoltà a far passare le
sue leggi per “coscienza” del fedele: la “coscienza” del singolo fedele era
come “depositata” nella Chiesa, si dava quasi per scontato che il fedele non la
possedesse, perché essa era, per principio, la perfetta e santa “comunità” e
come tale poteva essere presente solo nella Chiesa gerarchica. Il vaso
comunicante tra la “coscienza” e la “comunità” era così ovvio che i fedeli
erano esentati dall’avere una “coscienza” e la Chiesa rappresentava la
“coscienza” di tutti i fedeli. Ma la comunità reale della Chiesa divenne troppo
terrena, mondana e corrotta per Lutero, la sua coscienza, sulla scia
dell’intellettualismo mistico agostiniano-gnostico e del filologismo umanista,
si era perversamente sviluppata in un mostro gigantesco, che lasciava supporre
gli sviluppi del gigantismo della ragione che si avranno successivamente con
l’Illuminismo prima, con l’Idealismo filosofico poi e infine con il Positivismo,
lo scientismo e l’Esistenzialismo. La realtà della comunità della Chiesa era
troppo mondana e piccina per il concetto onnipotente di Dio che aveva Lutero,
concetto che aveva ripreso da quel frustrato in cerca di onnipotenza che era
Sant’Agostino. Il monaco agostiniano Lutero così, alla fine, da buon cristiano,
rifiuta anche la realtà della Chiesa, cioè della comunità cristiana e insegue
quella “comunità di santi” che andrà tanto di moda presso l’idiozia protestante
tra parecchi popoli, compreso quello americano (si sa che il santo nasconde un
misero commerciante). Lutero, come dice Nietzsche, rifiuta la Chiesa in nome
della sua “coscienza”, come appare evidente dalle affermazioni che avrebbe
rilasciato, con suo grave pericolo, davanti alla Dieta imperiale di Worms nel
1525 di fronte a Carlo V. Disse Lutero: “non
posso e non voglio ritrattarmi perché non è giusto né salutare andare contro
coscienza. Iddio mi aiuti. Amen”. Questo è l’atto di nascita della
“coscienza moderna”. Da quel momento in poi la “coscienza” è stata divinizzata,
il protestantesimo stesso generò sempre più confusione e sovrapposizione tra la
“coscienza” e “Dio”, la religione divenne un semplice fatto di “coscienza” e
venne estromessa dalla realtà materiale terrena, come dice Nietzsche “l’istinto sacerdotale..non sopporta più il
prete come realtà, ..<immagina> una
forma d’esistenza ancora più astratta,..ancora più irreale di quanto sia
condizionata dall’organizzazione di una Chiesa. Il cristianesimo negò la
Chiesa” (F. Nietzsche - “L’anticristo”
27). Il protestante è un cristiano che nega la Chiesa, che nega Dio in
forma terrena, e vuole un Dio soltanto spirituale. C’è qualcosa di gnostico e
anti-mondano, di medievale, nella Riforma protestante, ma è quell’anima
gnostica che fa venire a galla la stessa essenza metafisica e anti-mondana originaria
del cristianesimo. Quest’anima gnostica nel protestantesimo si separò dal corpo
in un modo in cui non era mai avvenuto prima a livello popolare, così il
misticismo metafisico e mentale divenne pratica diffusa, e l’uomo divenne pura
“interiorità”: solo come tale il protestante si riconosce uomo, solo come tale
si ritiene libero, interiorità che, in quanto cristiana, tendeva immediatamente
e misticamente all’identità con Dio e con la comunità. In sostanza il
protestante si porta la comunità e Dio anche a letto e al bagno, perché tiene entrambi
nell’interiorità, come un verme solitario o un poliziotto della polizia
segreta. La “coscienza”, in altri termini, si innalzò presuntuosamente al di
sopra di tutte le cose terrene nel momento stesso in cui affermava la sua
distanza dal “corpo”, cioè dalla “realtà”, in ciò realizzando lo spirito stesso
del cristianesimo: “nell’odio istintivo
contro ogni realtà abbiamo riconosciuto l’elemento propulsivo..che è alla
radice del cristianesimo” (F. Nietzsche
- “L’anticristo” 39). Questa posizione più astratta, rispetto alla
religiosità antica e medievale, portò ad affermare la “coscienza”,
l’“interiorità”, come giudice supremo di tutta la realtà terrena, quest’ultima relegata
al rango di meccanismo privo di senso: la coscienza è il padrone, il corpo e il
mondo sono i servi: “Il cristiano è
completamente libero, signore di tutte le cose..questa fede non può regnare se
non nell’uomo interiore..Gli è soggetto tutto ciò che esiste sulla terra” (M. Lutero - “Della libertà del cristiano”).
La conseguenza di questa arroganza della “coscienza” è l’arroganza della
scienza e della tecnica: “conoscendo il potere e gli effetti del
fuoco, dell’acqua, dell’aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi
che ci circondano..potremmo utilizzare..quei corpi a tutti gli usi cui sono
adatti e divenir così quasi padroni e possessori della Natura” (R. Descartes (Cartesio) - “Il discorso sul
metodo”). La “coscienza” si fa “scienza” perché, come dicevano gli
esistenzialisti, si auto-pone, come “io”, al di sopra e al di fuori di ogni
oggetto: “l’io <la coscienza> è il soggetto rispetto a cui tutte le altre
cose sono oggetto” (K. Jaspers -
“Filosofia” - Chiarificazione dell’esistenza 26), quasi che la
coscienza dello scienziato non fosse essa stessa un corpo tra i corpi e quasi
che gli oggetti posti di fronte non siano mai dei soggetti. Lo scienziato non è
un individuo corporeo che si aggira tra i mille corpi della natura che
incontra, no, è una “coscienza” che ritiene di essere il “soggetto” di ogni
cosa e che riduce tutto quello che incontra e vede, perfino il proprio corpo,
ad “oggetto”, intendendo questo non come vivente necessità materiale, ma come
smembrato dall’analisi e ricomposto in modo meccanicistico. Il corpo come lo
vede la “coscienza”, cioè la scienza, non esiste. La scienza ha a che fare con
oggetti morti, perché nasce dal dualismo gnostico per cui la vita è astratta e
universale nella “coscienza”, una coscienza posta al di là della realtà
oggettiva, naturale, individuale, corporea: “Così
io vedo la mia corporeità, e nel vederla ho l’impressione di separarmene, pur
rimanendo tutt’uno con essa. Quest’unità però non è un’identità. Io non sono il
mio corpo” (K. Jaspers - “Filosofia” -
Chiarificazione dell’esistenza 28). La coscienza, quindi, per
l’esistenzialista, non è il suo corpo, non è la sua individualità naturale. Ma
neppure per lo scienziato la scienza è la natura, perché compie in termini
rovesciati il dualismo stesso dell’esistenzialista: l’esistenzialista si ritrae
nella sua coscienza e si ritrova il corpo come un estraneo, lo scienziato, già
ritrattosi nella coscienza, scompone (analisi) e ricompone (sintesi) nella
coscienza il corpo e sostituisce questa entità meccanica al corpo reale che
vede. In altri termini la scienza è applicazione della coscienza ai corpi (là
dove l’esistenzialista tiene solo a distanza i corpi, secondo una tradizione
gnostico-religiosa), è coscienza, come tale non è il corpo, tanto è vero che
non riesce a cogliere neppure la più immediata realtà dei corpi, vale a dire la
loro individualità e diversità. E’ la coscienza che appiattisce e azzera le
diversità nelle leggi scientifiche. Non esiste scienza senza coscienza. Il
mondo dei corpi viventi non è né quello della coscienza e né quello della
scienza. Senza corpo, l’esistenzialista e lo scienziato, come semplici
coscienze, sono soltanto aria fritta. L’esistenzialista arriva, perfino, a
negare che la coscienza sia “presente”, essa è un “farsi”, un “fare”, è
continuamente proiettata e alienata nel futuro, come nella previsione
scientifica, perché deve rifare il mondo e la realtà del proprio corpo in
continuazione, è arbitraria, snaturata e aggressiva per costituzione: “L’uomo, secondo la concezione
esistenzialistica..non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà
fatto..non c’è una natura umana..l’uomo non è altro che ciò che si fa” (J. - P. Sartre - “L’esistenzialismo è un
umanismo”). Non si possono leggere sciocchezze del genere, in tal modo
la coscienza sarebbe un tutto-nulla, che non riesce a vedere la realtà. La
“coscienza”, quindi, come irrealtà materiale, come comunità, ebbe la tendenza a
laicizzarsi, divenne il “cogito” cartesiano e si fece, dunque, “scienza”,
divenne “comunità”, divenne “uguaglianza”, generò, dunque, l’Illuminismo e la
Rivoluzione francese. Poi generò l’Io penso kantiano e lo Spirito hegeliano,
poi generò la struttura economica marxista, poi generò l’Io-Essere
esistenzialista. La “coscienza” è la rovina dell’uomo. Basti pensare che tutto
quello che di artificioso, alienante, inquinante, guerre moderne comprese, c’è
stato, non ci sarebbe stato senza la coscienza. Dal mondo artistico a quello
scientifico e tecnologico, a cominciare dagli “schermi” di cinema, di
televisori, di computer, di telefonini, tutto altro non è che il “corrispettivo
oggettivo” della “coscienza”, altro non è che illusione priva di realtà, degna
soltanto della pipì di un cane. Senza la coscienza, la vita istintiva del
corpo, non solo non riconosce nella natura nessun meccanismo di tipo
scientifico, non solo non rende morta la natura stessa, ma non riconosce
neppure alcuna “uguaglianza”, perché la prospettiva del corpo, che è quella
della natura, coglie solo le differenze tra le cose, mentre l’uguaglianza è, di
per sé, una regola sociale, una regola logico-concettuale, quindi della
“coscienza”, non del “corpo”, non della “natura”, non dell’“individualità”. Gli
uomini, che vengono esaminati dalla prospettiva della “coscienza” (cosa che non
viene fatta per animali e piante), finiscono per essere un gigantesco
“indifferenziato”, in cui, nell’immagine del “cittadino”, tutti hanno diritto a
tutto, tutti hanno uguali diritti e tutti sono “uguali”. Mentre in natura
l’asino non ha diritto a volare come l’aquila perché non può, perché la
costituzione fisica dei corpi genera differenze di specie, di sesso, di
individualità, mentre la “coscienza” tra gli uomini non vede differenze di
razza, di sesso, di individualità. Per la “coscienza” sono tutti “uguali” per
principio, si afferma il falso solo perché si ignora la realtà in nome
dell’indifferenziato comunitario e razionale della “coscienza”. Ma le falsità
della “coscienza” vengono seguite solo dagli stupidi, solo da quelli che, come
diceva Nietzsche, seguono la morale degli schiavi, cioè il volgare spirito
gregario. Chi, al contrario, ha in sé l’onestà della realtà, dice che un bianco
è diverso da un negro, che un negro è diverso da un cinese, che una donna è
diversa da un uomo, che un uomo è diverso da una donna, che un eterosessuale è
diverso da un omosessuale e viceversa, che Giovanni è diverso da Chung-lao e
viceversa, insomma l’uomo onesto della realtà non vede alcuna “uguaglianza”. L’uomo
onesto della realtà nega il diritto di sovrapporre a tutto l’appiattimento
della “coscienza” ed esamina persone, animali e cose secondo il criterio del
corpo, non il corpo meccanico e mortificato della scienza, ma il “corpo
vivente”, cioè il “Sé”. La modernità è, dunque, caratterizzata dall’infausto e
perverso dominio della “coscienza”.
Al dominio della coscienza cominciò ad
opporsi Spinoza, il quale, pur nella sua visione teologica e condizionata dal
razionalismo di Cartesio, intravide, per la prima volta in epoca moderna, il
ruolo fondamentale della natura, quindi innalzò la natura a Dio, il soggetto
non è solo “coscienza”, ma, in modo indistinto, coscienza-corpo. Per Spinoza i
due attributi della materia e del cogito (corpo e coscienza) separati non
esistono mai, esistono solo nell’indistinta unità di Dio, la coscienza-corpo
portava, quindi, alla negazione della “coscienza” in quanto tale, giacché né
l’uomo e né Dio appaiono come semplice “coscienza”, cioè “sostanza meramente
pensante”. La “coscienza” si stacca come entità distinta solo nel caso in cui
viene concepita quale “sostanza meramente pensante”. Tale, alla fine, era il
“cogito” di Cartesio sulla scia della “coscienza interiore” di Lutero. Senza
Lutero, quindi, non sarebbe stato possibile Cartesio, vale a dire che senza la
religione interiore protestante non sarebbero state possibili la scienza e la
Rivoluzione scientifica. Quando Spinoza identificò in Dio la “sostanza
pensante” e la “sostanza estesa” gettò le basi per il superamento della
“coscienza” protestante, del “cogito” cartesiano e della scienza, Spinoza aveva
già superato anche l’Io penso kantiano e lo Spirito assoluto hegeliano, stava
già strizzando l’occhio, prima allo spinozismo romantico, e poi all’acume
critico di Nietzsche. Qui Spinoza supera la modernità protestantizzata: “la sostanza pensante e la sostanza estesa
sono una sola e medesima sostanza <Dio> compresa ora sotto l’uno ora sotto l’altro attributo” (B. Spinoza - “Ethica” prop. VII - Scolio).
Era il “panteismo”, esplicitamente dichiarato da Spinoza come “rivelazione”
(profezia): “Dalla definizione che ne
abbiamo data discende che si può chiamare profezia la conoscenza naturale” (B. Spinoza - “Trattato teologico-politico”
cap. 1°). Liberandosi dell’apparato teologico di Spinoza, si può dire
che, come Dio è l’unità indistinta di pensiero ed estensione, allo stesso modo
il Sé è l’unità indistinta di coscienza e corpo. Il Sé è, quindi, coscienza, ma
non coscienza pura, non è “la coscienza interiore”, ma coscienza corporea,
esteriore. L’esteriorità ci riporta alla realtà e ci toglie dalla coscienza i
fumi intossicanti dell’astratta interiorità, l’esteriorità ci conduce ad una
profondità inimmaginabile, là dove proprio l’interiorità, con i suoi schemi e i
suoi appiattimenti mentali, finisce per essere la più grande superficialità.
Questo lo avevano ben compreso i romantici: “Oh!
Se l’uomo.. capisse l’intima musica della natura e avesse un senso che gli
facesse percepire l’armonia esteriore..La sua brama di essere Dio lo ha
separato da noi <cose naturali>”
(Novalis – “I discepoli di Sais”).
La brama di essere Dio che separa l’uomo dalla natura è esattamente la
“coscienza interiore” protestante con i suoi derivati tecnico-scientifici. Sull’importanza
dell’esteriorità Nietzsche era d’accordo con i romantici, lo dimostra quando
loda la profondità dell’apparente superficialità (esteriorità) dei Greci
antichi: “Oh questi Greci! Loro sì
sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie,
all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza” (F. Nietzsche - “La gaia scienza” - Prefazione 4). Per questo,
oggi, ad esempio nelle adozioni gay, la coscienza interiore protestante, con la
sua superficialità, non vede differenze tra genitori omosessuali e genitori di
sesso diverso, mentre la Chiesa cattolica, senza dubbio recante con sé ancora
qualcosa dell’antica esteriorità, coglie ancora questa differenza che
l’interiore appiattimento intellettuale dei protestanti laici non coglie più.
Spazzata via dall’Illuminismo la visione teologica di Spinoza e dall’empirismo
illuminista il razionalismo cartesiano dell’involucro filosofico di Spinoza,
Spinoza venne riletto dai romantici in dimensione estetica e nel senso di una
rivalutazione dell’esteriore di fronte all’appiattimento interiore protestante.
Non a caso il romantico tedesco Novalis inveiva contro Lutero, accusato di aver
eliminato il divino dal terreno e di aver ridotto il divino al semplice linguaggio
della Bibbia, cioè ad un fatto filologico. La separazione tra coscienza
interiore e corpo, piuttosto forte nel protestantesimo, allontanò anche il
divino dal terreno, facendolo risiedere solo nella “parola”, che è, appunto, la
manifestazione linguistica scritta o parlata del concetto, vale a dire della
sostanza pensante, in fondo della stessa “coscienza interiore” protestante. La
Bibbia è il divino per la coscienza interiore protestante, la sacralità della
parola non è altro che l’auto-divinizzazione della coscienza, il resto è carne da
macello da dominare con la scienza o con l’industria. Novalis accusa Lutero di
aver distrutto il “panteismo” e di aver fatto della coscienza-linguaggio il
luogo astratto del divino, l’accusa è chiara: “Lutero trattò il cristianesimo in modo assolutamente arbitrario,
misconobbe lo spirito <nel mondo>
e introdusse un’altra lettera e un’altra religione, vale a dire la sacra
validità universale della Bibbia <misconobbe la creazione come fatto
divino>; e con ciò nelle faccende
religiose si mescolò, purtroppo, un’altra scienza terrena del tutto estranea -
la filologia -..Perciò..la storia del Protestantesimo non ci presenta più
grandi e magnifiche manifestazioni del sovraterreno” (Novalis - “La cristianità ovvero l’Europa”). Il divino non si
“manifesta” più, è stato staccato dall’esteriore, che è il luogo della
manifestazione e la manifestazione è stata ridotta alla parola di un libro, la
Bibbia, che è solo il corrispettivo oggettivo della “coscienza”. La coscienza
si è staccata dal mondo. I romantici, invece, ritenevano che Dio si
manifestasse e soprattutto attraverso la natura presa nell’immediatezza
estetica e non attraverso la mediazione della coscienza-pensiero o scienza. I
romantici, quindi, preferivano il cattolicesimo al protestantesimo, non tanto
perché amassero l’autorità delle gerarchie ecclesiastiche, come i laici
superficiali suppongono, ma perché nel cattolicesimo ancora si mostrava la
necessità di ricorrere alla manifestazione, all’esteriorità. Ovviamente
l’esteriorità che i romantici perseguivano non era quella rozza dello sfarzo
della Chiesa, ma quella semplice della Natura. Perché la Natura, a modo suo, è
esteticamente sfarzosa, nulla è più estetico della Natura. Lo spirito religioso
romantico non poteva rinunciare alla realtà estetica e quindi il romantico,
sull’esempio di quanto aveva fatto Spinoza - che aveva innalzato a Dio
l’estensione-natura -, innalza a divino la natura esteticamente, non
razionalmente, percepita e vissuta. E’ il panteismo estetico-naturalistico del
Romanticismo tedesco e nordico, così mal compreso in Italia. Dice il romantico
tedesco Herder: “Nella materia che noi
chiamiamo morta, fremono ovunque forze per nulla inferiori a quelle divine;
siamo attorniati dall’onnipotenza” (J.
G. Herder - “Dio. Dialoghi sulla filosofia di Spinoza” 2° dialogo).
Dice il romantico tedesco Novalis: “Dio.
Dio Natura. Dio personale” (Novalis -
“Frammenti” - “Studi filosofici degli anni 1795-96” 150). In Dio la
natura e la persona sono unite in modo indistinto e indistinguibile. A livello
di individuo umano il “Sé” unisce in modo indistinguibile natura e persona: “Dietro i tuoi pensieri..sta un possente
sovrano, un saggio ignoto - che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo
corpo” (F. Nietzsche - “Così parlò Zarathustra”
- Dei dispregiatori del corpo). La percezione tragica e sensuale del
“Sé” attraversa tutto il Romanticismo, essa è la conseguenza del panteismo
romantico. Nella sua versione sensuale ancora si trova nel tardo-romantico
ebreo tedesco Heine, uno dei maestri riconosciuti da Nietzsche: “Poiché i sensualisti francesi erano di
solito materialisti, nacque l’errore di considerare il sensualismo frutto
unicamente del materialismo. No, esso può affermarsi anche come risultato del
panteismo - e allora è un fenomeno bello, splendido..il Dio del panteista è nel
mondo stesso..è materia e spirito: entrambi sono divini, e chi offende la santa
materia è in peccato come colui che pecca contro lo Spirito santo..Il panteismo
è la religione occulta della Germania..i nostri primi romantici operavano
spinti da uno spirito panteistico che essi stessi non comprendevano” (H. Heine - “Per la storia della religione
e della filosofia in Germania”). Osservazioni molto acute quelle di
Heine, che riconosce come il romanticismo non capì bene se stesso, tanto è vero
che le filosofie idealistiche tutto sono meno che panteistiche in senso
estetico-naturalistico e romantiche. Vero è anche che il gusto sensuale di un
panteista è più nobile ed elevato di quello di un volgare materialista illuminista.
Con Heine siamo alle soglie di Nietzsche. L’innalzamento della materia-natura a
livello divino fa sì che i romantici, contrariamente a Hegel e all’arte per
l’arte di fine Ottocento e dell’intero Novecento, considerino l’estetica della
natura superiore in bellezza e moralità rispetto a qualunque opera d’arte. Solo
un degenerato può ritenere più bello e più morale un quadro, ad esempio
cubista, che un gatto. Questa degenerazione è un vero compiacimento della
“coscienza” che si compiace dell’artificio, è narcisismo dell’homo faber,
ultimo rampollo della divinizzazione della coscienza: come per dire che ciò che
l’uomo fa, l’artificiale, è superiore al naturale, perché la coscienza, detta
pomposamente spirito, è Dio. A questo punto è chiaro che la coscienza è la vera
responsabile del mancato rispetto della natura, perché la coscienza ritiene se
stessa la padrona del corpo e di tutta la terra, ritiene che ad essa “è soggetto tutto ciò che esiste sulla
terra”. Questa arroganza della coscienza è la fonte di tutti i mali della
modernità. Per questo Nietzsche attaccò a fondo la coscienza e fece bene a
farlo. Anche se, poi, l’innalzamento del corpo e dell’istinto, operato da
Nietzsche sulla scia dello spinozismo, del panteismo e del Romanticismo, venne
a sua volta tradito da un borghese meschino, cioè Freud, che assorbì il rifiuto
della coscienza all’interno di quella forma di “coscienza” applicata alla
natura che è la scienza, rifacendosi alle rozze categorie positiviste ed
evoluzioniste, che saranno tipiche dello scientismo freudiano. Per cui nella
critica alla coscienza è bene fermarsi a Nietzsche, giacché tutta la teoria
freudiana dell’“inconscio” non è altro che la razionalizzazione della coscienza
di cose che stanno, per situazione ontologica, al di là della coscienza. Mentre
in Freud la coscienza è, come ragione, l’equilibratore degli impulsi inconsci
o, come Super-io, il loro fanatico inquadramento sociale, per Nietzsche la
coscienza è esattamente il riflesso della comunità nell’individuo, cioè la
soppressione e repressione della naturale individualità e diversità. Una
coscienza che non sia un prodotto di inquinamento sociale della persona per
Nietzsche non si dà, a meno che non si tratti del “Sé”, cioè di una “coscienza
corporea e differenziata individualmente”. Sé e coscienza interiore sono cose
inconciliabili. Questa linea ostile alla “coscienza”, che va da Spinoza ai
romantici fino a Nietzsche, si oppone alla Riforma protestante, alla
Rivoluzione scientifica, all’Illuminismo, alla Rivoluzione industriale, alla
Rivoluzione francese, al Positivismo, all’Esistenzialismo, a tutta quella
modernità che ragiona senza considerare la diversità e il corpo: “Disprezzano il corpo: lo hanno lasciato
fuori del calcolo” (F. Nietzsche -
“Frammenti postumi” 1888 - 14 (96)). Se si tenesse nel calcolo anche il
corpo non capiterebbe, come capita oggi, che si ritenga indifferente se due
genitori sono di sesso diverso o dello stesso sesso (omosessuali). La richiesta degli omosessuali di avere un
bambino, sia pure tramite un’adozione, è solo una “pretesa” (hybris,
tracotanza), stabilita dall’indifferenziato egualitarismo coscienziale, non un “diritto
naturale”. L’indifferenza vale solo per la coscienza interiore, non per il Sé, il quale
ultimo fa del corpo un elemento fondante ontologicamente. E’ un fatto che il
moderno spirito della coscienza è intriso di interiorità e dualismo
protestanti, manca una coscienza corporea di sé e degli altri al di fuori di un
artificioso “mascherarsi” sociale.
La “coscienza”, quindi, genera l’ignoranza
del corpo, perché come “coscienza pura” o “interiore”, ha sempre il corpo come estraneo,
la “coscienza” non è una “coscienza corporea”, non è il “Sé”. Compiuto questo
distacco, la coscienza diventa un tutto-nulla che ha perso quanto di
fondamentale ci insegna il corpo, cioè il senso del limite e dell’hic et nunc.
Il corpo è sempre “qui ed ora”, mentre la coscienza ha la pretesa, come Dio, di
essere dappertutto (comunicazioni e trasporti moderni sono quindi creazioni
della coscienza). Se la coscienza si estende alla nazione, come nel
nazionalismo, ogni connazionale viene confuso con l’Io, se la coscienza si
estende all’Umanità, come nel
cristianesimo e nel comunismo, ogni essere umano viene confuso con l’Io. Questo
sentirsi “infiniti” è del tutto irreale (mondo virtuale), giacché l’individuo
nella sua realtà è il suo corpo e quindi ciò che gli appartiene ha i limiti del
suo corpo, si determina in base all’hic et nunc: infatti qui ed ora c’è la casa
in cui si vive, qui ed ora c’è la strada in cui si cammina, qui ed ora ci sono
le persone che si amano; e, quando tutto ciò viene perso, perché la modernità
ha creato, tramite le comunicazioni e i trasporti, la possibilità di
scimmiottare l’infinito, si avverte che qualcosa ci manca, perché il corpo
entra nella nostra personalità, con il suo hic et nunc, molto di più di quanto
pensi l’intellettuale che si compiace della sua coscienza. Se qualcuno non
sente mai nostalgia di niente, quando vaga per l’universo, vuol dire che ha
alienato da sé un aspetto fondamentale della sua personalità. Tuttavia non
potrà mai farlo del tutto, perché, ovunque si troverà, finirà sempre per dare
più importanza all’hic et nunc, ad esempio schivando una valanga che incontra
qui ed ora, a paragone di un’eruzione vulcanica, di cui è venuto a sapere, che
avviene dall’altra parte del mondo. Siamo dei cialtroni e degli ipocriti,
quando, facendo esercizio di infinito, ci riteniamo colpiti perché un terremoto
ha colpito un lontano territorio della Cina, giacché soffre realmente solo chi
con il corpo sta in Cina, giacché è il corpo, non la coscienza, il vero centro
della nostra personalità. La pretesa di essere infiniti ci fa confondere con la
comunità o con l’Umanità, e in tal modo perdiamo o al minimo deprimiamo i
rapporti personali, gli affetti, i paesaggi, addirittura li tradiamo, visto che
nell’uguaglianza soccorriamo chiunque esattamente come chi amiamo. Questo voler
essere Gesù Cristo, cioè salvatori dell’Umanità, nasconde la più grande menzogna,
perché il corpo, che ci lega all’hic et nunc, dice di noi un’altra verità, una
verità naturalmente egoistica e sincera che ci racconta della nostra vita
quotidiana, che non è quella di girare per il mondo a salvare il prossimo. La
carità fatta occasionalmente è, poi, il classico caso per cui si rimuove il
senso di colpa che crea la coscienza, come se noi fossimo debitori verso
l’intera umanità. Gli animali non conoscono la carità, appunto perché vivono
nell’hic et nunc e sanno benissimo chi sono coloro verso i quali devono
sentirsi debitori, perché questi debitori sono persone concrete che si trovano
a vivere anch’esse nell’hic et nunc, ma senza essere missionari o politici
parassiti. C’è una grande tracotanza in questa presunzione di salvare il mondo
e l’Umanità, una tracotanza simile a quella di Dio e, insieme, una totale
mancanza di saggezza, perché significa non riconoscere, come capitò a Gesù
Cristo e a Buddha (in questo due depravati), sentimenti personali, amici,
affetti (tutte cose queste legate all’hic et nunc, perché legate al corpo),
perché significa non riconoscere i nemici e i malintenzionati, visto che ogni
essere umano è visto come tutt’uno con l’Io. Follia. Il mondo e l’Umanità sono
troppo vaste perché io possa amarle indiscriminatamente e, come diceva
saggiamente il taoista, è pericoloso pretendere di possedere l’infinito essendo
finiti: “E’ pericoloso perseguire ciò che
non ha limite con ciò che ha limite” (“Chuang-tzu”
- II, III, 19). L’obiettivo di queste persone “salvatrici” è quello di
prendersi cura del prossimo, il che è possibile solo ad un’élite ricca e
agiata, come ben diceva Makarenko: “Il
fatto che i ricchi avrebbero dato aiuto a me, povero, voleva dire che il ricco
possedeva la ricchezza, che egli era in grado di aiutarmi, mentre io non avevo
che da sperare..nell’aiuto del ricco. Io, indigente, ero l’oggetto della sua
beneficenza” (A. S. Makarenko -
“Pedagogia sovietica”). In
queste anime infinite, cioè dominate dalla “coscienza”, il corpo entra nella
personalità sempre in modo inconscio, per cui, mentre dichiarano di voler
salvare l’Umanità, in realtà, nella loro vita quotidiana, si comportano in modo
anche più meschino degli altri. Ma chi ha del corpo piena consapevolezza ha
anche piena coscienza dei suoi limiti, quindi non segue la coscienza, ma l’hic
et nunc, distingue parenti ed estranei, amici e nemici, perché non vede tutto
indifferenziato nella coscienza, non ha un rapporto di identità mistica con
l’Umanità. Il Sé e la coscienza si escludono a vicenda, il primo ha il senso
del limite, la seconda non lo ha e rappresenta un pericolo per sé (non vede i
pericoli) e per gli altri (è arroganza), manca di quel senso del rispetto che
solo il Sé sa riconoscere, perché il Sé, essendo pura individualità e
singolarità, è strettamente legato al senso del limite individuale. Per l’etica
del Sé, ogni individuo è, rispetto ad ogni altro e contro ogni comunità o
Umanità unita, una repubblica indipendente (anarchismo individualista). Per
essere ancora più precisi: l’individualità esiste solo nell’hic et nunc e tutto
ciò che non si riferisce all’hic et nunc non è individuale, equivale al nulla.
Leggiamo, quindi, il decisivo attacco di
Nietzsche alla “coscienza”: “Il problema
della coscienza..ci compare dinanzi, soltanto allorché cominciamo a comprendere
in che misura potremmo fare a meno di essa..La vita intera sarebbe possibile
senza che ci si vedesse, per così dire, allo specchio <coscienza>..A che scopo una coscienza in generale, se
essa è in sostanza superflua?..Mi sembra che..la forza della coscienza stia
sempre in rapporto con la capacità di comunicazione di un uomo..e che la
capacità di comunicazione sia d’altro canto in rapporto con il bisogno di
comunicazione..mi è lecito procedere alla supposizione che la coscienza in
generale si sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di
comunicazione, che sia stata all’inizio necessaria e utile soltanto tra uomo e
uomo..l’uomo solitario, l’uomo bestia da preda non ne avrebbe avuto
bisogno..essendo l’uomo l’animale maggiormente in pericolo, ebbe bisogno
d’aiuto, di protezione; ebbe bisogno dei suoi simili, dovette esprimere le sue
necessità, sapersi rendere comprensibile - e per tutto questo gli fu
necessario, in primo luogo, ‘coscienza’, gli fu necessario anche ‘sapere’ quel
che gli mancava, ‘sapere’ come si sentiva, ‘sapere’ quel che pensava..l’uomo,
come ogni creatura vivente, pensa continuamente, ma non sa; il pensiero che
diviene cosciente ne è soltanto una piccola parte <qui viene prefigurato
l’inconscio freudiano, ma per Nietzsche esso non è un fatto psicologico, bensì
un radicamento istintivo e passionale nel corpo>, diciamo pure la parte più superficiale e peggiore <il piano
della coscienza e della ragione, quindi, è l’aspetto più superficiale e più
cinico dell’uomo>: infatti soltanto
questo pensiero consapevole si determina in parole <vedi la ‘coscienza’
di Lutero che si determina nella ‘Bibbia’>, cioè in segni di comunicazione, con la qual cosa si determina
l’origine della coscienza medesima..L’uomo inventore di segni è insieme l’uomo
sempre più acutamente cosciente di sé; solo come animale sociale l’uomo imparò
a diventar cosciente di se stesso - è ciò che egli sta facendo ancora, ciò che
egli fa sempre di più. Come si vede il mio pensiero è che la coscienza non
appartenga propriamente all’esistenza individuale dell’uomo <cioè
libera>, ma piuttosto a ciò che in
esso è natura comunitaria e gregaria <chi si verbalizza prima non è
l’individuo libero, ma quello schiavo>;
e che di conseguenza ognuno di noi, con la migliore volontà di comprendere se
stesso nel modo più individuale possibile, di ‘conoscere se stesso’, pur
tuttavia renderà sempre oggetto di coscienza soltanto il non individuale, quel
che in se stesso è esattamente la sua ‘misura media’; che il nostro stesso
pensiero viene continuamente, per così dire, adeguato alla maggioranza e
ritradotto nella prospettiva del gregge a opera del carattere della coscienza,
del ‘genio della specie’ <uniformità antropologica> in essa imperante. Tutte quante le nostre
azioni sono in fondo incomparabilmente personali, uniche, sconfinatamente
individuali, non v’è dubbio; ma appena le traduciamo nella coscienza <e
nella scienza>, non sembra che lo
siano più..Questo è il vero fenomenalismo e prospettivismo, come lo intendo io
<il prospettivismo, quindi, è una proiezione della coscienza, di conseguenza
un appiattimento, la scienza stessa non è altro che ‘prospettivismo’, al di là
di esso resta la realtà incomprensibile dell’individuo e della sua
‘necessità’>; la natura della
coscienza animale implica che il mondo, di cui possiamo aver coscienza, è solo
un mondo di superfici e di segni, un mondo generalizzato, volgarizzato; che
tutto quanto si fa cosciente, diventa per ciò stesso piatto, esiguo,
relativamente stupido, generico, segno distintivo del gregge; che a ogni farsi
della coscienza è collegata una grande fondamentale alterazione,
falsificazione, riduzione alla superficialità e generalizzazione. Lo
svilupparsi della coscienza non è, infine, senza pericolo, e chi vive tra gli
ipercoscienti europei sa anche che è una malattia <vedi intellettuali>..noi ‘sappiamo’ <in quanto
‘coscienza’> precisamente tanto quanto
può essere vantaggioso sapere nell’interesse del gregge umano, della specie” (F. Nietzsche - “La gaia scienza” 334).
La “coscienza”, con il suo appiattimento, ci espone anche a pericoli, nel
momento, ad esempio, in cui non distingue più i nemici dagli amici (vedi
pacifismo). Il passo-capolavoro appena citato ci rende consapevoli del fatto
che le persone che hanno più coscienza sono anche quelle più schiave della
comunità. Questo legame intrinseco tra “coscienza” e “comunità”, spiega bene
perché un idiota come Heidegger, fanatico sostenitore di una visione chiusa
della “coscienza”, abbia poi aderito alla comunità nazista quasi automaticamente.
E questo è il volto misero della coscienza.
Quello che è avvenuto da Spinoza a
Nietzsche, ma non viene riconosciuto a livello di filosofia idealistica,
marxista, positivista, religiosa, scientista, ecc., è l’innalzamento dal corpo
al livello della coscienza, il che permette una maggiore consapevolezza della
propria singola diversità, libertà, individualità e comporta quindi una
regressione della coscienza interiore e della sua automatica sudditanza alla
comunità, cioè al nesso uomo-uomo creato, come dice a ragione Nietzsche, sulla
base della paura per la propria sopravvivenza. Coscienza, comunità e paura, in
sostanza, si alimentano a vicenda. Quando si segue l’istinto si ha minore
paura. Senza la coscienza interiore non esisterebbe alcun linguaggio, alcun
concetto sociale, ci sarebbero solo rapporti istintivi, passionali, ma veri e
autentici. La tirannia della società passa attraverso quel traditore interno di
noi stessi che è la “coscienza”. La coscienza è il nostro nemico interno, ciò
che Stirner, per i protestanti, definiva “polizia segreta”: “Il protestantesimo ha fatto dell’uomo
propriamente un ‘Stato di polizia segreta’. La ‘coscienza’, spia sempre
all’erta, sorveglia ogni movimento dello spirito..Questa dilacerazione
dell’uomo in ‘impulso naturale’ e ‘coscienza’ (plebe interiore e polizia
interiore) costituisce il protestante” (M.
Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). La “coscienza” è
l’interiorizzazione degli interessi altrui, della comunità. Ora, non si
pretende che si diventi sfruttatori della gente, il rispetto è più che
sufficiente, ma avere tanta coscienza da farsi schiavi del prossimo con la
“bontà” è qualcosa che merita il più profondo disprezzo, disprezzo che
coinvolge sia la coscienza che la comunità. I protestanti sono ossequiosi della
comunità, fino al servilismo, fino a seguire Hitler nella catastrofe, perché la
coscienza alimenta nella misera interiorità il “senso di colpa”. E l’uomo cade
in continuazione nei trabocchetti della coscienza, questa spia interiore della
comunità, attraverso il linguaggio, i concetti, la logica, la comunicazione, la
scienza. Quando, poi, l’uomo fa o segue la politica, allora è il più miserevole
dei protestanti, pensa di avere Dio stesso nella coscienza e quindi il criterio
stesso del bene e del male da imporre all’intera comunità. Nessuno è più
detestabile del prete, del politico e dello scienziato, tutti animati dallo
stesso principio per cui nella loro coscienza pensante si troverebbe la regola
dell’universo o dell’umanità. Ovviamente, quando la “coscienza” si è
impadronita di un individuo, ogni violazione delle regole della comunità viene
vissuta con “senso di colpa”, perché la comunità, il padrone, ritiene
“responsabile” nei suoi confronti l’individuo senza avergli neppure chiesto se
fosse disposto ad assumersi tale responsabilità. La bontà, la solidarietà
sociale sono, appunto, questa “responsabilità” attribuita a priori agli altri,
come se gli altri fossero tenuti moralmente ad occuparsi di noi a prescindere.
E su questo abuso, questo esproprio della propria individualità operato
mediante quella traditrice di noi stessi che è la coscienza, ritorna Nietzsche
nella “Genealogia della morale”: “Questa
appunto è la lunga storia dell’origine della responsabilità. Quel compito di
allevare un animale che possa fare promesse, implica in sé, come già ci siamo
resi conto, quale condizione e preparazione, il più immediato compito di
rendere l’uomo, sino a un certo grado, necessario, uniforme, uguale tra gli
uguali, regolare e di conseguenza calcolabile..La superba cognizione dello
straordinario privilegio della responsabilità..è divenuta istinto, istinto
dominante; quale nome <verrà dato>..a
questo istinto dominante..? Ma non v’è dubbio: questo uomo sovrano lo chiama la
sua coscienza..E’ possibile indovinare in anticipo che il concetto di
‘coscienza’..ha già dietro di sé una lunga storia e metamorfosi di forme..è un
frutto maturo, ma anche un frutto tardivo - quanto a lungo questo frutto
dovette pendere aspro e acerbo all’albero! <per tutta la preistoria non
si parlò troppo di ‘coscienza’, con la civiltà, in mille forme diverse, il
principio della responsabilità-coscienza divenne sempre più forte e con esso
divenne sempre più forte la tirannia della comunità>..Ma come è venuta al mondo quell’altra ‘tetra faccenda’, la coscienza
della colpa, tutta quanta la ‘cattiva coscienza’?..Il valore della pena deve
essere quello di destare nel colpevole il sentimento della colpa, in essa si
cerca il caratteristico istrumentum di quella reazione psichica che prende il
nome di ‘cattiva coscienza’, di ‘rimorso’” (F.
Nietzsche - “Genealogia della morale” 2° dis. 2, 3, 4, 14). Non solo
nella storia dell’umanità la “coscienza” è un frutto tardivo, ma anche in ogni
individuo che nasce è un frutto tardivo. Infatti quello che chiamiamo “coscienza”
non sorge, completamente, prima dei tredici o quattordici anni. Il bambino,
specie nei primi anni, è praticamente “senza coscienza”, per questo è felice.
L’adorazione che i romantici ebbero verso i bambini (fino al “fanciullino” di
Pascoli) e gli animali, nasconde questo rimpianto di un’età “senza coscienza”,
di una nativa età dell’oro: è l’idea stessa di “Paradiso perduto”. Il senso di
colpa che sorge a una certa età è dovuto per intero alla “coscienza”. I
tedeschi non abbandonarono Hitler per “senso di colpa”, perché il tradimento
della comunità viene imposta dalla coscienza come colpa (Socrate ne è l’esempio
più clamoroso e più demenziale, sullo stesso livello di Gesù Cristo: “sia fatta
la tua volontà”, in realtà l’espressione rimanda sempre alla volontà della
comunità), così, per non tradire la comunità, si tradisce se stessi. La
responsabilità, da cui viene fatto nascere il senso di colpa, rappresenta
l’appropriazione della vita dell’individuo ad opera della comunità, la quale si
attende da lui un determinato comportamento, o professionale o comunque
protettivo, perché la comunità dà per prendere, per prendere anche la vita
della persona. Sembra, addirittura, che per “responsabilità” alcuni
professionisti: pompieri, poliziotti, capitani di navi, ecc., abbiano perfino
il dovere di morire. Non si sputerà mai abbastanza sulla comunità, sulla
coscienza, sulla responsabilità, sono i nostri veri tiranni.
Roma,
30 gennaio 2016
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