DAL
CRISTIANESIMO AL COMMERCIO, DALL’ALIENAZIONE ALLA SOLIDARIETA’
Che il
cristianesimo stia alla radice del commercio e della dittatura del desiderio e
che l’alienazione personale stia alla base della solidarietà sono cose che non
vengono comprese. Ovviamente la derivazione del commercio dal cristianesimo e
la derivazione della solidarietà dall’alienazione nascono da un processo
psicologico-storico, il quale si muove “contro natura”. Per smascherare quanto
di vergognoso e di perverso si trova nel cristianesimo e nella solidarietà è
bene partire da una definizione di “natura”, quella che venne data da Schiller
e che era sottintesa in tutto il Romanticismo tedesco, quest’ultimo da
distinguere bene dalle sciocchezze manzoniane e cristiane che si raccontano sul
Romanticismo medesimo. Scrisse Schiller: “Vi
sono momenti nella nostra vita, in cui dedichiamo una specie di amore e di
rispetto commovente alla natura nelle piante, nei minerali, negli animali, nei
paesaggi, così come alla natura nei bambini, nei costumi del popolo di campagna
e del mondo primitivo, non perché essa faccia piacere ai nostri sensi e nemmeno
perché appaghi il nostro intelletto o il nostro gusto..ma soltanto perché essa
è natura..Da questo punto di vista la natura non è per noi altro se non la vita
spontanea, l’essere delle cose per se stesse, l’esistenza secondo leggi
proprie” (F. Schiller - “Della poesia
ingenua e sentimentale”). La “vita
spontanea” è quella istintiva, sentimentale, in base ad essa ogni fattore e
fatto “artificiale” è bandito, almeno per quanto riguarda il soggetto umano che
agisce. Nel senso che il soggetto umano può, nel rispetto della natura,
manipolare qualcosa per la sua sopravvivenza, ma non può manipolare se stesso e
non può manipolare per manipolare, cioè per dominare. Le “leggi proprie” indicano bene che ogni individuo, animale,
vegetale, umano che sia, trova la sua libertà nel seguire le sue
caratteristiche e quindi non può e non deve subire coercizione dall’esterno,
tanto meno dall’organizzazione sociale. Ma il punto della definizione sul quale
occorre fermare maggiormente la propria attenzione è quello che afferma che
la natura è “l’essere delle cose per se
stesse”. Questo principio nel Romanticismo tedesco si collegava
all’infinita varietà dell’universo, un’infinità di cose finite, le quali,
ognuna per sé, esiste soltanto per se stessa. La violazione di questo dato di
fatto consiste nella violenza, essa, purtroppo, è necessaria in alcuni momenti,
ma, appunto, è lecita solo quando è “necessaria”. In questo senso la natura è
il “destino” e il “caos”, perché nessuna cosa si muove sulla base di un ordine
esterno imposto, e, se ogni cosa si muove solo secondo necessità, appare chiaro
che il Romanticismo ha preparato la strada all’anarchismo di Stirner e alla
filosofia di Nietzsche. L’ordine esterno imposto è la violenza stessa: quando
un leone mangia una gazzella, impone alla gazzella l’ordine del leone, per il
quale la gazzella è solo cibo, cioè non è più “l’essere di una cosa per se stessa”. Il leone, però, ancora si
muove secondo l’ordine della necessità, allorché compie violenza. Ma l’uomo no,
l’uomo compie violenza sotto il segno dell’arbitrio e dominato dalla dittatura
del desiderio. In questo modo l’uomo vuole imporre un “ordine esterno” a tutta
la natura, questo ordine esterno, imposto all’uomo stesso, si chiama “società”.
La società è, quindi, il luogo della violenza dell’uomo sull’uomo, mentre
l’agricoltura è il luogo della violenza dell’uomo sulle piante, l’allevamento è
il luogo della violenza dell’uomo sugli animali, la tecnologia è il luogo della
violenza dell’uomo sulla terra in generale. Le “cose per se stesse”, ovviamente, non vanno intese come anima o
razionalità, giacché solo il corpo definisce i limiti reali della persona.
Senza il corpo non ci sarebbe neppure un “se
stesso”. Quindi l’uomo è natura solo ed esclusivamente nei limiti corporei.
Il corpo inteso in questo modo, ovviamente, non è quello descritto dalla
scienza, che è fatto di astrazioni analitiche, ma è il Sé, l’interezza
individuale di fisico e spirito inseparabili, di cui parlava Nietzsche, il
quale ultimo, pur contestando il Romanticismo (confuso con gli esiti
esistenzialistici di Schopenhauer), ancora una volta si mostra in linea, in
profondità, con l’ontologia naturalistica romantica: “Dietro i tuoi pensieri..sta un possente sovrano, un saggio ignoto -
che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo” (F. Nietzsche - “Così parlò Zarathustra” - Dei dispregiatori del corpo).
Quando si ragiona nei termini naturali del corpo e del Sé, l’individuo è, per
natura, limitato, e può ammirare l’infinita varietà delle cose solo a partire
dalla sua piccolezza. Si è fatta sempre una gran confusione, a proposito del
Romanticismo, riguardo all’infinito, come se l’infinito riguardasse o solo Dio
(ma il romantico non è teista, bensì panteista) o solo l’uomo e il pensiero
umano (equivoco antropologico di derivazione illuminista che si trova nell’Idealismo
filosofico e in Hegel e poi nell’umanitarismo di Feuerbach e Marx), mentre
riguardava solo la natura. Il Romanticismo afferma l’infinità della natura,
cioè del finito, non l’infinito astratto in sé e neppure l’infinità dell’uomo o
del suo pensiero: “Se vuoi inoltrarti
nell’infinito, va soltanto da ogni parte nel finito” (J. W. Goethe - “Lettera a F. H. Jacobi” del 9/6/1785). Appare
ovvio, però, che l’uomo non può andare “da
ogni parte nel finito”, se quest’ultimo è infinito. Quindi l’infinito
riguarda la natura, non l’uomo. Il Romanticismo ha sempre rappresentato l’uomo
piccolo davanti al paesaggio e la cosa non è per nulla casuale. La piccolezza
dell’uomo è determinata proprio dall’infinita potenza della natura. Per il
romantico è puro delirio voler dominare la natura, significa volersi rendere
uguale a Dio, questo il romantico lo dice ripetutamente: in Novalis le “cose”
protestano contro l’uomo e lo accusano di essere in disarmonia con la natura e
di volersi fare Dio: “Oh! Se l’uomo,
dicevano, capisse l’intima musica della natura e avesse un senso che gli
facesse percepire l’armonia esteriore..La sua brama di essere Dio lo ha
separato da noi” (Novalis - “I discepoli
di Sais”), in Goethe l’uomo che pretende di andare oltre i “limiti
dell’umano” non poggia più i piedi in terra ed è in balia dei venti e del
nulla: “Giacché con gli dei/ nessun
mortale/ deve provarsi./ Se egli si innalza/ e con il capo/ sfiora le stelle,/
allora in nessun luogo/ poggiano i piedi incerti/ e con lui giocano/ nuvole e
venti” (J. W. Goethe - “Poesie diverse”
- “Limiti dell’umano”). Infinità della natura, limiti dell’umano, ecco
ciò che viene perduto con il cristianesimo e con la solidarietà. Il romantico,
infatti, proprio mentre riconosce l’infinita varietà della natura, percepisce
anche la limitatezza di ogni cosa e la sua stessa diversità. Quindi l’armonia
sussiste solo nei limiti in cui ognuno, compresi individui e popoli, resta se
stesso e tiene separata la sua diversità dalle altre per tutelarla. La
mescolanza e l’integrazione non tutelano le diversità, le annullano nella
mediazione, nella marmellata. L’integrazione universale, teoretica, delle
diversità di individui e popoli dentro il concetto “generale” di Umanità è una
religione che annienta ogni diversità. La solidarietà universale è l’agire
pratico di questo annientamento. Il cristianesimo, si sa, è l’erede di culture
metafisiche, come quella platonica e quella indiana, che non riconoscono più il
Sé naturale e limitato e ambiscono a farsi Dio mediante l’anima e il pensiero. In
tal modo non rispettano più neppure l’infinita varietà delle cose naturali
finite, perché il presupposto di questo rispetto è che si capisca che ogni cosa
è solo “l’essere della cosa per se
stessa”. Nel momento in cui l’anima e la ragione si distaccano dal corpo
individuale di ogni cosa esistente non si riconosce più “l’essere delle cose per se stesse”, l’anima anela a congiungersi a
Dio, l’atman al Brahman. Dicevano le Upanishad: “In verità questo corpo è mortale; esso è sotto l’imperio della morte;
questo è la sede dell’atman immortale, incorporeo..Colui che è cosciente del
fatto che percepisce un odore, costui è l’atman; l’odorato serve a percepire
l’odore..Colui il quale è cosciente del fatto che vuole ascoltare è l’atman;
l’udito è lo strumento per percepire il suono” (“Chandogya Upanishad” - 8° lettura - XII, 1-3). Questa
dissociazione tra Sé e corpo (quest’ultimo reso “strumento”) trova riscontro,
in Occidente, nel socratismo e nel platonismo: “in questa sua ricerca l’anima del filosofo ha in dispregio più di ogni
altra cosa il corpo, e fugge da esso” (Platone
- “Fedone” 65 d). L’anima e la ragione sono, per struttura, una
dissociazione dal corpo individuale, cioè dalla natura, dall’“essere delle cose per se stesse”. A
questo punto il “Sé” diventa un tutto-nulla e viene gettato a destra e sinistra
dai venti, come diceva Goethe. Questo, ovviamente, avviene a livello
psicologico, non a livello fisico, perché fisicamente non si esce altrettanto
facilmente da sé. Anzi, quando il Sé fissa la sua identità in qualcosa di
estraneo a sé, questo Sé alienato ritiene il corpo una prigione, da qui
l’espressione “sentirsi imprigionati nel proprio corpo” usata frequentemente
dagli omosessuali. Ovviamente la scienza e la tecnica, che rappresentano il
principio assoluto della manipolazione, si mettono subito al servizio di chi
non trova che il suo corpo corrisponda al suo Sé alienato, il quale, nella
dittatura del desiderio, non anela altro che ad abbandonare la sua natura, cioè
il suo “essere per se stesso”, il suo
effettivo Sé. Il cristianesimo rappresenta la versione popolare e pratica
(pratico era il popolo ebraico) di questa metafisica scissione del Sé dal
corpo. Le semplificazioni del cristianesimo, rispetto alla filosofia greca e
indiana, garantirono al cristianesimo stesso una diffusione e una popolarità che
erano impensabili per quelle filosofie. A questo punto, però, entrano in gioco,
anche a livello popolare, quei fattori di alienazione del Sé e la perdita del
suo senso naturale, cioè dell’“essere
delle cose per se stesse”. “Diventare altro” divenne la regola. Ci volle
tutto il Medioevo per far digerire una cosa del genere e Lutero dimostrò che la
digestione era terminata. La forma più immediata del diventare altro è la
sottomissione dell’altro, cioè far diventare sé l’altro, che è una variante
meno cruenta dell’uccisione. Il leone considera l’altro suo cibo, mangiandolo
lo fa diventare sé. Che questo sia, in qualche misura, necessario, nessuno lo
nega, ma, appunto, deve essere “necessario”, perché il rispetto dell’armonia
naturale consiste proprio nel rispetto del principio per cui “l’essere di ogni cosa e persona esiste per
se stesso”. Questo principio di armonia naturale l’uomo non lo rispetta in
alcun modo e la sua violazione più palese è l’autorità stessa che si
attribuisce alla società, alla religione, alla cultura, alla scienza. Nel
momento in cui considero gli altri a mia disposizione, io violo il principio
naturale. La prima forma, la più immediata, di questa violazione dell’essere
delle cose per se stesse consiste nella conquista, nella sottomissione, nella
schiavitù, nella servitù. Il commercio appartiene a una forma più subdola di questa
violazione dell’essere delle cose per se stesse, cioè quella altruistica dello
scambio, grazie alla quale, appunto, si pretende di possedere i frutti
dell’abilità o fortuna altrui, facendo mostra di essere disposti a servirli.
L’altruismo cristiano, così come l’offerta di beni o denari del commercio, è la
corruzione degli altri esseri indipendenti: “C’è
anche troppo incantesimo zuccherato in quei sentimenti del ‘per gli altri’, del
‘non per me’, perché non si debba sentire la necessità di diventare, a questo
proposito, doppiamente diffidenti e chiedere:‘Non sono forse tutti questi
sentimenti..delle seduzioni’?” (F.
Nietzsche - “Al di là del bene e del male” - 33). E’
ovvio che il commercio può avvenire solo se è stata superata la violazione
dell’essere delle cose per se stesse
nella sua dimensione più immediata, cioè quella della conquista, della
sottomissione, altrimenti più che di commercio si potrebbe parlare di rapina.
La rapina è una violazione dell’essere delle cose e persone per se stesse che
tende ad andare nella direzione del commercio. Ma, per giungere al commercio,
occorre ancora qualcosa: una maschera di mitezza. Il cristianesimo è proprio
questa “maschera di mitezza”. Il cristianesimo, grazie ai principi mistico-ascetici
sui quali si basa l’altruismo, ha favorito il diffondersi dell’ospitalità
forzata, un po’ come avvenne nella pax romana e nella pax mongolica, epoche in
cui il commercio fiorì. Ha ragione, dunque, Kant, quando sostiene che il
commercio favorisce la pace? Dice Kant: “E’
lo spirito commerciale che non può accordarsi con la guerra e che prima o dopo
si impadronisce d’ogni popolo” (I. Kant
- “Per la pace perpetua”). Forse sarebbe più esatto dire che lo spirito
commerciale corrompe ogni popolo. Si fa finta di ignorare che la “mitezza” del
commercio è una “maschera”. La pace del commercio è quella dello scambio, cioè
del cimitero, non quella dell’armonia naturale in cui esiste “l’essere delle cose per se stesse” che
garantisce l’indipendenza e la diversità di ogni individuo e di ogni popolo. Ma
torniamo al cristianesimo: esso favorì l’idea che gli altri stiano a
disposizione del Sé perché mise il Sé a disposizione degli altri (ascesi, altruismo,
commercio). Se non si suppone che gli altri stiano, in qualche misura e in
qualche modo, a propria disposizione, non è possibile effettuare alcuno scambio
commerciale. Se porto carciofi e li offro ai cinesi in cambio di un vaso, devo
supporre che i cinesi, fabbricando quel vaso per lo scambio con me, in quel lavoro
almeno stiano a mia disposizione. La stessa cosa pensano i cinesi a proposito
dei miei carciofi. In sostanza nel commercio ognuno è a disposizione
dell’altro, almeno nella misura dei beni o prodotti che vengono scambiati. Questo
non sarebbe possibile in natura, dove ogni cosa ha “l’essere per se stessa”. Gli animali, infatti, non hanno spirito
commerciale. L’uomo lo possiede nella misura in cui si aliena da se stesso,
cioè dal suo individuale “essere per se
stesso”. Finché l’uomo fu un essere per se stesso non ci fu commercio, al
massimo c’erano rapine o popoli che conquistavano altri popoli, mezzi con i
quali un individuo o un popolo smettevano di essere interamente per se stessi e
pensarono che gli altri potevano sostituire una parte di se stesso. Se colgo i
fichi da solo per me stesso, io sono una persona che esiste per se stessa. Ma,
se faccio cogliere i fichi per me da uno schiavo, io nego che lo schiavo sia un
essere per se stesso e lo considero un essere a mia disposizione. Io stesso,
nella misura in cui do ordini allo schiavo, non sono più un essere che esiste
per se stesso. La stessa sostituibilità del lavoro tramite lo schiavo mostra
una contraddizione con l’unicità individuale dell’essere per se stessi. Ma
questa verità dello scambio, cioè la violenza, rimane nascosta e sottintesa nel
commercio. Perché? Perché il commercio indossa la maschera cristiana della
“pace”, cioè della “mitezza”, vale a dire dell’altruismo, il quale mostra che
il Sé è a disposizione degli altri. Quando ognuno, essendo stato a disposizione
degli altri, pensa che anche gli altri siano a propria disposizione, anche
perché gli altri stessi, vittime del circolo vizioso della reciprocità, dicono
di stare a disposizione del Sé, l’egocentrismo proprio coincide con l’altruismo
altrui e l’altruismo proprio coincide con l’egocentrismo altrui. In questa
condizione non può avvenire altro che uno “scambio”, il quale è, per
definizione, la negazione della natura, cioè dell’“essere delle cose per se stesse”. A lavora per B e B lavora per A,
cos’altro è, questo, se non uno “scambio”? La cosa non avrebbe senso se non ci
fosse dietro la paura che spinge ad avere sempre più prodotti e sempre più
dominio. Dietro l’altruismo e lo scambio non si nasconde l’innocenza, ma si nasconde
la volontà di dominio, la disarmonia con il mondo e con gli altri. L’altruismo
e la solidarietà come armonia tra gli uomini è idea completamente falsa e
ipocrita. Con l’altruismo centuplico la mia potenza, perché, dopo aver fatto
del mio Sé il servo degli altri, penso che tutti gli altri stiano a mia
disposizione. Proprio questa arroganza è quella che non si sopporta
nell’altruista, pretende che gli altri stiano sempre a sua disposizione, cioè
che non siano degli “esseri che esistono
per se stessi”. E questa arrogante pretesa sta diventando regola e legge
sociale, cioè barbarie. E’ quello che predica continuamente il papa. Se lo
scambio avviene a posteriori si ha il commercio in senso borghese, se avviene a
priori si ha il comunismo. Il comunismo è commercio reso a priori, praticamente
obbligatorio (nel mercato borghese si ha anche la possibilità di non vendere),
presentato per non speculativo, come se poi non accadesse che ognuno, non
potendo speculare nel mercato, finisca per truffare l’altro nella quantità e
qualità di lavoro che fa per gli altri. Il comunismo è un altruismo in forma
dittatoriale, è l’emergere dell’arroganza cristiana. L’altruismo suppone che A
stia a disposizione di B e che B stia a disposizione di A, quando entrambi i
contraenti dello scambio sono alienati negli altri, lavorano per gli altri,
ottengono tramite gli altri. E’ quanto descriveva in modo genialmente ironico
Michelstaedter: “L’eschimese e l’etiope
s’incontrano nella zona temperata: esclamano simultaneamente: ‘Ho freddo - dice
l’etiope - dammi le tue pelli’; ‘ho caldo - dice l’eschimese - dammi le tue
penne’. Ognuno ha visto nell’altro la cosa gli è necessaria <utile>, non l’uomo che ha da vivere lui stesso..E
la società cura che sempre un eschimese incontri in questo modo un etiope” (C. Michelstaedter - “La persuasione e la
rettorica”). L’altruismo o utilitarismo è il presupposto stesso del
commercio. E’ chiaro, poi, che lo scambio, se non azzera l’individuo nella
funzione di scambio, diventa legge di mercato, legge della domanda e
dell’offerta. Però, dove non c’è il mercato e lo scambio è “a priori”
(socialismo, comunismo), l’individuo è azzerato del tutto, è solo un
funzionario dello Stato, qualunque cosa faccia. La retorica sublimata
dell’essere utile agli altri dell’altruismo crea quel clima di mitezza nel
quale si cela lo sfruttamento del prossimo. Quindi è chiaro che il
cristianesimo sviluppa lo spirito commerciale: il cristianesimo è il commercio
sublimato, il commercio è il cristianesimo reale. La forma più perfetta di
cristianesimo commerciale è il comunismo, il quale non riconosce l’individuo
come essere per se stesso nemmeno nello scambio, perché rende lo scambio a
priori e obbligatorio. Il mercato borghese, certo, mantiene una contraddizione
tra l’essere per gli altri e l’essere per se stesso, ma delle due componenti
quella che va eliminata, perché contro natura, è l’essere per gli altri, o
altruismo cristiano, che è il presupposto stesso dello scambio commerciale.
Marx, commettendo l’errore di identificare ebreo e capitalista (che hanno sì
elementi in comune, ma non sono sovrapponibili del tutto), si è avvicinato a
questa verità per la quale dal cristianesimo non si può sfociare in nessun
altro posto che sia diverso dal commercio: “Il
cristianesimo era fin da principio l’ebreo teorizzante <quindi staccato
dall’essere per se stesso>; l’ebreo <il
capitalista> è perciò il cristiano
pratico <commerciante>” (K. Marx - “La questione ebraica”).
In altri termini: il cristianesimo è “praticamente” commercio. Il commercio (come
l’economia e la finanza) è la guerra proseguita con altri mezzi, cioè mediante
la “maschera della mitezza”. Non è un caso che il mondo cristiano, con la
guerra e il commercio, abbia sottomesso tutto il mondo. Ora tutto questo gli si
sta rivolgendo contro, con la stessa logica.
La distinzione fatta da Marx fra “ebreo teorizzante”, secondo Marx il
cristiano, ed “ebreo pratico”,
secondo Marx il capitalista, può essere ripresa su un altro piano che mette
completamente da parte la “questione ebraica”, cioè sul piano della distinzione
tra “essere per gli altri” ed “essere per se stesso”, distinzione che è
perennemente presente in Stirner e in Nietzsche. Non si può “essere per gli
altri” se non si effettua una “mediazione” mentale tra il Sé e l’altro, là dove
“essere per sé” non ha bisogno di nulla ed è un immediato restare qui ed ora
rispetto a dove si trova il corpo, cioè il Sé. Il gatto non si preoccupa se in
Giappone c’è un’epidemia o il crollo della borsa, si preoccupa se
nell’orizzonte del suo Sé non si trova cibo o ci sono dei pericoli per la sua
vita. Questo sano egoismo del gatto è presente in tutti gli uomini
inevitabilmente, fino a quando avranno un corpo, ma negli altruisti e teoretici
viene coperto da una profonda ipocrisia, quella per cui mostrano di essere
solidali con tutta l’umanità. Il fatto che l’altruismo presupponga una
“mediazione” con gli altri, cioè non sia naturale ma solo dovuto all’educazione
(di ciò non ci si rende più nemmeno conto), significa che l’altruismo
presuppone un aspetto “teoretico” in cui il Sé si allarga e confonde con tutti
gli “altri”. Quando questo altruismo è planetario si ha la “fratellanza umana
universale”, a livello di sublimazione moralistica, e il “mercato globale”, a
livello pratico. Il mercato globale e la fratellanza universale altruistica
necessitano entrambe della mediazione “teoretica”. Questo processo di
alienazione nella totalità altruistica, però, avviene in contrasto con la
realtà individuale, unica e corporea del Sé, il quale resta sempre nell’hic et
nunc, cioè nell’orizzonte materiale che gli appare intorno. Questo significa
che, tramite il suo aspetto teoretico, il pensiero lavora a favore della
dissociazione del Sé e sposta il Sé “fuori di sé”, questa perdita di se stessi
genera una cronica insicurezza, perché il Sé, una volta confuso dalla parte
teoretica dell’individuo, non riesce più gestire se stesso, visto che confonde
se stesso con la totalità altrui. Ovviamente gli strumenti tecnologici e
mediatici danno l’impressione che questo mondo globale, in cui la dipendenza
altruistica getta l’individuo, sia effettivamente reale, mentre reale resta
solo il mondo materiale che circonda il Sé. E’ certo possibile che le
interdipendenze che l’aspetto altruistico-teoretico ha generato possano
influenzare anche il mondo materiale che ci circonda, almeno per quel che riguarda
i comportamenti umani. Tuttavia è sicuro che gli individui altruisti vivono in
modo dissociato, seguono quasi “due realtà”: la prima è quella teoretica,
altruistica, artificiale e interplanetaria che parla degli altri esseri umani sparsi
per il mondo e dei fatti che li riguardano come se fossero presenti nella
realtà stessa che circonda il Sé (effetto alienante dell’informazione, che,
però, ha tale effetto solo in chi non esiste per se stesso), la seconda è quella
naturale e corporea del Sé, cioè dell’essere che esiste per se stesso, che vive
nella realtà materiale che lo circonda, compresi i suoi istinti e i suoi
sentimenti, dove si difende da pericoli immediatamente reali (come, ad esempio,
spostarsi alla caduta di un masso, chi è distratto dal suo essere in altro
luogo mediante la teoretica, l’altruismo e l’informazione viene travolto dal
masso). La falsa realtà mediatica e della comunicazione è costituita di “frasi
fatte”, di retorica dell’accoglienza e della solidarietà, di schemi di ogni
genere, e passa, ingiustamente, per dimensione etica. Basta sentire il discorso
di un qualsiasi potere istituzionale, dal papa al presidente della Repubblica,
per sentire snocciolare nauseanti frasi fatte di bontà che costituiscono il
tessuto retorico e falso dell’essere per gli altri. In tal modo “essere per gli
altri”, cioè fuori della realtà naturale, sarebbe etico, mentre essere per se
stessi, stare nella propria realtà naturale, verrebbe a collocarsi addirittura
fuori dall’etica. Questo mondo alla rovescia dipende dal fatto che l’uomo crede
più alle sciocchezze che pensa e dicono altri uomini, che a quello che vede e
tocca. Il mondo teoretico-altruistico, che confonde in un’unità concettuale
tutti gli uomini, ha reso sacro il “concetto” di Uomo, per cui pone come
obbligatoria la solidarietà con ognuno di essi, fino al punto di
accogliere estranei e stranieri in casa propria, trovando, alfine, colui che
ucciderà il padrone di casa che lo ha accolto. In molti casi, naturalmente, si
tratta di frasi fatte moralistiche, buoniste, che non corrispondono alla
realtà, quindi ipocrite, in cui l’essere per gli altri è più dichiarato che
attuato, prevalendo nei fatti l’essere per se stesso, quest’ultimo, però, non
viene mai dichiarato come principio etico e rimane clandestino sul piano etico.
E’ ora che l’essere per se stesso venga dichiarato come unica realtà e assuma
la guida dell’etica, eliminando la perversione, l’alienazione e l’ipocrisia
umanitaria, altruistica, solidale, integrante, teoretica, cristiana,
commerciale, scambista, transgender. Ovviamente queste persone alienate nel punto
medio (private della diversità, anche sessuale), nel teoretico e nell’altruismo
parlano di “integrazione” con la facilità stessa con il quale un uomo cambia i
calzini, l’integrazione è un fatto dato per scontato in chi vede solo il
generico e teoretico “umanitarismo”, il quale non prende in considerazione le
reali diversità naturali e culturali e considera le diversità dei semplici
eventi inessenziali, rimuovibili e riducibili a fattore neutro, a marmellata, a
brodaglia. Le diversità “integrate” sono già “mediate” e quindi “negate”. L’uomo
moderno ha reso cronico questo dualismo tra la sua presenza reale individuale
(essere per se stesso) e la sua virtuale identificazione altruistica e
teoretica con gli altri nella loro totalità umana (essere per gli altri, di qui
l’alienazione presente nel concetto di “solidarietà”). Questa dissociazione rende
l’individuo insicuro e mentre la totalità umana in cui si è alienato lo
terrorizza, d’altro lato non riesce a rendersi mentalmente indipendente da
essa. Eppure non se ne esce, si riconquista il Sé solo se non si tiene conto
della totalità teoretica e altruistica degli altri esseri umani, quindi
staccandosi dall’astratto concetto di solidarietà umana. Fino a quando non si
vedono le conseguenze di quel che accade altrove nel proprio ambito reale di
vita occorre cancellare ogni totalità teoretica e altruistica dell’umanità. Che,
poi, è quello che tutti fanno, solo che gli alienati si agitano e farneticano
solidarietà con tutti, dimenticando i pericoli della vita reale, rappresentato
anche dagli altri esseri umani a cui offrono insensatamente solidarietà. A tali
conseguenze nella propria realtà di vita occorre poi reagire nel proprio luogo di
esistenza per ottenere la sopravvivenza. Credere che la sopravvivenza sia
maggiormente garantita se si resta nella totalità umanitaria teoretica e
altruistica è una pura illusione, perché essa è del tutto incontrollabile dall’individuo,
cioè dal Sé, rende quindi del tutto passivi, come se il proprio destino venisse
deciso da Dio. Riprendere in mano la propria vita significa cancellare la
totalità umana teoretica e altruistica, smettere di essere divisi in due, tra
la propria realtà e quel mondo virtuale che condiziona tutti mediante
l’informazione. Occorre ritornare al qui ed ora, a se stessi, anche se perisse
tutto il resto dell’umanità, perché non è vita quella di un Sé che è schiavo di
tutte le notizie e le paure che girano per il mondo.
Il mondo cristiano, però, non prende atto
della sua ipocrisia e seguita a parlare di “solidarietà”. Questo concetto,
perverso e contro natura (infatti là dove ci si aiuta tra persone singole, il
nesso è sempre di affetto o interesse personale, quindi mai per l’altro in
quanto semplice altro), è l’aspetto sublimato del cristianesimo ed è
particolarmente forte in quell’ultimo lembo di cristianesimo, quello
teorizzante, che fa capo al mondo ufficiale cristiano e alla sinistra borghese
e comunista. Poiché questa ideologia della solidarietà nasce sul presupposto
che ognuno esista per l’altro, è chiaro che essa stabilisca che la molla che
muove il Sé sia l’altro. Non esiste solidarietà senza alienazione. Quando il Sé
e l’altro si mescolano, allora si ha l’alienazione dal Sé, perché il Sé è
l’essere per se stesso, cosa che, ovviamente, si comprende a partire da istinti
e sentimenti. Il pensiero, invece, sta quasi sempre al servizio
dell’alienazione, è dissociazione dal Sé, per cui tende o a identificarsi in
altro (miti sociali, omosessualità, ecc.) oppure a mettersi a disposizione
degli altri. Nella misura in cui il Sé perde la sua realtà corporea istintiva e
si dilata in ogni forma di desiderio (dittatura del desiderio) o sta a
disposizione a priori di chiunque, in quella stessa misura l’alienazione e la
solidarietà coincidono. In questa prospettiva gli individui, anziché essere
un’armonia di varie individualità, che vivono ed esistono solo grazie al fatto
che ognuna rappresenta “l’essere delle cose
per se stesse”, quindi senza mescolarsi e confondersi con “altro”,
diventano una marmellata fatta di neutralità tra cose diverse, neutralità che
viene chiamata “integrazione” e sul piano sessuale viene indicata dal termine “transgender”.
Questa neutralità ognuno la intende come il Sé, per cui l’impero di ogni Sé
viene chiamato solidarietà perché definito nei termini degli altri, così che “avvicinarsi
agli altri” viene concepito come un “diventare gli altri”: la solidarietà
diventa alienazione. Orbene io, personalmente, posso avvicinarmi agli altri
solo rimanendo me stesso e ovviamente riesco a viverci vicino solo nei limiti
in cui ciò è compatibile con il principio naturale per cui si rispetta “l’essere delle cose per se stesse”.
Fisicamente è più difficile violare l’essere delle cose per se stesse, ma, dato
che la manipolazione tecnica regna sovrana ovunque, si è compiuto anche quell’obbrobrio
alla Frankenstein che sono il “trapianto”, il “cambio di sesso” e la “chirurgia
estetica”. Tuttavia, al di fuori di queste manipolazioni, il corpo rimane per
sua costituzione all’interno del principio dell’“essere delle cose per se stesse”. Quindi chi adotta il principio
dell’essere delle cose per se stesse non può ammettere né il trapianto, né la
donazione di organi, né il cambio di sesso e né la chirurgia estetica. Sul
piano culturale, invece, la mescolanza è più facile. I principi culturali,
però, ognuno li dismette solo se li trova dannosi per sé (nei principi
culturali ci possono essere dei limiti etici, limiti stabiliti secondo natura,
non da un presunto e inesistente obbligo di “integrazione”), per cui pretendere
che qualcuno dismetta i valori culturali in cui crede in nome della solidarietà
e dell’integrazione significa pretendere che ognuno smetta di essere se stesso
sul piano culturale. L’integrazione è una forma di violenza, per questo i
popoli non dovrebbero mescolarsi. Insomma la solidarietà e l’integrazione
violano il principio per cui ognuno in natura risponde solo al principio per
cui le cose esistono soltanto per se stesse. Principio sacro e inviolabile che
è il fondamento essenziale dell’etica sia riguardo a se stessi e sia riguardo
agli altri. Mi rifiuto di diventare altro da me e di accettare culture diverse
da quella che sento mia. Se si pretende di più (ad es. pretese mediazioni con
la cultura islamica), questo è un atto di guerra e io risponderò con la guerra.
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