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sabato 30 gennaio 2016

NIETZSCHE E LA "COSCIENZA"
OVVERO LA FILOSOFIA DELL'HIC ET NUNC


     Si parla, talvolta, di “coscienza” anche per l’”anima”, quindi per l’atman indiano, o per la “scoperta dell’anima” che avrebbe fatto Socrate. Ed è certo che, in base alle acute analisi di Nietzsche, si spiega benissimo quello che, altrimenti, apparirebbe come un comportamento contraddittorio di Socrate di fronte al fatto che venne condannato ingiustamente da Atene, cioè la contraddizione tra l’obbedire alla sua coscienza e l’obbedire alle leggi di Atene. Proprio Nietzsche ci mostra che obbedire alla coscienza e obbedire alla comunità sono la stessa cosa, per questo Socrate, per obbedire alla sua coscienza, obbedì alle leggi della comunità che lo condannavano ingiustamente. La coscienza era diventata il massimo dell’abnegazione e dell’alienazione, cioè della perdita di se stesso. Tuttavia, appunto, non è il caso di soffermarsi sul modo antico di intendere la “coscienza”, ma è, invece, il caso di andare direttamente al modo moderno di intenderla.
    Il concetto moderno di “coscienza” nasce, indubbiamente, con la Riforma protestante. In precedenza la “coscienza” personale non esisteva se non come istintivo senso di sopravvivenza, l’ordine veniva imposto, non veniva facilmente “interiorizzato”. La “coscienza” come cavallo di Troia per l’imposizione, tramite l’interiorizzazione, dell’ordine sociale, cioè del potere, ancora non esisteva. Socrate e Gesù Cristo erano solo delle figure pervertite dall’interiorità (comunità o divino) che anticipavano la “coscienza moderna”. Roma impose il suo ordine con la forza, non certo con la coscienza comunitaria e gregaria, la quale esisteva solo a livello locale e in modo ancora molto approssimativo. E’ dal protestantesimo in poi che la coscienza diventa un’entità egemone nell’individuo e, in quanto tale, cioè coscienza, essa è automaticamente quello che, secondo la corretta analisi di Nietzsche, nasconde, cioè “spirito comunitario e gregario”. La cosa è talmente evidente che la Chiesa cattolica non aveva alcuna difficoltà a far passare le sue leggi per “coscienza” del fedele: la “coscienza” del singolo fedele era come “depositata” nella Chiesa, si dava quasi per scontato che il fedele non la possedesse, perché essa era, per principio, la perfetta e santa “comunità” e come tale poteva essere presente solo nella Chiesa gerarchica. Il vaso comunicante tra la “coscienza” e la “comunità” era così ovvio che i fedeli erano esentati dall’avere una “coscienza” e la Chiesa rappresentava la “coscienza” di tutti i fedeli. Ma la comunità reale della Chiesa divenne troppo terrena, mondana e corrotta per Lutero, la sua coscienza, sulla scia dell’intellettualismo mistico agostiniano-gnostico e del filologismo umanista, si era perversamente sviluppata in un mostro gigantesco, che lasciava supporre gli sviluppi del gigantismo della ragione che si avranno successivamente con l’Illuminismo prima, con l’Idealismo filosofico poi e infine con il Positivismo, lo scientismo e l’Esistenzialismo. La realtà della comunità della Chiesa era troppo mondana e piccina per il concetto onnipotente di Dio che aveva Lutero, concetto che aveva ripreso da quel frustrato in cerca di onnipotenza che era Sant’Agostino. Il monaco agostiniano Lutero così, alla fine, da buon cristiano, rifiuta anche la realtà della Chiesa, cioè della comunità cristiana e insegue quella “comunità di santi” che andrà tanto di moda presso l’idiozia protestante tra parecchi popoli, compreso quello americano (si sa che il santo nasconde un misero commerciante). Lutero, come dice Nietzsche, rifiuta la Chiesa in nome della sua “coscienza”, come appare evidente dalle affermazioni che avrebbe rilasciato, con suo grave pericolo, davanti alla Dieta imperiale di Worms nel 1525 di fronte a Carlo V. Disse Lutero: “non posso e non voglio ritrattarmi perché non è giusto né salutare andare contro coscienza. Iddio mi aiuti. Amen”. Questo è l’atto di nascita della “coscienza moderna”. Da quel momento in poi la “coscienza” è stata divinizzata, il protestantesimo stesso generò sempre più confusione e sovrapposizione tra la “coscienza” e “Dio”, la religione divenne un semplice fatto di “coscienza” e venne estromessa dalla realtà materiale terrena, come dice Nietzsche “l’istinto sacerdotale..non sopporta più il prete come realtà, ..<immagina> una forma d’esistenza ancora più astratta,..ancora più irreale di quanto sia condizionata dall’organizzazione di una Chiesa. Il cristianesimo negò la Chiesa” (F. Nietzsche - “L’anticristo” 27). Il protestante è un cristiano che nega la Chiesa, che nega Dio in forma terrena, e vuole un Dio soltanto spirituale. C’è qualcosa di gnostico e anti-mondano, di medievale, nella Riforma protestante, ma è quell’anima gnostica che fa venire a galla la stessa essenza metafisica e anti-mondana originaria del cristianesimo. Quest’anima gnostica nel protestantesimo si separò dal corpo in un modo in cui non era mai avvenuto prima a livello popolare, così il misticismo metafisico e mentale divenne pratica diffusa, e l’uomo divenne pura “interiorità”: solo come tale il protestante si riconosce uomo, solo come tale si ritiene libero, interiorità che, in quanto cristiana, tendeva immediatamente e misticamente all’identità con Dio e con la comunità. In sostanza il protestante si porta la comunità e Dio anche a letto e al bagno, perché tiene entrambi nell’interiorità, come un verme solitario o un poliziotto della polizia segreta. La “coscienza”, in altri termini, si innalzò presuntuosamente al di sopra di tutte le cose terrene nel momento stesso in cui affermava la sua distanza dal “corpo”, cioè dalla “realtà”, in ciò realizzando lo spirito stesso del cristianesimo: “nell’odio istintivo contro ogni realtà abbiamo riconosciuto l’elemento propulsivo..che è alla radice del cristianesimo” (F. Nietzsche - “L’anticristo” 39). Questa posizione più astratta, rispetto alla religiosità antica e medievale, portò ad affermare la “coscienza”, l’“interiorità”, come giudice supremo di tutta la realtà terrena, quest’ultima relegata al rango di meccanismo privo di senso: la coscienza è il padrone, il corpo e il mondo sono i servi: “Il cristiano è completamente libero, signore di tutte le cose..questa fede non può regnare se non nell’uomo interiore..Gli è soggetto tutto ciò che esiste sulla terra” (M. Lutero - “Della libertà del cristiano”). La conseguenza di questa arroganza della “coscienza” è l’arroganza della scienza e della tecnica:  “conoscendo il potere e gli effetti del fuoco, dell’acqua, dell’aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi che ci circondano..potremmo utilizzare..quei corpi a tutti gli usi cui sono adatti e divenir così quasi padroni e possessori della Natura” (R. Descartes (Cartesio) - “Il discorso sul metodo”). La “coscienza” si fa “scienza” perché, come dicevano gli esistenzialisti, si auto-pone, come “io”, al di sopra e al di fuori di ogni oggetto: “l’io <la coscienza> è il soggetto rispetto a cui tutte le altre cose sono oggetto” (K. Jaspers - “Filosofia” - Chiarificazione dell’esistenza 26), quasi che la coscienza dello scienziato non fosse essa stessa un corpo tra i corpi e quasi che gli oggetti posti di fronte non siano mai dei soggetti. Lo scienziato non è un individuo corporeo che si aggira tra i mille corpi della natura che incontra, no, è una “coscienza” che ritiene di essere il “soggetto” di ogni cosa e che riduce tutto quello che incontra e vede, perfino il proprio corpo, ad “oggetto”, intendendo questo non come vivente necessità materiale, ma come smembrato dall’analisi e ricomposto in modo meccanicistico. Il corpo come lo vede la “coscienza”, cioè la scienza, non esiste. La scienza ha a che fare con oggetti morti, perché nasce dal dualismo gnostico per cui la vita è astratta e universale nella “coscienza”, una coscienza posta al di là della realtà oggettiva, naturale, individuale, corporea: “Così io vedo la mia corporeità, e nel vederla ho l’impressione di separarmene, pur rimanendo tutt’uno con essa. Quest’unità però non è un’identità. Io non sono il mio corpo” (K. Jaspers - “Filosofia” - Chiarificazione dell’esistenza 28). La coscienza, quindi, per l’esistenzialista, non è il suo corpo, non è la sua individualità naturale. Ma neppure per lo scienziato la scienza è la natura, perché compie in termini rovesciati il dualismo stesso dell’esistenzialista: l’esistenzialista si ritrae nella sua coscienza e si ritrova il corpo come un estraneo, lo scienziato, già ritrattosi nella coscienza, scompone (analisi) e ricompone (sintesi) nella coscienza il corpo e sostituisce questa entità meccanica al corpo reale che vede. In altri termini la scienza è applicazione della coscienza ai corpi (là dove l’esistenzialista tiene solo a distanza i corpi, secondo una tradizione gnostico-religiosa), è coscienza, come tale non è il corpo, tanto è vero che non riesce a cogliere neppure la più immediata realtà dei corpi, vale a dire la loro individualità e diversità. E’ la coscienza che appiattisce e azzera le diversità nelle leggi scientifiche. Non esiste scienza senza coscienza. Il mondo dei corpi viventi non è né quello della coscienza e né quello della scienza. Senza corpo, l’esistenzialista e lo scienziato, come semplici coscienze, sono soltanto aria fritta. L’esistenzialista arriva, perfino, a negare che la coscienza sia “presente”, essa è un “farsi”, un “fare”, è continuamente proiettata e alienata nel futuro, come nella previsione scientifica, perché deve rifare il mondo e la realtà del proprio corpo in continuazione, è arbitraria, snaturata e aggressiva per costituzione: “L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica..non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto..non c’è una natura umana..l’uomo non è altro che ciò che si fa” (J. - P. Sartre - “L’esistenzialismo è un umanismo”). Non si possono leggere sciocchezze del genere, in tal modo la coscienza sarebbe un tutto-nulla, che non riesce a vedere la realtà. La “coscienza”, quindi, come irrealtà materiale, come comunità, ebbe la tendenza a laicizzarsi, divenne il “cogito” cartesiano e si fece, dunque, “scienza”, divenne “comunità”, divenne “uguaglianza”, generò, dunque, l’Illuminismo e la Rivoluzione francese. Poi generò l’Io penso kantiano e lo Spirito hegeliano, poi generò la struttura economica marxista, poi generò l’Io-Essere esistenzialista. La “coscienza” è la rovina dell’uomo. Basti pensare che tutto quello che di artificioso, alienante, inquinante, guerre moderne comprese, c’è stato, non ci sarebbe stato senza la coscienza. Dal mondo artistico a quello scientifico e tecnologico, a cominciare dagli “schermi” di cinema, di televisori, di computer, di telefonini, tutto altro non è che il “corrispettivo oggettivo” della “coscienza”, altro non è che illusione priva di realtà, degna soltanto della pipì di un cane. Senza la coscienza, la vita istintiva del corpo, non solo non riconosce nella natura nessun meccanismo di tipo scientifico, non solo non rende morta la natura stessa, ma non riconosce neppure alcuna “uguaglianza”, perché la prospettiva del corpo, che è quella della natura, coglie solo le differenze tra le cose, mentre l’uguaglianza è, di per sé, una regola sociale, una regola logico-concettuale, quindi della “coscienza”, non del “corpo”, non della “natura”, non dell’“individualità”. Gli uomini, che vengono esaminati dalla prospettiva della “coscienza” (cosa che non viene fatta per animali e piante), finiscono per essere un gigantesco “indifferenziato”, in cui, nell’immagine del “cittadino”, tutti hanno diritto a tutto, tutti hanno uguali diritti e tutti sono “uguali”. Mentre in natura l’asino non ha diritto a volare come l’aquila perché non può, perché la costituzione fisica dei corpi genera differenze di specie, di sesso, di individualità, mentre la “coscienza” tra gli uomini non vede differenze di razza, di sesso, di individualità. Per la “coscienza” sono tutti “uguali” per principio, si afferma il falso solo perché si ignora la realtà in nome dell’indifferenziato comunitario e razionale della “coscienza”. Ma le falsità della “coscienza” vengono seguite solo dagli stupidi, solo da quelli che, come diceva Nietzsche, seguono la morale degli schiavi, cioè il volgare spirito gregario. Chi, al contrario, ha in sé l’onestà della realtà, dice che un bianco è diverso da un negro, che un negro è diverso da un cinese, che una donna è diversa da un uomo, che un uomo è diverso da una donna, che un eterosessuale è diverso da un omosessuale e viceversa, che Giovanni è diverso da Chung-lao e viceversa, insomma l’uomo onesto della realtà non vede alcuna “uguaglianza”. L’uomo onesto della realtà nega il diritto di sovrapporre a tutto l’appiattimento della “coscienza” ed esamina persone, animali e cose secondo il criterio del corpo, non il corpo meccanico e mortificato della scienza, ma il “corpo vivente”, cioè il “Sé”. La modernità è, dunque, caratterizzata dall’infausto e perverso dominio della “coscienza”.
    Al dominio della coscienza cominciò ad opporsi Spinoza, il quale, pur nella sua visione teologica e condizionata dal razionalismo di Cartesio, intravide, per la prima volta in epoca moderna, il ruolo fondamentale della natura, quindi innalzò la natura a Dio, il soggetto non è solo “coscienza”, ma, in modo indistinto, coscienza-corpo. Per Spinoza i due attributi della materia e del cogito (corpo e coscienza) separati non esistono mai, esistono solo nell’indistinta unità di Dio, la coscienza-corpo portava, quindi, alla negazione della “coscienza” in quanto tale, giacché né l’uomo e né Dio appaiono come semplice “coscienza”, cioè “sostanza meramente pensante”. La “coscienza” si stacca come entità distinta solo nel caso in cui viene concepita quale “sostanza meramente pensante”. Tale, alla fine, era il “cogito” di Cartesio sulla scia della “coscienza interiore” di Lutero. Senza Lutero, quindi, non sarebbe stato possibile Cartesio, vale a dire che senza la religione interiore protestante non sarebbero state possibili la scienza e la Rivoluzione scientifica. Quando Spinoza identificò in Dio la “sostanza pensante” e la “sostanza estesa” gettò le basi per il superamento della “coscienza” protestante, del “cogito” cartesiano e della scienza, Spinoza aveva già superato anche l’Io penso kantiano e lo Spirito assoluto hegeliano, stava già strizzando l’occhio, prima allo spinozismo romantico, e poi all’acume critico di Nietzsche. Qui Spinoza supera la modernità protestantizzata: “la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e medesima sostanza <Dio> compresa ora sotto l’uno ora sotto l’altro attributo” (B. Spinoza - “Ethica” prop. VII - Scolio). Era il “panteismo”, esplicitamente dichiarato da Spinoza come “rivelazione” (profezia): “Dalla definizione che ne abbiamo data discende che si può chiamare profezia la conoscenza naturale” (B. Spinoza - “Trattato teologico-politico” cap. 1°). Liberandosi dell’apparato teologico di Spinoza, si può dire che, come Dio è l’unità indistinta di pensiero ed estensione, allo stesso modo il Sé è l’unità indistinta di coscienza e corpo. Il Sé è, quindi, coscienza, ma non coscienza pura, non è “la coscienza interiore”, ma coscienza corporea, esteriore. L’esteriorità ci riporta alla realtà e ci toglie dalla coscienza i fumi intossicanti dell’astratta interiorità, l’esteriorità ci conduce ad una profondità inimmaginabile, là dove proprio l’interiorità, con i suoi schemi e i suoi appiattimenti mentali, finisce per essere la più grande superficialità. Questo lo avevano ben compreso i romantici: “Oh! Se l’uomo.. capisse l’intima musica della natura e avesse un senso che gli facesse percepire l’armonia esteriore..La sua brama di essere Dio lo ha separato da noi <cose naturali>(Novalis – “I discepoli di Sais”). La brama di essere Dio che separa l’uomo dalla natura è esattamente la “coscienza interiore” protestante con i suoi derivati tecnico-scientifici. Sull’importanza dell’esteriorità Nietzsche era d’accordo con i romantici, lo dimostra quando loda la profondità dell’apparente superficialità (esteriorità) dei Greci antichi: “Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza” (F. Nietzsche - “La gaia scienza” - Prefazione 4). Per questo, oggi, ad esempio nelle adozioni gay, la coscienza interiore protestante, con la sua superficialità, non vede differenze tra genitori omosessuali e genitori di sesso diverso, mentre la Chiesa cattolica, senza dubbio recante con sé ancora qualcosa dell’antica esteriorità, coglie ancora questa differenza che l’interiore appiattimento intellettuale dei protestanti laici non coglie più. Spazzata via dall’Illuminismo la visione teologica di Spinoza e dall’empirismo illuminista il razionalismo cartesiano dell’involucro filosofico di Spinoza, Spinoza venne riletto dai romantici in dimensione estetica e nel senso di una rivalutazione dell’esteriore di fronte all’appiattimento interiore protestante. Non a caso il romantico tedesco Novalis inveiva contro Lutero, accusato di aver eliminato il divino dal terreno e di aver ridotto il divino al semplice linguaggio della Bibbia, cioè ad un fatto filologico. La separazione tra coscienza interiore e corpo, piuttosto forte nel protestantesimo, allontanò anche il divino dal terreno, facendolo risiedere solo nella “parola”, che è, appunto, la manifestazione linguistica scritta o parlata del concetto, vale a dire della sostanza pensante, in fondo della stessa “coscienza interiore” protestante. La Bibbia è il divino per la coscienza interiore protestante, la sacralità della parola non è altro che l’auto-divinizzazione della coscienza, il resto è carne da macello da dominare con la scienza o con l’industria. Novalis accusa Lutero di aver distrutto il “panteismo” e di aver fatto della coscienza-linguaggio il luogo astratto del divino, l’accusa è chiara: “Lutero trattò il cristianesimo in modo assolutamente arbitrario, misconobbe lo spirito <nel mondo> e introdusse un’altra lettera e un’altra religione, vale a dire la sacra validità universale della Bibbia <misconobbe la creazione come fatto divino>; e con ciò nelle faccende religiose si mescolò, purtroppo, un’altra scienza terrena del tutto estranea - la filologia -..Perciò..la storia del Protestantesimo non ci presenta più grandi e magnifiche manifestazioni del sovraterreno” (Novalis - “La cristianità ovvero l’Europa”). Il divino non si “manifesta” più, è stato staccato dall’esteriore, che è il luogo della manifestazione e la manifestazione è stata ridotta alla parola di un libro, la Bibbia, che è solo il corrispettivo oggettivo della “coscienza”. La coscienza si è staccata dal mondo. I romantici, invece, ritenevano che Dio si manifestasse e soprattutto attraverso la natura presa nell’immediatezza estetica e non attraverso la mediazione della coscienza-pensiero o scienza. I romantici, quindi, preferivano il cattolicesimo al protestantesimo, non tanto perché amassero l’autorità delle gerarchie ecclesiastiche, come i laici superficiali suppongono, ma perché nel cattolicesimo ancora si mostrava la necessità di ricorrere alla manifestazione, all’esteriorità. Ovviamente l’esteriorità che i romantici perseguivano non era quella rozza dello sfarzo della Chiesa, ma quella semplice della Natura. Perché la Natura, a modo suo, è esteticamente sfarzosa, nulla è più estetico della Natura. Lo spirito religioso romantico non poteva rinunciare alla realtà estetica e quindi il romantico, sull’esempio di quanto aveva fatto Spinoza - che aveva innalzato a Dio l’estensione-natura -, innalza a divino la natura esteticamente, non razionalmente, percepita e vissuta. E’ il panteismo estetico-naturalistico del Romanticismo tedesco e nordico, così mal compreso in Italia. Dice il romantico tedesco Herder: “Nella materia che noi chiamiamo morta, fremono ovunque forze per nulla inferiori a quelle divine; siamo attorniati dall’onnipotenza” (J. G. Herder - “Dio. Dialoghi sulla filosofia di Spinoza” 2° dialogo). Dice il romantico tedesco Novalis: “Dio. Dio Natura. Dio personale” (Novalis - “Frammenti” - “Studi filosofici degli anni 1795-96” 150). In Dio la natura e la persona sono unite in modo indistinto e indistinguibile. A livello di individuo umano il “Sé” unisce in modo indistinguibile natura e persona: “Dietro i tuoi pensieri..sta un possente sovrano, un saggio ignoto - che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo” (F. Nietzsche - “Così parlò Zarathustra” - Dei dispregiatori del corpo). La percezione tragica e sensuale del “Sé” attraversa tutto il Romanticismo, essa è la conseguenza del panteismo romantico. Nella sua versione sensuale ancora si trova nel tardo-romantico ebreo tedesco Heine, uno dei maestri riconosciuti da Nietzsche: “Poiché i sensualisti francesi erano di solito materialisti, nacque l’errore di considerare il sensualismo frutto unicamente del materialismo. No, esso può affermarsi anche come risultato del panteismo - e allora è un fenomeno bello, splendido..il Dio del panteista è nel mondo stesso..è materia e spirito: entrambi sono divini, e chi offende la santa materia è in peccato come colui che pecca contro lo Spirito santo..Il panteismo è la religione occulta della Germania..i nostri primi romantici operavano spinti da uno spirito panteistico che essi stessi non comprendevano” (H. Heine - “Per la storia della religione e della filosofia in Germania”). Osservazioni molto acute quelle di Heine, che riconosce come il romanticismo non capì bene se stesso, tanto è vero che le filosofie idealistiche tutto sono meno che panteistiche in senso estetico-naturalistico e romantiche. Vero è anche che il gusto sensuale di un panteista è più nobile ed elevato di quello di un volgare materialista illuminista. Con Heine siamo alle soglie di Nietzsche. L’innalzamento della materia-natura a livello divino fa sì che i romantici, contrariamente a Hegel e all’arte per l’arte di fine Ottocento e dell’intero Novecento, considerino l’estetica della natura superiore in bellezza e moralità rispetto a qualunque opera d’arte. Solo un degenerato può ritenere più bello e più morale un quadro, ad esempio cubista, che un gatto. Questa degenerazione è un vero compiacimento della “coscienza” che si compiace dell’artificio, è narcisismo dell’homo faber, ultimo rampollo della divinizzazione della coscienza: come per dire che ciò che l’uomo fa, l’artificiale, è superiore al naturale, perché la coscienza, detta pomposamente spirito, è Dio. A questo punto è chiaro che la coscienza è la vera responsabile del mancato rispetto della natura, perché la coscienza ritiene se stessa la padrona del corpo e di tutta la terra, ritiene che ad essa “è soggetto tutto ciò che esiste sulla terra”. Questa arroganza della coscienza è la fonte di tutti i mali della modernità. Per questo Nietzsche attaccò a fondo la coscienza e fece bene a farlo. Anche se, poi, l’innalzamento del corpo e dell’istinto, operato da Nietzsche sulla scia dello spinozismo, del panteismo e del Romanticismo, venne a sua volta tradito da un borghese meschino, cioè Freud, che assorbì il rifiuto della coscienza all’interno di quella forma di “coscienza” applicata alla natura che è la scienza, rifacendosi alle rozze categorie positiviste ed evoluzioniste, che saranno tipiche dello scientismo freudiano. Per cui nella critica alla coscienza è bene fermarsi a Nietzsche, giacché tutta la teoria freudiana dell’“inconscio” non è altro che la razionalizzazione della coscienza di cose che stanno, per situazione ontologica, al di là della coscienza. Mentre in Freud la coscienza è, come ragione, l’equilibratore degli impulsi inconsci o, come Super-io, il loro fanatico inquadramento sociale, per Nietzsche la coscienza è esattamente il riflesso della comunità nell’individuo, cioè la soppressione e repressione della naturale individualità e diversità. Una coscienza che non sia un prodotto di inquinamento sociale della persona per Nietzsche non si dà, a meno che non si tratti del “Sé”, cioè di una “coscienza corporea e differenziata individualmente”. Sé e coscienza interiore sono cose inconciliabili. Questa linea ostile alla “coscienza”, che va da Spinoza ai romantici fino a Nietzsche, si oppone alla Riforma protestante, alla Rivoluzione scientifica, all’Illuminismo, alla Rivoluzione industriale, alla Rivoluzione francese, al Positivismo, all’Esistenzialismo, a tutta quella modernità che ragiona senza considerare la diversità e il corpo: “Disprezzano il corpo: lo hanno lasciato fuori del calcolo” (F. Nietzsche - “Frammenti postumi” 1888 - 14 (96)). Se si tenesse nel calcolo anche il corpo non capiterebbe, come capita oggi, che si ritenga indifferente se due genitori sono di sesso diverso o dello stesso sesso (omosessuali). La richiesta degli omosessuali di avere un bambino, sia pure tramite un’adozione, è solo una “pretesa” (hybris, tracotanza), stabilita dall’indifferenziato egualitarismo coscienziale, non un “diritto naturale”. L’indifferenza vale solo per la coscienza interiore, non per il Sé, il quale ultimo fa del corpo un elemento fondante ontologicamente. E’ un fatto che il moderno spirito della coscienza è intriso di interiorità e dualismo protestanti, manca una coscienza corporea di sé e degli altri al di fuori di un artificioso “mascherarsi” sociale.
    La “coscienza”, quindi, genera l’ignoranza del corpo, perché come “coscienza pura” o “interiore”, ha sempre il corpo come estraneo, la “coscienza” non è una “coscienza corporea”, non è il “Sé”. Compiuto questo distacco, la coscienza diventa un tutto-nulla che ha perso quanto di fondamentale ci insegna il corpo, cioè il senso del limite e dell’hic et nunc. Il corpo è sempre “qui ed ora”, mentre la coscienza ha la pretesa, come Dio, di essere dappertutto (comunicazioni e trasporti moderni sono quindi creazioni della coscienza). Se la coscienza si estende alla nazione, come nel nazionalismo, ogni connazionale viene confuso con l’Io, se la coscienza si estende all’Umanità, come  nel cristianesimo e nel comunismo, ogni essere umano viene confuso con l’Io. Questo sentirsi “infiniti” è del tutto irreale (mondo virtuale), giacché l’individuo nella sua realtà è il suo corpo e quindi ciò che gli appartiene ha i limiti del suo corpo, si determina in base all’hic et nunc: infatti qui ed ora c’è la casa in cui si vive, qui ed ora c’è la strada in cui si cammina, qui ed ora ci sono le persone che si amano; e, quando tutto ciò viene perso, perché la modernità ha creato, tramite le comunicazioni e i trasporti, la possibilità di scimmiottare l’infinito, si avverte che qualcosa ci manca, perché il corpo entra nella nostra personalità, con il suo hic et nunc, molto di più di quanto pensi l’intellettuale che si compiace della sua coscienza. Se qualcuno non sente mai nostalgia di niente, quando vaga per l’universo, vuol dire che ha alienato da sé un aspetto fondamentale della sua personalità. Tuttavia non potrà mai farlo del tutto, perché, ovunque si troverà, finirà sempre per dare più importanza all’hic et nunc, ad esempio schivando una valanga che incontra qui ed ora, a paragone di un’eruzione vulcanica, di cui è venuto a sapere, che avviene dall’altra parte del mondo. Siamo dei cialtroni e degli ipocriti, quando, facendo esercizio di infinito, ci riteniamo colpiti perché un terremoto ha colpito un lontano territorio della Cina, giacché soffre realmente solo chi con il corpo sta in Cina, giacché è il corpo, non la coscienza, il vero centro della nostra personalità. La pretesa di essere infiniti ci fa confondere con la comunità o con l’Umanità, e in tal modo perdiamo o al minimo deprimiamo i rapporti personali, gli affetti, i paesaggi, addirittura li tradiamo, visto che nell’uguaglianza soccorriamo chiunque esattamente come chi amiamo. Questo voler essere Gesù Cristo, cioè salvatori dell’Umanità, nasconde la più grande menzogna, perché il corpo, che ci lega all’hic et nunc, dice di noi un’altra verità, una verità naturalmente egoistica e sincera che ci racconta della nostra vita quotidiana, che non è quella di girare per il mondo a salvare il prossimo. La carità fatta occasionalmente è, poi, il classico caso per cui si rimuove il senso di colpa che crea la coscienza, come se noi fossimo debitori verso l’intera umanità. Gli animali non conoscono la carità, appunto perché vivono nell’hic et nunc e sanno benissimo chi sono coloro verso i quali devono sentirsi debitori, perché questi debitori sono persone concrete che si trovano a vivere anch’esse nell’hic et nunc, ma senza essere missionari o politici parassiti. C’è una grande tracotanza in questa presunzione di salvare il mondo e l’Umanità, una tracotanza simile a quella di Dio e, insieme, una totale mancanza di saggezza, perché significa non riconoscere, come capitò a Gesù Cristo e a Buddha (in questo due depravati), sentimenti personali, amici, affetti (tutte cose queste legate all’hic et nunc, perché legate al corpo), perché significa non riconoscere i nemici e i malintenzionati, visto che ogni essere umano è visto come tutt’uno con l’Io. Follia. Il mondo e l’Umanità sono troppo vaste perché io possa amarle indiscriminatamente e, come diceva saggiamente il taoista, è pericoloso pretendere di possedere l’infinito essendo finiti: “E’ pericoloso perseguire ciò che non ha limite con ciò che ha limite” (“Chuang-tzu” - II, III, 19). L’obiettivo di queste persone “salvatrici” è quello di prendersi cura del prossimo, il che è possibile solo ad un’élite ricca e agiata, come ben diceva Makarenko: “Il fatto che i ricchi avrebbero dato aiuto a me, povero, voleva dire che il ricco possedeva la ricchezza, che egli era in grado di aiutarmi, mentre io non avevo che da sperare..nell’aiuto del ricco. Io, indigente, ero l’oggetto della sua beneficenza” (A. S. Makarenko - “Pedagogia sovietica”). In queste anime infinite, cioè dominate dalla “coscienza”, il corpo entra nella personalità sempre in modo inconscio, per cui, mentre dichiarano di voler salvare l’Umanità, in realtà, nella loro vita quotidiana, si comportano in modo anche più meschino degli altri. Ma chi ha del corpo piena consapevolezza ha anche piena coscienza dei suoi limiti, quindi non segue la coscienza, ma l’hic et nunc, distingue parenti ed estranei, amici e nemici, perché non vede tutto indifferenziato nella coscienza, non ha un rapporto di identità mistica con l’Umanità. Il Sé e la coscienza si escludono a vicenda, il primo ha il senso del limite, la seconda non lo ha e rappresenta un pericolo per sé (non vede i pericoli) e per gli altri (è arroganza), manca di quel senso del rispetto che solo il Sé sa riconoscere, perché il Sé, essendo pura individualità e singolarità, è strettamente legato al senso del limite individuale. Per l’etica del Sé, ogni individuo è, rispetto ad ogni altro e contro ogni comunità o Umanità unita, una repubblica indipendente (anarchismo individualista). Per essere ancora più precisi: l’individualità esiste solo nell’hic et nunc e tutto ciò che non si riferisce all’hic et nunc non è individuale, equivale al nulla.
   Leggiamo, quindi, il decisivo attacco di Nietzsche alla “coscienza”: “Il problema della coscienza..ci compare dinanzi, soltanto allorché cominciamo a comprendere in che misura potremmo fare a meno di essa..La vita intera sarebbe possibile senza che ci si vedesse, per così dire, allo specchio <coscienza>..A che scopo una coscienza in generale, se essa è in sostanza superflua?..Mi sembra che..la forza della coscienza stia sempre in rapporto con la capacità di comunicazione di un uomo..e che la capacità di comunicazione sia d’altro canto in rapporto con il bisogno di comunicazione..mi è lecito procedere alla supposizione che la coscienza in generale si sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione, che sia stata all’inizio necessaria e utile soltanto tra uomo e uomo..l’uomo solitario, l’uomo bestia da preda non ne avrebbe avuto bisogno..essendo l’uomo l’animale maggiormente in pericolo, ebbe bisogno d’aiuto, di protezione; ebbe bisogno dei suoi simili, dovette esprimere le sue necessità, sapersi rendere comprensibile - e per tutto questo gli fu necessario, in primo luogo, ‘coscienza’, gli fu necessario anche ‘sapere’ quel che gli mancava, ‘sapere’ come si sentiva, ‘sapere’ quel che pensava..l’uomo, come ogni creatura vivente, pensa continuamente, ma non sa; il pensiero che diviene cosciente ne è soltanto una piccola parte <qui viene prefigurato l’inconscio freudiano, ma per Nietzsche esso non è un fatto psicologico, bensì un radicamento istintivo e passionale nel corpo>, diciamo pure la parte più superficiale e peggiore <il piano della coscienza e della ragione, quindi, è l’aspetto più superficiale e più cinico dell’uomo>: infatti soltanto questo pensiero consapevole si determina in parole <vedi la ‘coscienza’ di Lutero che si determina nella ‘Bibbia’>, cioè in segni di comunicazione, con la qual cosa si determina l’origine della coscienza medesima..L’uomo inventore di segni è insieme l’uomo sempre più acutamente cosciente di sé; solo come animale sociale l’uomo imparò a diventar cosciente di se stesso - è ciò che egli sta facendo ancora, ciò che egli fa sempre di più. Come si vede il mio pensiero è che la coscienza non appartenga propriamente all’esistenza individuale dell’uomo <cioè libera>, ma piuttosto a ciò che in esso è natura comunitaria e gregaria <chi si verbalizza prima non è l’individuo libero, ma quello schiavo>; e che di conseguenza ognuno di noi, con la migliore volontà di comprendere se stesso nel modo più individuale possibile, di ‘conoscere se stesso’, pur tuttavia renderà sempre oggetto di coscienza soltanto il non individuale, quel che in se stesso è esattamente la sua ‘misura media’; che il nostro stesso pensiero viene continuamente, per così dire, adeguato alla maggioranza e ritradotto nella prospettiva del gregge a opera del carattere della coscienza, del ‘genio della specie’ <uniformità antropologica> in essa imperante. Tutte quante le nostre azioni sono in fondo incomparabilmente personali, uniche, sconfinatamente individuali, non v’è dubbio; ma appena le traduciamo nella coscienza <e nella scienza>, non sembra che lo siano più..Questo è il vero fenomenalismo e prospettivismo, come lo intendo io <il prospettivismo, quindi, è una proiezione della coscienza, di conseguenza un appiattimento, la scienza stessa non è altro che ‘prospettivismo’, al di là di esso resta la realtà incomprensibile dell’individuo e della sua ‘necessità’>; la natura della coscienza animale implica che il mondo, di cui possiamo aver coscienza, è solo un mondo di superfici e di segni, un mondo generalizzato, volgarizzato; che tutto quanto si fa cosciente, diventa per ciò stesso piatto, esiguo, relativamente stupido, generico, segno distintivo del gregge; che a ogni farsi della coscienza è collegata una grande fondamentale alterazione, falsificazione, riduzione alla superficialità e generalizzazione. Lo svilupparsi della coscienza non è, infine, senza pericolo, e chi vive tra gli ipercoscienti europei sa anche che è una malattia <vedi intellettuali>..noi ‘sappiamo’ <in quanto ‘coscienza’> precisamente tanto quanto può essere vantaggioso sapere nell’interesse del gregge umano, della specie” (F. Nietzsche - “La gaia scienza” 334). La “coscienza”, con il suo appiattimento, ci espone anche a pericoli, nel momento, ad esempio, in cui non distingue più i nemici dagli amici (vedi pacifismo). Il passo-capolavoro appena citato ci rende consapevoli del fatto che le persone che hanno più coscienza sono anche quelle più schiave della comunità. Questo legame intrinseco tra “coscienza” e “comunità”, spiega bene perché un idiota come Heidegger, fanatico sostenitore di una visione chiusa della “coscienza”, abbia poi aderito alla comunità nazista quasi automaticamente. E questo è il volto misero della coscienza.
    Quello che è avvenuto da Spinoza a Nietzsche, ma non viene riconosciuto a livello di filosofia idealistica, marxista, positivista, religiosa, scientista, ecc., è l’innalzamento dal corpo al livello della coscienza, il che permette una maggiore consapevolezza della propria singola diversità, libertà, individualità e comporta quindi una regressione della coscienza interiore e della sua automatica sudditanza alla comunità, cioè al nesso uomo-uomo creato, come dice a ragione Nietzsche, sulla base della paura per la propria sopravvivenza. Coscienza, comunità e paura, in sostanza, si alimentano a vicenda. Quando si segue l’istinto si ha minore paura. Senza la coscienza interiore non esisterebbe alcun linguaggio, alcun concetto sociale, ci sarebbero solo rapporti istintivi, passionali, ma veri e autentici. La tirannia della società passa attraverso quel traditore interno di noi stessi che è la “coscienza”. La coscienza è il nostro nemico interno, ciò che Stirner, per i protestanti, definiva “polizia segreta”: “Il protestantesimo ha fatto dell’uomo propriamente un ‘Stato di polizia segreta’. La ‘coscienza’, spia sempre all’erta, sorveglia ogni movimento dello spirito..Questa dilacerazione dell’uomo in ‘impulso naturale’ e ‘coscienza’ (plebe interiore e polizia interiore) costituisce il protestante” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). La “coscienza” è l’interiorizzazione degli interessi altrui, della comunità. Ora, non si pretende che si diventi sfruttatori della gente, il rispetto è più che sufficiente, ma avere tanta coscienza da farsi schiavi del prossimo con la “bontà” è qualcosa che merita il più profondo disprezzo, disprezzo che coinvolge sia la coscienza che la comunità. I protestanti sono ossequiosi della comunità, fino al servilismo, fino a seguire Hitler nella catastrofe, perché la coscienza alimenta nella misera interiorità il “senso di colpa”. E l’uomo cade in continuazione nei trabocchetti della coscienza, questa spia interiore della comunità, attraverso il linguaggio, i concetti, la logica, la comunicazione, la scienza. Quando, poi, l’uomo fa o segue la politica, allora è il più miserevole dei protestanti, pensa di avere Dio stesso nella coscienza e quindi il criterio stesso del bene e del male da imporre all’intera comunità. Nessuno è più detestabile del prete, del politico e dello scienziato, tutti animati dallo stesso principio per cui nella loro coscienza pensante si troverebbe la regola dell’universo o dell’umanità. Ovviamente, quando la “coscienza” si è impadronita di un individuo, ogni violazione delle regole della comunità viene vissuta con “senso di colpa”, perché la comunità, il padrone, ritiene “responsabile” nei suoi confronti l’individuo senza avergli neppure chiesto se fosse disposto ad assumersi tale responsabilità. La bontà, la solidarietà sociale sono, appunto, questa “responsabilità” attribuita a priori agli altri, come se gli altri fossero tenuti moralmente ad occuparsi di noi a prescindere. E su questo abuso, questo esproprio della propria individualità operato mediante quella traditrice di noi stessi che è la coscienza, ritorna Nietzsche nella “Genealogia della morale”: “Questa appunto è la lunga storia dell’origine della responsabilità. Quel compito di allevare un animale che possa fare promesse, implica in sé, come già ci siamo resi conto, quale condizione e preparazione, il più immediato compito di rendere l’uomo, sino a un certo grado, necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, regolare e di conseguenza calcolabile..La superba cognizione dello straordinario privilegio della responsabilità..è divenuta istinto, istinto dominante; quale nome <verrà dato>..a questo istinto dominante..? Ma non v’è dubbio: questo uomo sovrano lo chiama la sua coscienza..E’ possibile indovinare in anticipo che il concetto di ‘coscienza’..ha già dietro di sé una lunga storia e metamorfosi di forme..è un frutto maturo, ma anche un frutto tardivo - quanto a lungo questo frutto dovette pendere aspro e acerbo all’albero! <per tutta la preistoria non si parlò troppo di ‘coscienza’, con la civiltà, in mille forme diverse, il principio della responsabilità-coscienza divenne sempre più forte e con esso divenne sempre più forte la tirannia della comunità>..Ma come è venuta al mondo quell’altra ‘tetra faccenda’, la coscienza della colpa, tutta quanta la ‘cattiva coscienza’?..Il valore della pena deve essere quello di destare nel colpevole il sentimento della colpa, in essa si cerca il caratteristico istrumentum di quella reazione psichica che prende il nome di ‘cattiva coscienza’, di ‘rimorso’” (F. Nietzsche - “Genealogia della morale” 2° dis. 2, 3, 4, 14). Non solo nella storia dell’umanità la “coscienza” è un frutto tardivo, ma anche in ogni individuo che nasce è un frutto tardivo. Infatti quello che chiamiamo “coscienza” non sorge, completamente, prima dei tredici o quattordici anni. Il bambino, specie nei primi anni, è praticamente “senza coscienza”, per questo è felice. L’adorazione che i romantici ebbero verso i bambini (fino al “fanciullino” di Pascoli) e gli animali, nasconde questo rimpianto di un’età “senza coscienza”, di una nativa età dell’oro: è l’idea stessa di “Paradiso perduto”. Il senso di colpa che sorge a una certa età è dovuto per intero alla “coscienza”. I tedeschi non abbandonarono Hitler per “senso di colpa”, perché il tradimento della comunità viene imposta dalla coscienza come colpa (Socrate ne è l’esempio più clamoroso e più demenziale, sullo stesso livello di Gesù Cristo: “sia fatta la tua volontà”, in realtà l’espressione rimanda sempre alla volontà della comunità), così, per non tradire la comunità, si tradisce se stessi. La responsabilità, da cui viene fatto nascere il senso di colpa, rappresenta l’appropriazione della vita dell’individuo ad opera della comunità, la quale si attende da lui un determinato comportamento, o professionale o comunque protettivo, perché la comunità dà per prendere, per prendere anche la vita della persona. Sembra, addirittura, che per “responsabilità” alcuni professionisti: pompieri, poliziotti, capitani di navi, ecc., abbiano perfino il dovere di morire. Non si sputerà mai abbastanza sulla comunità, sulla coscienza, sulla responsabilità, sono i nostri veri tiranni.         
   

  

Roma, 30 gennaio 2016



  

lunedì 25 gennaio 2016

TROPPI VECCHI



Fulmineo
precipita il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita”
(Mimnermo - “Liriche” - “Come le foglie”)

“A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro <ottengo>,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parra di tal voglia?”
(G. Leopardi - “Canti” - “Il passero solitario” vv. 50-56)

“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”
(C. Pavese - “Poesie disperse”)

“Quando si muore si muore soli”
(F. De André - “Il testamento”)


Cammina un vecchio,
sembra un sorriso,
ma sono rughe
stampate sul viso,

cammina lento
e pensieroso,
sogna soltanto
l’eterno riposo,

cammina solo,
non ha più amici,
tutti son morti,
come i nemici.

Anziani cadenti
mi vedo intorno,
più e più rinsecchiti
ad ogni giorno,

che più non hanno
diritto al lavoro,
né alla pensione
e a un po’ di decoro,

il gatto vive
alla giornata,
la vita dell’uomo
è troppo allungata:

se non si diverte,
perché vive il vecchio?
Solo per calcolare
le rughe allo specchio?

E’ buono il cibo,
a colazione,
ma amara la sua
degustazione:

sì, io sono solo,
e proprio non voglio
trascinarmi così
senza più orgoglio.

Venisse la morte
senza dolore
e nel sonno profondo
fermasse il cuore,

è già capitato
a tante persone,
e furon cattive
o furono buone,

e, se il destino
inesorabile avanza,
si compia ora qui,
nella mia stanza.

La morte sarà
come una sorella
o la donna sognata,
ancora più bella,

l’abbraccerò come
l’aspettassi da tempo,
già presente nel cuore,
col silenzio, frattempo:

nella sonora città
c’è un silenzio assordante,
troppo alto ho volato
nel cielo abbagliante,

sono troppi gli anni
e nulla più spero:
solo ossa, i miei cari,
giù al cimitero,

perderò, infine,
l’ultimo anello,
prossimo ormai
all’estremo cancello.

Chi muore solo
ha una fortuna:
non lascia dolore
sotto la Luna.


(Carlo De Cristofaro - 24/1/2016)



domenica 24 gennaio 2016

LA PERFEZIONE, LA NATURA, LA DEMAGOGIA PROTESTANTE DEI LAICI, LA FAMIGLIA, IL MATRIMONIO, LE ADOZIONI GAY

   Esiste la perfezione? Se esiste, esiste nella realtà naturale e non in quell’artificio che è la società. La perfezione non è nell'idea, tanto meno è la superiorità (+) o l'inferiorità (-), ancor meno è l'uguaglianza (=). La perfezione è ogni individuo nato, è la differenza tra gli individui e tra i generi, è la differenza stessa. Si può, dunque, dire che la perfezione è la diversità naturale. Come tale, la perfezione non è, non può essere, non deve essere, un’idea, altrimenti non sarebbe più “differenza”. Se la perfezione fosse un’idea, dato che le idee hanno il carattere dell’unificazione nel concetto, la perfezione diventerebbe un artificio idealistico, platonico, sociale, cosa che non è. Se fosse un’idea la perfezione sarebbe uguaglianza nell’idea e per l’idea. E, infatti, il peggior vizio della demagogia protestante dei laici è proprio quello di considerare l’idea come perfezione e quindi fissare l’ideale nell’eguaglianza. Questo criterio, che può avere un senso nell’artificio sociale, è vera depravazione in senso naturale. Nell’artificio sociale non esiste alcuna perfezione, mentre la diversità resta l’unica perfezione possibile, cioè naturale. La diversità individuale, la diversità sessuale sono, quindi, la perfezione, una società che appiattisca la diversità naturale o che mortifichi la differenza sessuale, con l’idea del “medio”, del “neutro”, del passaggio da una diversità all’altra (“trans” e tutti i derivati) è un mondo che mortifica la natura e la perfezione. Significa voler essere altro da Sé. Voler essere altro da Sé (alienazione) e mortificazione della diversità, negazione della perfezione naturale della nascita, sono la stessa cosa.
    Se la perfezione fosse un’idea, si verificherebbe quello che dice Leopardi: “nulla è né può essere perfetto secondo la frivola idea che noi ci formiamo di una perfezione assoluta, che non esiste, di una perfezione indipendente da qualunque genere di cose ed anteriore ad essi..Certo che nulla è perfetto in un modo che non è, in un modo in cui le cose non sono; e la natura delle cose che sono non può corrispondere a quella ch’é fuor di loro..Noi sognando andiamo a cercare la perfezione di ciò che vediamo, fuori dell’esistenza, mentr’ella esiste qui con noi..immaginando un solo ed assoluto tipo di perfezione, indipendente e antecedente ad ogni sorta di esistenza, tutti gli esseri perfetti debbono essere interamente conformi a questo tipo; dunque tutti perfettamente uguali” (G. Leopardi - “Zibaldone” 1907-1908). La perfezione, dunque, “esiste qui con noi” e non è un’idea svincolata dalla realtà naturale, perché in tal caso l’idea, in quanto tale, porterebbe ad un modello unico in cui sarebbero “tutti perfettamente uguali”. L’uguaglianza, quindi, non ha nulla a che fare con la perfezione, giacché la perfezione reale non è un modello unico, ideale, ma è la diversità naturale, individuale e sessuale, non è assoluta, ma è relativa ai vari individui e ai vari generi sessuali. E non si tratta di qualcosa di semplicemente spirituale o intellettuale, perché, in questo caso, si parlerebbe di idea. La perfezione non è un “Io” astratto, che pensa di essere quello che il suo arbitrio decide, ma è la reale diversità naturale data: quella corporea, individuale, sessuale, caratteriale ecc.., cioè cose che non vengono decise dalla mente, dalla società, dalla cultura, dalle leggi. La diversità non è una semplice e astratta diversità mentale, ma è una diversità completa tra individui e sessi. Se questo non rende Mario diverso da Giovanni quanto è diverso da un marziano, tuttavia la diversità è assoluta nella relatività di Mario e di Giovanni, se non fosse assoluta, Mario si confonderebbe con Giovanni ed emergerebbe l’idea “trans”, che, però, è meramente ideale e quindi falsa. Lo stesso discorso vale tra il maschio e la femmina, la quale è una diversità assoluta relativa a due individui diversi. Se non fosse così, il maschio si confonderebbe con la femmina e viceversa, si avrebbe l’idea “trans”, che confonde i sessi nella morta “neutralità” (transgender). La diversità, quindi, deve guidare nel giudicare ciò che è perfetto e ciò che è artificioso nei rapporti umani. L’amicizia è il sentimento che lega due “diversi” individui, ma non li confonde in nessun modo, l’amore è un sentimento che lega due “diversi” individui e due “diversi” sessi. Se nell’amore non ci fosse un’assoluta diversità tra i due individui vincolati, quindi individuale e sessuale, il maschio si confonderebbe con la femmina e viceversa, emergerebbe l’idea di “trans” (transessuale, transgender), che, però, è meramente ideale e quindi falsa.
    Natura, diversità, perfezione, quindi, sono la stessa cosa. Quando reputiamo non perfetto qualcosa di naturale lo facciamo sempre in base ad un pregiudizio ideale o sociale (ad esempio l’idea giudica imperfetto il labbro leporino, in tal modo si giudica la natura imperfetta, ma in tale caso, come diceva Leopardi, si valuta una cosa con un'altra, si valutano quelli che hanno il labbro leporino sulla base di quelli, la maggioranza, che non lo hanno: “certo che nulla è perfetto in un modo che non è..la natura delle cose non può corrispondere a quella ch’è fuor di loro”). La perfezione naturale è, dal punto di vista morale, superiore ad ogni discrezionalità ideale e sociale. Ne consegue che non può essere reato cedere all’imperfezione dell’artificiale, ma resta pur sempre un’inferiorità morale. Quando le imperfezioni artificiali diventano il modo stesso di essere di una società, vuol dire che questa società è composta da pervertiti.
    Fino a trenta anni fa gli omosessuali cercavano solo rispetto per le loro tendenze innaturali, cioè volevano che la società non li punisse, non li perseguitasse. E questo era giusto perché la violenza su un individuo non è mai giustificata. Da un certo momento in poi, però, per un processo di egualitarismo borghese dilagante, animato dalla demagogia protestante dei laici (che espelle dalla persona il corpo e la natura, quindi anche la differenza individuale e sessuale: è noto che il protestante considera “Io” solo l’anima che lo congiunge a Dio, mentre considera il corpo legato al peccato, secondo l’insegnamento di San Paolo che Lutero riprende), laici che affermano ovunque uno snaturato principio di uguaglianza, si è equiparata sempre di più la diversità individuale nell’indifferenza e sostituibilità degli individui (società industriale) e la differenza sessuale nell’indifferenza (transgender) e sostituibilità tra eterosessuali ed omosessuali. A questo punto gli omosessuali non hanno più voluto semplicemente essere lasciati in pace, hanno cominciato ad aggredire, per farle proprie, le istituzioni che riflettevano la diversità naturale, come la famiglia, il matrimonio, aggiungendo perfino la volontà di avere figli. Dato il pregiudizio laico di uguaglianza, che non distingue più le diversità naturali e quindi ha perso lo stesso concetto morale della perfezione, perdendo quello di diversità, tutta l’opinione pubblica ha finito, stupidamente, per appoggiare queste richieste arroganti degli omosessuali (hybris greca), aggiungendoci sempre quel buonismo che fa passare gli omosessuali per vittime a priori, anche quando fanno richieste arroganti e contro natura. In quanto categoria delle vittime, gli omosessuali hanno sempre ragione nel parere dell’opinione pubblica, in quanto fanno richieste accessibili a tutti gli eterosessuali, cioè farsi una famiglia, sposarsi, avere figli: in questo caso scatta subito lo stupido riflesso condizionato mentale del principio di “uguaglianza”, che comporta il consenso di un’opinione pubblica sempre più in preda alla demagogia protestante, la quale usa in astratto concetti come “Io”, “persona”, “amore”, a prescindere da chi ne è l’artefice. C’è da meravigliarsi che non si parli di matrimonio tra un uomo e un cane o tra padre e figlio, in fondo c’è “amore” tra di loro. Se si pensa che il sesso non ci può essere (non dovrebbe) tra uomo e cane o tra padre e figlio, per cui non sarebbe amore completo, occorrerebbe anche notare che il sesso non è solo un piacere arbitrario della mente (chiamiamo sesso quello di un individuo che raggiunge l’orgasmo strofinandosi con un lampione?), ma è anche una conformazione fisica, basata sulla diversità, giacché il sesso completo non è la procreazione, ma avviene tramite gli organi riproduttivi, cosa che negli omosessuali non avviene. Gli omosessuali hanno una sessualità che tende ad escludere gli organi riproduttivi e la diversità sessuale. L’omosessualità vive di un piacere costruito mentalmente e che vede solo la mèta come un individuo del proprio sesso, dimenticando il proprio corpo (alienazione tipicamente protestante), proprio corpo che viene usato in modo da sostituire, in modo goffo, il sesso reale che manca. L’omosessualità è una negazione della diversità a livello sessuale e quindi è una negazione della perfezione naturale. Che i pregiudizi sociali oggi non comprendano più questo appare ovvio, visto il livello di alienazione mentale a cui porta l’egualitarismo spirituale protestante dei laici. Armati del proprio vittimismo e dell’egualitarismo, gli omosessuali si integrano nella perfetta società borghese: fanno famiglia, si sposano, vogliono figli, tutte cose che fatte da loro diventano ridicole. Non vogliono sentirselo dire che sono ridicoli, si arrabbiano per la frustrazione, ma qui si dice solo quello che si pensa e non si compiace nessuno.
    Anni addietro, quando si rifiutava la società borghese, si rifiutava la famiglia, oggi la vuole anche chi non potrebbe averla, come gli omosessuali. La famiglia, nelle generazioni educate dagli anni Sessanta, era un luogo di autorità, esattamente come la fabbrica, un luogo di padroni e servi: “In mancanza di déi abbiamo dovuto inventare delle potenti astrazioni, nessuna delle quali ha maggiore potere distruttivo della famiglia. Il potere della famiglia risiede nella sua funzione di mediazione sociale. Esso consolida il potere effettivo della classe dirigente in qualsiasi società basata sullo sfruttamento” (D. Cooper - “La morte della famiglia”). E’ paradossale che, mentre 45 anni fa (il libro è del 1971), si voleva la morte della famiglia, ora vogliano farsi una famiglia anche gli omosessuali. L’imborghesimento va di pari passo con l’assolutizzazione del pregiudizio di uguaglianza, che genera solo un continuo e mostruoso “indifferenziato”. C’era, sì, 40 anni fa, un certo pregiudizio ideologico, perché non tutte le famiglie erano strutture autoritarie che riproducevano la struttura autoritaria dello Stato o della fabbrica e non tutte le famiglie riproducevano lo schema autoritario che la Chiesa attribuiva a questo nucleo naturale. Insomma pensare che non possa esistere un nucleo naturale della famiglia era ed è un pregiudizio. Ora, invece, tutti vogliono la famiglia, anche coloro che, per natura, non possono averla, cioè gli omosessuali. L’omosessuale può avere una famiglia solo come figlio della propria famiglia di origine. Non si può parlare di “famiglia” là dove c’è solo il generico termine “amore”. L’amore non fa una famiglia, può generare convivenza, ma non una famiglia. La convivenza è compresa nella famiglia, ma non la esaurisce. Vediamo un paio di definizioni di “famiglia”: “Nucleo fondamentale della società umana costituita da genitori e figli” (“Dizionario Zingarelli”), poi: “insieme di persone congiunte da stretti vincoli di sangue (padre, madre, figli) per lo più conviventi” (“Dizionario enciclopedico Sansoni”). Come si vede dalla seconda definizione, la convivenza è anche un fatto relativo della famiglia. La famiglia può anche essere considerata un “nucleo fondamentale della società”, ma è un fatto che essa auto-sussiste, tanto è vero che può anche agire contro l’interesse della società. Auto-sussiste perché i legami affettivi familiari sono “personali”, il familiare non è e non deve essere semplicemente il bravo cittadino trasferito nel nucleo minimo della società. E’ quindi opportuno non esaltare troppo il presunto ruolo sociale della famiglia, tale ruolo è sempre frutto di retorica ed è comunque una sovrastruttura rispetto alla famiglia naturale vera e propria. La verità delle famiglie è che sono nuclei anarchici, spesso combattuti dalla società e dal potere. La famiglia patriarcale di una volta era certamente autoritaria al suo interno, ma è stata anche a lungo diffamata dal potere sociale, perché si opponeva più efficacemente a questo potere sociale, mostrando la natura anarchica di ogni vera famiglia fondata sui sentimenti. Tuttavia il vero punto che, nelle due definizioni fornite, costituisce l’essenza della famiglia è, oltre ai sentimenti, che retoricamente vengono detti “amore” (questa retorica dell’amore è stata usata abbondantemente, in modo anche nauseante, nella manifestazioni a favore delle famiglie omosessuali e a favore delle adozioni gay), il legame naturale “procreativo”, che, nella prima definizione, emerge dall’espressione “costituita da genitori e figli” (il genitore, in natura, non è colui che viene registrato all’anagrafe come tale, ma è solo chi “genera”, cioè “procrea” o si ritiene possibile che possa procreare, quindi genitori possono essere solo un uomo e una donna), mentre nella seconda definizione è ancora più esplicito: “persone congiunte da vincoli di sangue (padre, madre, figli)”. Questo vuol dire che la famiglia è anche un nucleo con finalità procreative, ciò al di là del fatto che vengano realizzate o meno. Le finalità procreative devono sussistere nei corpi, quindi la famiglia può essere costituita solo da un maschio e da una femmina, non da due femmine o da due maschi. Le famiglie omosessuali sono false famiglie. Nella famiglia, quindi, entrano anche i figli, ma, per quanto attiene ai genitori, vi deve essere un sentimento di innamoramento e una potenziale finalità procreativa (finalità che non esaurisce il sesso, ma è, invece, fondamentale per poter chiamare “famiglia” una “coppia”). Gli omosessuali, perciò, non possono e non devono fare una famiglia, sarebbero ridicoli e goffi come la vecchia imbellettata che vuole apparire giovane di cui parlava Pirandello. Gli omosessuali hanno mostrato “arroganza” e hanno cominciato a dare fastidio, non quando, a ragione, chiedevano di non essere perseguitati e disturbati nella loro vita privata, ma quando hanno cominciato a voler apparire quello che non sono e per natura non possono essere.
    La famiglia viene sancita ufficialmente nel matrimonio. Anni addietro il matrimonio, in quanto fondante la “famiglia”, veniva addirittura detestato (anche lo scrivente non lo vede di buon occhio): “il solo male del divorzio è che è preceduto dal matrimonio” (D. Cooper - “La morte della famiglia”), oggi vogliono sposarsi anche gli omosessuali, che non potrebbero e quindi non devono. La famiglia, certo, può esistere anche fuori del matrimonio. Il matrimonio è sicuramente il modo in cui la Chiesa ha tentato di impadronirsi della famiglia, tuttavia, proprio per questo, appare paradossale che gli omosessuali pretendano ora di fare matrimoni omosessuali. Evidentemente il delirio del pregiudizio di uguaglianza protestante dei laici non conosce limiti. Dato che, in ogni caso, questo atto ufficiale chiamato “matrimonio” va a costituire una “famiglia”, ne consegue che gli omosessuali non possono sposarsi e quindi non devono. La definizione dello Zingarelli lo dice esplicitamente: “Matrimonio - Accordo tra un uomo e una donna stipulato alla presenza di un ufficiale dello stato civile o di un ministro del culto” (“Dizionario Zingarelli”). Ciò viene confermato anche dalla seguente definizione: “Matrimonio - Unione fisica e morale dell’uomo (marito) e della donna (moglie), disciplinata dalle consuetudini, dalla legge, dalla religione, come fondamento della società familiare e per la perpetuazione della specie” (“Dizionario enciclopedico Sansoni”). Il matrimonio, quindi, come la famiglia, non ha per scopo solo l’affetto reciproco o il fare sesso, queste cose sono possibili anche fuori del matrimonio e della famiglia, ma perseguono anche e soprattutto la procreatività. Il matrimonio può anche non dare figli, ma ciò non toglie che nel suo scopo entri anche il fare figli. Farli, non adottarli, prima di tutto. Quindi è ovvio che, così come una famiglia fatta da omosessuali è innaturale perché, per natura, non possono essere genitori, allo stesso modo è contro natura che gli omosessuali si sposino. L’atto ufficiale può essere fatto lo stesso, perché dipende dall’arbitrio della società e dall’artificio della legge, ma gli omosessuali, comunque, non sono sposati perché non costituiscono una famiglia. Che le “unioni civili” siano nate da un ridicolo scimmiottamento del matrimonio è fuori di dubbio, anche se i motivi potevano essere seri, come ad esempio poter usufruire di alcuni diritti dovuti al legame con il proprio partner. Questi diritti civili potevano benissimo essere sostenuti da leggi fatte ad hoc per tutelarli, invece si è preferita la via demagogica delle “unioni civili”, che sono uno scimmiottamento demagogico del matrimonio (si parla della demagogia protestante dei laici). Appoggiare gli scimmiottamenti è da idioti. Si facciano pure le “unioni civili”, se servono a tutelare dei diritti, ma si tengano separate le “unioni civili” dal “matrimonio”. Io non considererò mai “sposati” due omosessuali e non ho intenzione di adeguarmi a nessuna legge che pretenda di impormelo.
   Dopo quanto detto appare ovvio che le adozioni gay sono innaturali e violano uno dei principi che fondano la “famiglia”, cioè la procreatività. Gli omosessuali non possono dare una famiglia a dei bambini (che solo artificialmente possono ottenere: inseminazione artificiale, utero in affitto, adozione: le prime due del tutto detestabili moralmente, perché chiara strumentalizzazione del corpo altrui), giacché non costituiscono una famiglia e non sono mai sul serio sposati. L’amore come concetto metafisico-protestante, questa degenerazione del cristianesimo stesso, esiste solo sulla Luna.



  



mercoledì 20 gennaio 2016

IL TAOISMO, LA NATURA, LA DESTRA E LA SINISTRA

1) "Gli antichi, se con la perdita di un sol pelo avessero avvantaggiato il mondo, non l'avrebbero dato <contro il cristianesimo e la sinistra>; se tutto il mondo fosse stato offerto a loro soli, non l'avrebbero preso <contro la destra>. Quando tutti non perdono un sol pelo e tutti non avvantaggiano il mondo, il mondo è in ordine <naturale>" ("Lieh-tzu" 99)

2) "Tutti riconoscono l'utilità dell'utilità, ma non riconoscono l'utilità dell'inutilità <contro l'altruismo e l'utilitarismo>" ("Chuang-tzu" II, 4, 31)


3) "se allunghi le gambe all'anatra, per quanto corte siano, quella se ne addolora; se accorci le gambe alla gru, per quanto lunghe siano, quella ne soffre. Perciò non si toglie a quello che per natura è lungo, né si aggiunge a quel che per natura è corto <contro il mondo artificiale e sociale>" ("Chuang-tzu" IV, 8, 56)

4) "La mia vita ha un limite, mentre la conoscenza non ha limite. E' pericoloso perseguire ciò che non ha limite con ciò che ha limite. Chi si dedica alla conoscenza non fa che mettersi nei pericoli <contro la conoscenza e la scienza>" ("Chuang-tzu" II, 3, 19)

giovedì 14 gennaio 2016

L'"HYBRIS", O "TRACOTANZA", E LE ADOZIONI OMOSESSUALI

"I Greci antichi con il termine 'hybris' designarono la 'tracotanza', la violenza smodata di chi, incapace di porre alla sua azione un freno nascente dal rispetto dei diritti altrui..varca i limiti di quanto sia retto <qui inteso come 'naturale'>..Questa tracotanza offende direttamente gli dèi..l''hybris' può essere di natura varia. Ogni insistenza in un personale orgoglio che a soddisfazione di una potenza male intesa ci renda poco solleciti del bene altrui, è hybris" (C. Del Grande - "Hybris"). La società moderna è tutta "hybris", ma questa non è una giustificazione per la sua ulteriore estensione. L''hybris' consiste, fondamentalmente, nel voler "superare se stessi", il che diventa, di per sé, una sfida agli dei. In questo senso l'omosessuale che cerca di diventare genitore, in quanto omosessuale, si pone in una posizione di orgoglio posticcio (artificioso, come artificiosi sono l'uso strumentale del seme, l'uso dell'utero in affitto e l'adozione) per equipararsi a ciò che è oltre di lui, cioè la procreatività eterosessuale e naturale. Ho molto rispetto per le persone che, non potendo avere figli, non vogliono avere figli. Ho sempre detestato coloro che vogliono avere quello che, per natura, non possono avere, consiste esattamente in ciò la "tracotanza", cioè l''hybris'. L'avere una pretesa genitoriale è, nell'omosessualità, tracotanza. E' tracotanza anche per il fatto che l'omosessuale, in tal modo, è poco sollecito del bene del bambino. Quest'ultimo, infatti, non è un pacco postale che trova un rifugio adeguato nell'amore di pseudo-genitori (così la superficialità della gente e degli psicologi benpensanti è tutta contenta, mentre occorre ragionare proprio supponendo che i rapporti umani reali, ai quali il bambino andrà incontro crescendo, non sono gestiti da ipocriti benpensanti), ma un essere che avrà rapporti umani esterni alla famiglia: altri bambini, altri genitori, i quali ultimi non sono assolutamente tenuti a pensare che la combinazione di ciò che è innaturale (genitori omosessuali e procreazione) sia poi naturale. Il buon senso di capire ciò, ovviamente, manca alla tracotanza attuale degli omosessuali e all'ipocrita menefreghismo di chi lascia loro spazi che non gli spettano per conformismo "buonista" e per mitologia "egualitarista".





mercoledì 13 gennaio 2016

NON IL CORPO A MISURA DELL'ANIMA, MA L'ANIMA A MISURA DEL CORPO


Il corpo non è un prodotto della tecnica o un'opera d'arte, è la realtà del soggetto (Sé), quindi è superiore materialmente e moralmente alla tecnica e all'arte. "E' essenziale muovere dal corpo, e utilizzarlo come filo conduttore" (F. Nietzsche - "Frammenti postumi" 1884-85 - 40 (15)). La modernità post-protestante, invece, ha riscoperto l'unità di corpo e anima a rovescio, cioè facendo del corpo un camaleonte artificiale che asseconda i desideri e l'arbitrio dell'anima, confermando quel che disse Rousseau: "<l'uomo> non vuol nulla come l'ha fatto natura, neppure l'uomo" (J. J. Rousseau - "Emilio" - lib. 1°). Da ciò nasce il mito dell'ambiguità, del neutro, dell'artificioso, del falso. Il corpo, che è dotato di vita propria istintiva e sentimentale, deve, al contrario, imporsi all'anima ed eliminare quell'alienazione che l'anima porta con sè, rendendo artificioso e ambiguo il corpo. Gli ambigui e i neutri sono delle nullità fisiche e morali.