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venerdì 1 gennaio 2016

DAL CRISTIANESIMO AL COMMERCIO, DALL’ALIENAZIONE ALLA SOLIDARIETA’

    Che il cristianesimo stia alla radice del commercio e della dittatura del desiderio e che l’alienazione personale stia alla base della solidarietà sono cose che non vengono comprese. Ovviamente la derivazione del commercio dal cristianesimo e la derivazione della solidarietà dall’alienazione nascono da un processo psicologico-storico, il quale si muove “contro natura”. Per smascherare quanto di vergognoso e di perverso si trova nel cristianesimo e nella solidarietà è bene partire da una definizione di “natura”, quella che venne data da Schiller e che era sottintesa in tutto il Romanticismo tedesco, quest’ultimo da distinguere bene dalle sciocchezze manzoniane e cristiane che si raccontano sul Romanticismo medesimo. Scrisse Schiller: “Vi sono momenti nella nostra vita, in cui dedichiamo una specie di amore e di rispetto commovente alla natura nelle piante, nei minerali, negli animali, nei paesaggi, così come alla natura nei bambini, nei costumi del popolo di campagna e del mondo primitivo, non perché essa faccia piacere ai nostri sensi e nemmeno perché appaghi il nostro intelletto o il nostro gusto..ma soltanto perché essa è natura..Da questo punto di vista la natura non è per noi altro se non la vita spontanea, l’essere delle cose per se stesse, l’esistenza secondo leggi proprie” (F. Schiller - “Della poesia ingenua e sentimentale”). La “vita spontanea” è quella istintiva, sentimentale, in base ad essa ogni fattore e fatto “artificiale” è bandito, almeno per quanto riguarda il soggetto umano che agisce. Nel senso che il soggetto umano può, nel rispetto della natura, manipolare qualcosa per la sua sopravvivenza, ma non può manipolare se stesso e non può manipolare per manipolare, cioè per dominare. Le “leggi proprie” indicano bene che ogni individuo, animale, vegetale, umano che sia, trova la sua libertà nel seguire le sue caratteristiche e quindi non può e non deve subire coercizione dall’esterno, tanto meno dall’organizzazione sociale. Ma il punto della definizione sul quale occorre fermare maggiormente la propria attenzione è quello che afferma che la natura è “l’essere delle cose per se stesse”. Questo principio nel Romanticismo tedesco si collegava all’infinita varietà dell’universo, un’infinità di cose finite, le quali, ognuna per sé, esiste soltanto per se stessa. La violazione di questo dato di fatto consiste nella violenza, essa, purtroppo, è necessaria in alcuni momenti, ma, appunto, è lecita solo quando è “necessaria”. In questo senso la natura è il “destino” e il “caos”, perché nessuna cosa si muove sulla base di un ordine esterno imposto, e, se ogni cosa si muove solo secondo necessità, appare chiaro che il Romanticismo ha preparato la strada all’anarchismo di Stirner e alla filosofia di Nietzsche. L’ordine esterno imposto è la violenza stessa: quando un leone mangia una gazzella, impone alla gazzella l’ordine del leone, per il quale la gazzella è solo cibo, cioè non è più “l’essere di una cosa per se stessa”. Il leone, però, ancora si muove secondo l’ordine della necessità, allorché compie violenza. Ma l’uomo no, l’uomo compie violenza sotto il segno dell’arbitrio e dominato dalla dittatura del desiderio. In questo modo l’uomo vuole imporre un “ordine esterno” a tutta la natura, questo ordine esterno, imposto all’uomo stesso, si chiama “società”. La società è, quindi, il luogo della violenza dell’uomo sull’uomo, mentre l’agricoltura è il luogo della violenza dell’uomo sulle piante, l’allevamento è il luogo della violenza dell’uomo sugli animali, la tecnologia è il luogo della violenza dell’uomo sulla terra in generale. Le “cose per se stesse”, ovviamente, non vanno intese come anima o razionalità, giacché solo il corpo definisce i limiti reali della persona. Senza il corpo non ci sarebbe neppure un “se stesso”. Quindi l’uomo è natura solo ed esclusivamente nei limiti corporei. Il corpo inteso in questo modo, ovviamente, non è quello descritto dalla scienza, che è fatto di astrazioni analitiche, ma è il Sé, l’interezza individuale di fisico e spirito inseparabili, di cui parlava Nietzsche, il quale ultimo, pur contestando il Romanticismo (confuso con gli esiti esistenzialistici di Schopenhauer), ancora una volta si mostra in linea, in profondità, con l’ontologia naturalistica romantica: “Dietro i tuoi pensieri..sta un possente sovrano, un saggio ignoto - che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo” (F. Nietzsche - “Così parlò Zarathustra” - Dei dispregiatori del corpo). Quando si ragiona nei termini naturali del corpo e del Sé, l’individuo è, per natura, limitato, e può ammirare l’infinita varietà delle cose solo a partire dalla sua piccolezza. Si è fatta sempre una gran confusione, a proposito del Romanticismo, riguardo all’infinito, come se l’infinito riguardasse o solo Dio (ma il romantico non è teista, bensì panteista) o solo l’uomo e il pensiero umano (equivoco antropologico di derivazione illuminista che si trova nell’Idealismo filosofico e in Hegel e poi nell’umanitarismo di Feuerbach e Marx), mentre riguardava solo la natura. Il Romanticismo afferma l’infinità della natura, cioè del finito, non l’infinito astratto in sé e neppure l’infinità dell’uomo o del suo pensiero: “Se vuoi inoltrarti nell’infinito, va soltanto da ogni parte nel finito” (J. W. Goethe - “Lettera a F. H. Jacobi” del 9/6/1785). Appare ovvio, però, che l’uomo non può andare “da ogni parte nel finito”, se quest’ultimo è infinito. Quindi l’infinito riguarda la natura, non l’uomo. Il Romanticismo ha sempre rappresentato l’uomo piccolo davanti al paesaggio e la cosa non è per nulla casuale. La piccolezza dell’uomo è determinata proprio dall’infinita potenza della natura. Per il romantico è puro delirio voler dominare la natura, significa volersi rendere uguale a Dio, questo il romantico lo dice ripetutamente: in Novalis le “cose” protestano contro l’uomo e lo accusano di essere in disarmonia con la natura e di volersi fare Dio: “Oh! Se l’uomo, dicevano, capisse l’intima musica della natura e avesse un senso che gli facesse percepire l’armonia esteriore..La sua brama di essere Dio lo ha separato da noi” (Novalis - “I discepoli di Sais”), in Goethe l’uomo che pretende di andare oltre i “limiti dell’umano” non poggia più i piedi in terra ed è in balia dei venti e del nulla: “Giacché con gli dei/ nessun mortale/ deve provarsi./ Se egli si innalza/ e con il capo/ sfiora le stelle,/ allora in nessun luogo/ poggiano i piedi incerti/ e con lui giocano/ nuvole e venti” (J. W. Goethe - “Poesie diverse” - “Limiti dell’umano”). Infinità della natura, limiti dell’umano, ecco ciò che viene perduto con il cristianesimo e con la solidarietà. Il romantico, infatti, proprio mentre riconosce l’infinita varietà della natura, percepisce anche la limitatezza di ogni cosa e la sua stessa diversità. Quindi l’armonia sussiste solo nei limiti in cui ognuno, compresi individui e popoli, resta se stesso e tiene separata la sua diversità dalle altre per tutelarla. La mescolanza e l’integrazione non tutelano le diversità, le annullano nella mediazione, nella marmellata. L’integrazione universale, teoretica, delle diversità di individui e popoli dentro il concetto “generale” di Umanità è una religione che annienta ogni diversità. La solidarietà universale è l’agire pratico di questo annientamento. Il cristianesimo, si sa, è l’erede di culture metafisiche, come quella platonica e quella indiana, che non riconoscono più il Sé naturale e limitato e ambiscono a farsi Dio mediante l’anima e il pensiero. In tal modo non rispettano più neppure l’infinita varietà delle cose naturali finite, perché il presupposto di questo rispetto è che si capisca che ogni cosa è solo “l’essere della cosa per se stessa”. Nel momento in cui l’anima e la ragione si distaccano dal corpo individuale di ogni cosa esistente non si riconosce più “l’essere delle cose per se stesse”, l’anima anela a congiungersi a Dio, l’atman al Brahman. Dicevano le Upanishad: “In verità questo corpo è mortale; esso è sotto l’imperio della morte; questo è la sede dell’atman immortale, incorporeo..Colui che è cosciente del fatto che percepisce un odore, costui è l’atman; l’odorato serve a percepire l’odore..Colui il quale è cosciente del fatto che vuole ascoltare è l’atman; l’udito è lo strumento per percepire il suono” (“Chandogya Upanishad” - 8° lettura - XII, 1-3). Questa dissociazione tra Sé e corpo (quest’ultimo reso “strumento”) trova riscontro, in Occidente, nel socratismo e nel platonismo: “in questa sua ricerca l’anima del filosofo ha in dispregio più di ogni altra cosa il corpo, e fugge da esso” (Platone - “Fedone” 65 d). L’anima e la ragione sono, per struttura, una dissociazione dal corpo individuale, cioè dalla natura, dall’“essere delle cose per se stesse”. A questo punto il “Sé” diventa un tutto-nulla e viene gettato a destra e sinistra dai venti, come diceva Goethe. Questo, ovviamente, avviene a livello psicologico, non a livello fisico, perché fisicamente non si esce altrettanto facilmente da sé. Anzi, quando il Sé fissa la sua identità in qualcosa di estraneo a sé, questo Sé alienato ritiene il corpo una prigione, da qui l’espressione “sentirsi imprigionati nel proprio corpo” usata frequentemente dagli omosessuali. Ovviamente la scienza e la tecnica, che rappresentano il principio assoluto della manipolazione, si mettono subito al servizio di chi non trova che il suo corpo corrisponda al suo Sé alienato, il quale, nella dittatura del desiderio, non anela altro che ad abbandonare la sua natura, cioè il suo “essere per se stesso”, il suo effettivo Sé. Il cristianesimo rappresenta la versione popolare e pratica (pratico era il popolo ebraico) di questa metafisica scissione del Sé dal corpo. Le semplificazioni del cristianesimo, rispetto alla filosofia greca e indiana, garantirono al cristianesimo stesso una diffusione e una popolarità che erano impensabili per quelle filosofie. A questo punto, però, entrano in gioco, anche a livello popolare, quei fattori di alienazione del Sé e la perdita del suo senso naturale, cioè dell’“essere delle cose per se stesse”. “Diventare altro” divenne la regola. Ci volle tutto il Medioevo per far digerire una cosa del genere e Lutero dimostrò che la digestione era terminata. La forma più immediata del diventare altro è la sottomissione dell’altro, cioè far diventare sé l’altro, che è una variante meno cruenta dell’uccisione. Il leone considera l’altro suo cibo, mangiandolo lo fa diventare sé. Che questo sia, in qualche misura, necessario, nessuno lo nega, ma, appunto, deve essere “necessario”, perché il rispetto dell’armonia naturale consiste proprio nel rispetto del principio per cui “l’essere di ogni cosa e persona esiste per se stesso”. Questo principio di armonia naturale l’uomo non lo rispetta in alcun modo e la sua violazione più palese è l’autorità stessa che si attribuisce alla società, alla religione, alla cultura, alla scienza. Nel momento in cui considero gli altri a mia disposizione, io violo il principio naturale. La prima forma, la più immediata, di questa violazione dell’essere delle cose per se stesse consiste nella conquista, nella sottomissione, nella schiavitù, nella servitù. Il commercio appartiene a una forma più subdola di questa violazione dell’essere delle cose per se stesse, cioè quella altruistica dello scambio, grazie alla quale, appunto, si pretende di possedere i frutti dell’abilità o fortuna altrui, facendo mostra di essere disposti a servirli. L’altruismo cristiano, così come l’offerta di beni o denari del commercio, è la corruzione degli altri esseri indipendenti: “C’è anche troppo incantesimo zuccherato in quei sentimenti del ‘per gli altri’, del ‘non per me’, perché non si debba sentire la necessità di diventare, a questo proposito, doppiamente diffidenti e chiedere:‘Non sono forse tutti questi sentimenti..delle seduzioni’?” (F. Nietzsche - “Al di là del bene e del male” - 33). E’ ovvio che il commercio può avvenire solo se è stata superata la violazione dell’essere delle cose per se stesse nella sua dimensione più immediata, cioè quella della conquista, della sottomissione, altrimenti più che di commercio si potrebbe parlare di rapina. La rapina è una violazione dell’essere delle cose e persone per se stesse che tende ad andare nella direzione del commercio. Ma, per giungere al commercio, occorre ancora qualcosa: una maschera di mitezza. Il cristianesimo è proprio questa “maschera di mitezza”. Il cristianesimo, grazie ai principi mistico-ascetici sui quali si basa l’altruismo, ha favorito il diffondersi dell’ospitalità forzata, un po’ come avvenne nella pax romana e nella pax mongolica, epoche in cui il commercio fiorì. Ha ragione, dunque, Kant, quando sostiene che il commercio favorisce la pace? Dice Kant: “E’ lo spirito commerciale che non può accordarsi con la guerra e che prima o dopo si impadronisce d’ogni popolo” (I. Kant - “Per la pace perpetua”). Forse sarebbe più esatto dire che lo spirito commerciale corrompe ogni popolo. Si fa finta di ignorare che la “mitezza” del commercio è una “maschera”. La pace del commercio è quella dello scambio, cioè del cimitero, non quella dell’armonia naturale in cui esiste “l’essere delle cose per se stesse” che garantisce l’indipendenza e la diversità di ogni individuo e di ogni popolo. Ma torniamo al cristianesimo: esso favorì l’idea che gli altri stiano a disposizione del Sé perché mise il Sé a disposizione degli altri (ascesi, altruismo, commercio). Se non si suppone che gli altri stiano, in qualche misura e in qualche modo, a propria disposizione, non è possibile effettuare alcuno scambio commerciale. Se porto carciofi e li offro ai cinesi in cambio di un vaso, devo supporre che i cinesi, fabbricando quel vaso per lo scambio con me, in quel lavoro almeno stiano a mia disposizione. La stessa cosa pensano i cinesi a proposito dei miei carciofi. In sostanza nel commercio ognuno è a disposizione dell’altro, almeno nella misura dei beni o prodotti che vengono scambiati. Questo non sarebbe possibile in natura, dove ogni cosa ha “l’essere per se stessa”. Gli animali, infatti, non hanno spirito commerciale. L’uomo lo possiede nella misura in cui si aliena da se stesso, cioè dal suo individuale “essere per se stesso”. Finché l’uomo fu un essere per se stesso non ci fu commercio, al massimo c’erano rapine o popoli che conquistavano altri popoli, mezzi con i quali un individuo o un popolo smettevano di essere interamente per se stessi e pensarono che gli altri potevano sostituire una parte di se stesso. Se colgo i fichi da solo per me stesso, io sono una persona che esiste per se stessa. Ma, se faccio cogliere i fichi per me da uno schiavo, io nego che lo schiavo sia un essere per se stesso e lo considero un essere a mia disposizione. Io stesso, nella misura in cui do ordini allo schiavo, non sono più un essere che esiste per se stesso. La stessa sostituibilità del lavoro tramite lo schiavo mostra una contraddizione con l’unicità individuale dell’essere per se stessi. Ma questa verità dello scambio, cioè la violenza, rimane nascosta e sottintesa nel commercio. Perché? Perché il commercio indossa la maschera cristiana della “pace”, cioè della “mitezza”, vale a dire dell’altruismo, il quale mostra che il Sé è a disposizione degli altri. Quando ognuno, essendo stato a disposizione degli altri, pensa che anche gli altri siano a propria disposizione, anche perché gli altri stessi, vittime del circolo vizioso della reciprocità, dicono di stare a disposizione del Sé, l’egocentrismo proprio coincide con l’altruismo altrui e l’altruismo proprio coincide con l’egocentrismo altrui. In questa condizione non può avvenire altro che uno “scambio”, il quale è, per definizione, la negazione della natura, cioè dell’“essere delle cose per se stesse”. A lavora per B e B lavora per A, cos’altro è, questo, se non uno “scambio”? La cosa non avrebbe senso se non ci fosse dietro la paura che spinge ad avere sempre più prodotti e sempre più dominio. Dietro l’altruismo e lo scambio non si nasconde l’innocenza, ma si nasconde la volontà di dominio, la disarmonia con il mondo e con gli altri. L’altruismo e la solidarietà come armonia tra gli uomini è idea completamente falsa e ipocrita. Con l’altruismo centuplico la mia potenza, perché, dopo aver fatto del mio Sé il servo degli altri, penso che tutti gli altri stiano a mia disposizione. Proprio questa arroganza è quella che non si sopporta nell’altruista, pretende che gli altri stiano sempre a sua disposizione, cioè che non siano degli “esseri che esistono per se stessi”. E questa arrogante pretesa sta diventando regola e legge sociale, cioè barbarie. E’ quello che predica continuamente il papa. Se lo scambio avviene a posteriori si ha il commercio in senso borghese, se avviene a priori si ha il comunismo. Il comunismo è commercio reso a priori, praticamente obbligatorio (nel mercato borghese si ha anche la possibilità di non vendere), presentato per non speculativo, come se poi non accadesse che ognuno, non potendo speculare nel mercato, finisca per truffare l’altro nella quantità e qualità di lavoro che fa per gli altri. Il comunismo è un altruismo in forma dittatoriale, è l’emergere dell’arroganza cristiana. L’altruismo suppone che A stia a disposizione di B e che B stia a disposizione di A, quando entrambi i contraenti dello scambio sono alienati negli altri, lavorano per gli altri, ottengono tramite gli altri. E’ quanto descriveva in modo genialmente ironico Michelstaedter: “L’eschimese e l’etiope s’incontrano nella zona temperata: esclamano simultaneamente: ‘Ho freddo - dice l’etiope - dammi le tue pelli’; ‘ho caldo - dice l’eschimese - dammi le tue penne’. Ognuno ha visto nell’altro la cosa gli è necessaria <utile>, non l’uomo che ha da vivere lui stesso..E la società cura che sempre un eschimese incontri in questo modo un etiope” (C. Michelstaedter - “La persuasione e la rettorica”). L’altruismo o utilitarismo è il presupposto stesso del commercio. E’ chiaro, poi, che lo scambio, se non azzera l’individuo nella funzione di scambio, diventa legge di mercato, legge della domanda e dell’offerta. Però, dove non c’è il mercato e lo scambio è “a priori” (socialismo, comunismo), l’individuo è azzerato del tutto, è solo un funzionario dello Stato, qualunque cosa faccia. La retorica sublimata dell’essere utile agli altri dell’altruismo crea quel clima di mitezza nel quale si cela lo sfruttamento del prossimo. Quindi è chiaro che il cristianesimo sviluppa lo spirito commerciale: il cristianesimo è il commercio sublimato, il commercio è il cristianesimo reale. La forma più perfetta di cristianesimo commerciale è il comunismo, il quale non riconosce l’individuo come essere per se stesso nemmeno nello scambio, perché rende lo scambio a priori e obbligatorio. Il mercato borghese, certo, mantiene una contraddizione tra l’essere per gli altri e l’essere per se stesso, ma delle due componenti quella che va eliminata, perché contro natura, è l’essere per gli altri, o altruismo cristiano, che è il presupposto stesso dello scambio commerciale. Marx, commettendo l’errore di identificare ebreo e capitalista (che hanno sì elementi in comune, ma non sono sovrapponibili del tutto), si è avvicinato a questa verità per la quale dal cristianesimo non si può sfociare in nessun altro posto che sia diverso dal commercio: “Il cristianesimo era fin da principio l’ebreo teorizzante <quindi staccato dall’essere per se stesso>; l’ebreo <il capitalista> è perciò il cristiano pratico <commerciante>(K. Marx - “La questione ebraica”). In altri termini: il cristianesimo è “praticamente” commercio. Il commercio (come l’economia e la finanza) è la guerra proseguita con altri mezzi, cioè mediante la “maschera della mitezza”. Non è un caso che il mondo cristiano, con la guerra e il commercio, abbia sottomesso tutto il mondo. Ora tutto questo gli si sta rivolgendo contro, con la stessa logica.
    La distinzione fatta da Marx fra “ebreo teorizzante”, secondo Marx il cristiano, ed “ebreo pratico”, secondo Marx il capitalista, può essere ripresa su un altro piano che mette completamente da parte la “questione ebraica”, cioè sul piano della distinzione tra “essere per gli altri” ed “essere per se stesso”, distinzione che è perennemente presente in Stirner e in Nietzsche. Non si può “essere per gli altri” se non si effettua una “mediazione” mentale tra il Sé e l’altro, là dove “essere per sé” non ha bisogno di nulla ed è un immediato restare qui ed ora rispetto a dove si trova il corpo, cioè il Sé. Il gatto non si preoccupa se in Giappone c’è un’epidemia o il crollo della borsa, si preoccupa se nell’orizzonte del suo Sé non si trova cibo o ci sono dei pericoli per la sua vita. Questo sano egoismo del gatto è presente in tutti gli uomini inevitabilmente, fino a quando avranno un corpo, ma negli altruisti e teoretici viene coperto da una profonda ipocrisia, quella per cui mostrano di essere solidali con tutta l’umanità. Il fatto che l’altruismo presupponga una “mediazione” con gli altri, cioè non sia naturale ma solo dovuto all’educazione (di ciò non ci si rende più nemmeno conto), significa che l’altruismo presuppone un aspetto “teoretico” in cui il Sé si allarga e confonde con tutti gli “altri”. Quando questo altruismo è planetario si ha la “fratellanza umana universale”, a livello di sublimazione moralistica, e il “mercato globale”, a livello pratico. Il mercato globale e la fratellanza universale altruistica necessitano entrambe della mediazione “teoretica”. Questo processo di alienazione nella totalità altruistica, però, avviene in contrasto con la realtà individuale, unica e corporea del Sé, il quale resta sempre nell’hic et nunc, cioè nell’orizzonte materiale che gli appare intorno. Questo significa che, tramite il suo aspetto teoretico, il pensiero lavora a favore della dissociazione del Sé e sposta il Sé “fuori di sé”, questa perdita di se stessi genera una cronica insicurezza, perché il Sé, una volta confuso dalla parte teoretica dell’individuo, non riesce più gestire se stesso, visto che confonde se stesso con la totalità altrui. Ovviamente gli strumenti tecnologici e mediatici danno l’impressione che questo mondo globale, in cui la dipendenza altruistica getta l’individuo, sia effettivamente reale, mentre reale resta solo il mondo materiale che circonda il Sé. E’ certo possibile che le interdipendenze che l’aspetto altruistico-teoretico ha generato possano influenzare anche il mondo materiale che ci circonda, almeno per quel che riguarda i comportamenti umani. Tuttavia è sicuro che gli individui altruisti vivono in modo dissociato, seguono quasi “due realtà”: la prima è quella teoretica, altruistica, artificiale e interplanetaria che parla degli altri esseri umani sparsi per il mondo e dei fatti che li riguardano come se fossero presenti nella realtà stessa che circonda il Sé (effetto alienante dell’informazione, che, però, ha tale effetto solo in chi non esiste per se stesso), la seconda è quella naturale e corporea del Sé, cioè dell’essere che esiste per se stesso, che vive nella realtà materiale che lo circonda, compresi i suoi istinti e i suoi sentimenti, dove si difende da pericoli immediatamente reali (come, ad esempio, spostarsi alla caduta di un masso, chi è distratto dal suo essere in altro luogo mediante la teoretica, l’altruismo e l’informazione viene travolto dal masso). La falsa realtà mediatica e della comunicazione è costituita di “frasi fatte”, di retorica dell’accoglienza e della solidarietà, di schemi di ogni genere, e passa, ingiustamente, per dimensione etica. Basta sentire il discorso di un qualsiasi potere istituzionale, dal papa al presidente della Repubblica, per sentire snocciolare nauseanti frasi fatte di bontà che costituiscono il tessuto retorico e falso dell’essere per gli altri. In tal modo “essere per gli altri”, cioè fuori della realtà naturale, sarebbe etico, mentre essere per se stessi, stare nella propria realtà naturale, verrebbe a collocarsi addirittura fuori dall’etica. Questo mondo alla rovescia dipende dal fatto che l’uomo crede più alle sciocchezze che pensa e dicono altri uomini, che a quello che vede e tocca. Il mondo teoretico-altruistico, che confonde in un’unità concettuale tutti gli uomini, ha reso sacro il “concetto” di Uomo, per cui pone come obbligatoria la solidarietà con ognuno di essi, fino al punto di accogliere estranei e stranieri in casa propria, trovando, alfine, colui che ucciderà il padrone di casa che lo ha accolto. In molti casi, naturalmente, si tratta di frasi fatte moralistiche, buoniste, che non corrispondono alla realtà, quindi ipocrite, in cui l’essere per gli altri è più dichiarato che attuato, prevalendo nei fatti l’essere per se stesso, quest’ultimo, però, non viene mai dichiarato come principio etico e rimane clandestino sul piano etico. E’ ora che l’essere per se stesso venga dichiarato come unica realtà e assuma la guida dell’etica, eliminando la perversione, l’alienazione e l’ipocrisia umanitaria, altruistica, solidale, integrante, teoretica, cristiana, commerciale, scambista, transgender. Ovviamente queste persone alienate nel punto medio (private della diversità, anche sessuale), nel teoretico e nell’altruismo parlano di “integrazione” con la facilità stessa con il quale un uomo cambia i calzini, l’integrazione è un fatto dato per scontato in chi vede solo il generico e teoretico “umanitarismo”, il quale non prende in considerazione le reali diversità naturali e culturali e considera le diversità dei semplici eventi inessenziali, rimuovibili e riducibili a fattore neutro, a marmellata, a brodaglia. Le diversità “integrate” sono già “mediate” e quindi “negate”. L’uomo moderno ha reso cronico questo dualismo tra la sua presenza reale individuale (essere per se stesso) e la sua virtuale identificazione altruistica e teoretica con gli altri nella loro totalità umana (essere per gli altri, di qui l’alienazione presente nel concetto di “solidarietà”). Questa dissociazione rende l’individuo insicuro e mentre la totalità umana in cui si è alienato lo terrorizza, d’altro lato non riesce a rendersi mentalmente indipendente da essa. Eppure non se ne esce, si riconquista il Sé solo se non si tiene conto della totalità teoretica e altruistica degli altri esseri umani, quindi staccandosi dall’astratto concetto di solidarietà umana. Fino a quando non si vedono le conseguenze di quel che accade altrove nel proprio ambito reale di vita occorre cancellare ogni totalità teoretica e altruistica dell’umanità. Che, poi, è quello che tutti fanno, solo che gli alienati si agitano e farneticano solidarietà con tutti, dimenticando i pericoli della vita reale, rappresentato anche dagli altri esseri umani a cui offrono insensatamente solidarietà. A tali conseguenze nella propria realtà di vita occorre poi reagire nel proprio luogo di esistenza per ottenere la sopravvivenza. Credere che la sopravvivenza sia maggiormente garantita se si resta nella totalità umanitaria teoretica e altruistica è una pura illusione, perché essa è del tutto incontrollabile dall’individuo, cioè dal Sé, rende quindi del tutto passivi, come se il proprio destino venisse deciso da Dio. Riprendere in mano la propria vita significa cancellare la totalità umana teoretica e altruistica, smettere di essere divisi in due, tra la propria realtà e quel mondo virtuale che condiziona tutti mediante l’informazione. Occorre ritornare al qui ed ora, a se stessi, anche se perisse tutto il resto dell’umanità, perché non è vita quella di un Sé che è schiavo di tutte le notizie e le paure che girano per il mondo.  
    Il mondo cristiano, però, non prende atto della sua ipocrisia e seguita a parlare di “solidarietà”. Questo concetto, perverso e contro natura (infatti là dove ci si aiuta tra persone singole, il nesso è sempre di affetto o interesse personale, quindi mai per l’altro in quanto semplice altro), è l’aspetto sublimato del cristianesimo ed è particolarmente forte in quell’ultimo lembo di cristianesimo, quello teorizzante, che fa capo al mondo ufficiale cristiano e alla sinistra borghese e comunista. Poiché questa ideologia della solidarietà nasce sul presupposto che ognuno esista per l’altro, è chiaro che essa stabilisca che la molla che muove il Sé sia l’altro. Non esiste solidarietà senza alienazione. Quando il Sé e l’altro si mescolano, allora si ha l’alienazione dal Sé, perché il Sé è l’essere per se stesso, cosa che, ovviamente, si comprende a partire da istinti e sentimenti. Il pensiero, invece, sta quasi sempre al servizio dell’alienazione, è dissociazione dal Sé, per cui tende o a identificarsi in altro (miti sociali, omosessualità, ecc.) oppure a mettersi a disposizione degli altri. Nella misura in cui il Sé perde la sua realtà corporea istintiva e si dilata in ogni forma di desiderio (dittatura del desiderio) o sta a disposizione a priori di chiunque, in quella stessa misura l’alienazione e la solidarietà coincidono. In questa prospettiva gli individui, anziché essere un’armonia di varie individualità, che vivono ed esistono solo grazie al fatto che ognuna rappresenta “l’essere delle cose per se stesse”, quindi senza mescolarsi e confondersi con “altro”, diventano una marmellata fatta di neutralità tra cose diverse, neutralità che viene chiamata “integrazione” e sul piano sessuale viene indicata dal termine “transgender”. Questa neutralità ognuno la intende come il Sé, per cui l’impero di ogni Sé viene chiamato solidarietà perché definito nei termini degli altri, così che “avvicinarsi agli altri” viene concepito come un “diventare gli altri”: la solidarietà diventa alienazione. Orbene io, personalmente, posso avvicinarmi agli altri solo rimanendo me stesso e ovviamente riesco a viverci vicino solo nei limiti in cui ciò è compatibile con il principio naturale per cui si rispetta “l’essere delle cose per se stesse”. Fisicamente è più difficile violare l’essere delle cose per se stesse, ma, dato che la manipolazione tecnica regna sovrana ovunque, si è compiuto anche quell’obbrobrio alla Frankenstein che sono il “trapianto”, il “cambio di sesso” e la “chirurgia estetica”. Tuttavia, al di fuori di queste manipolazioni, il corpo rimane per sua costituzione all’interno del principio dell’“essere delle cose per se stesse”. Quindi chi adotta il principio dell’essere delle cose per se stesse non può ammettere né il trapianto, né la donazione di organi, né il cambio di sesso e né la chirurgia estetica. Sul piano culturale, invece, la mescolanza è più facile. I principi culturali, però, ognuno li dismette solo se li trova dannosi per sé (nei principi culturali ci possono essere dei limiti etici, limiti stabiliti secondo natura, non da un presunto e inesistente obbligo di “integrazione”), per cui pretendere che qualcuno dismetta i valori culturali in cui crede in nome della solidarietà e dell’integrazione significa pretendere che ognuno smetta di essere se stesso sul piano culturale. L’integrazione è una forma di violenza, per questo i popoli non dovrebbero mescolarsi. Insomma la solidarietà e l’integrazione violano il principio per cui ognuno in natura risponde solo al principio per cui le cose esistono soltanto per se stesse. Principio sacro e inviolabile che è il fondamento essenziale dell’etica sia riguardo a se stessi e sia riguardo agli altri. Mi rifiuto di diventare altro da me e di accettare culture diverse da quella che sento mia. Se si pretende di più (ad es. pretese mediazioni con la cultura islamica), questo è un atto di guerra e io risponderò con la guerra.     

          

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