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domenica 31 dicembre 2017

SESSO, SENTIMENTO E GLOBALIZZAZIONE (un passo del mio libro) - Proprio il sentimento è maggiormente minacciato dalla globalizzazione del mercato che separa gli innamorati, dato che li subordina agli interessi della produzione sociale mondiale e dato che propone mille attività che distraggono dal sentimento stesso. Il sesso si adatta meglio agli interessi economici mondiali, per cui la rivoluzione sessuale si può anche intendere come un contentino che la società borghese ha offerto all’individuo reso schiavo dei mercati e dei cicli produttivi. Con il sesso ci si stacca più facilmente dal proprio amante. Viene anche da pensare che la rivoluzione sessuale sia stata favorita, per un certo periodo, dalla stessa globalizzazione economica, perché rende più facile il distacco da persone e territori e favorisce, quindi, quello “sradicamento”, sia degli imprenditori che dei migranti-lavoratori, che è necessario per poter seguire con successo la globalizzazione economica. Il sesso è potenzialmente più borghese del sentimento personale, quest’ultimo ostacola troppo l’indifferenziato personale che la riduzione a “funzione” della società globale pretende. Tuttavia, allorché la società globale entra in crisi, neppure quel contentino che è il sesso viene concesso (di qui il riflusso contro la rivoluzione sessuale), perché la globalizzazione si concentra sull’idea di unità e ordine, rispetto alla quale la passione sessuale è sempre pericolosa, più o meno come può esserlo la droga, l’alcool, il gioco, che, non a caso, vengono sempre più demonizzati, quanto più la globalizzazione trova la sua dimensione di ordine sociale obbligatorio.

domenica 26 novembre 2017

DENUNCIA CONTRO FACEBOOK
(mafia internazionale e dittatura gay?)

ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI ROMA
PIAZZALE CLODIO
e p.c. a Facebook
Piazza Missori, 2 - Milano (20122)
al giornale “Il Tempo”
al giornale “Libero”
al giornale “Il fatto quotidiano”

    Il sottoscritto prof. Carlo De Cristofaro, residente in Via... - Roma.., presenta querela nei confronti di Facebook, nella persona dei suoi legali rappresentanti in Italia (Milano - Via Missori, 2 - 20122) o ovunque si trovino, per la verifica della presenza dei seguenti reati: Ingiuria (594 c.p.), Diffamazione (598 c.p.), Minaccia (612). Nel considerare la questione si prega di tenere presente che Facebook, privata o no che sia, svolge un’importante funzione sociale e quindi non può essere considerata al di fuori dell’interesse pubblico, di conseguenza anche la sua limitazione arbitraria verso una persona dovrebbe essere considerata perseguibile penalmente.
    Questi i fatti: in data 25 novembre 2017 il sottoscritto ha pubblicato il post seguente (ricostruito  a memoria): BISESSUALITA’=AMBIGUITA’ - I bisessuali, fino a quando non hanno legami, possono fare quello che vogliono, perché devono rendere conto solo a se stessi. Ma, se si legano ad un partner eterosessuale, restare bisessuali significa rifiutare il proprio partner eterosessuale sia come “individuo” che come “genere”. Infatti andare con una persona del proprio sesso indica che, rispetto al partner eterosessuale, si va sia con un “altro” individuo e sia con un “altro” genere sessuale, il che nella sostanza è rifiuto del proprio partner (una specie di poligamia sessuale). Questo significa ambiguità nel rapporto. Non è obbligatorio essere accondiscendi con chi è ambiguo, anzi bisogna combattere le ambiguità”. Questo post è stato cancellato da Facebook e, a seguito della sua pubblicazione, Facebook ha bloccato il mio account Facebook per 24 ore, minacciando di farlo definitivamente in caso di nuove pubblicazioni del genere, potendo perfino danneggiarmi, visto che è una modalità di comunicazione con persone lontane. Le scritte, che apparivano in inglese, tradotte in italiano erano le seguenti: “Non puoi pubblicare adesso. - Potresti aver usato facebook in un modo che il nostro sistema considera insolito, anche se non volessi. Puoi postare di nuovo tra 24 ore” - “Grazie per averci fatto sapere chiudi. Esamineremo le attività recenti del tuo account rispetto ai nostri standard comunitari”. Poiché, visto che nel post non c’erano né foto oscene e né parole scurrili, il motivo non può essere che quello della violazione degli standard comunitari relativi all’incitazione all’odio, in tal modo si offende l’onore della mia persona (Ingiuria), si diffama la mia persona (Diffamazione) si minaccia un ingiusto danno (la chiusura di Facebook). Il tutto stabilito discrezionalmente con una parola, “insolito”, come se uno strumento sociale dovesse essere solo un veicolo del “solito”. Questo si deduce dal fatto che Facebook indica le seguenti caratteristiche come fondamento del suo standard comunitario: Le persone possono usare Facebook per mettere in discussione idee, istituzioni e linee di condotta in modo da promuovere il dibattito e una maggiore comprensione. Talvolta si condividono contenuti altrui che incitano all'odio con lo scopo di sensibilizzare o informare le altre persone riguardo ai discorsi di incitazione all'odio. In questo caso, ci aspettiamo che le persone indichino chiaramente la loro intenzione, aiutandoci a capire meglio perché hanno condiviso tale contenuto”. Io sono un filosofo e faccio riflessioni che possono anche andare controcorrente rispetto all’opinione pubblica attuale e Facebook non ha rispettato quello che esso stesso afferma, cioè che Facebook si possa usare “per mettere in discussione idee”. Facebook censurerebbe anche Leopardi e Nietzsche, dato che i loro scritti e concetti erano certamente “insoliti”? E nel mio post si metteva solo in discussione l’idea della bisessualità, affermando che conteneva un’ambiguità, rispetto ai compagni etero, che le persone corrette non possono accettare. Null’altro. Si è trattato quindi di una censura vera e propria, perché evidentemente Facebook ha una impostazione ideologica e politica non confessata, ma, dato che la rimozione del mio post e addirittura la minaccia della chiusura del mio account sono giustificabili solo per “discorsi che incitano all’odio”, questo vuol dire che, di fatto, sono accusato di questo da Facebook e questo è ingiuria, diffamazione, minaccia. D’altra parte, se fosse vero che i miei ragionamenti e le mie conclusioni incitano all’odio, ammesso che ci sia un reato di incitamento all’odio e che la libertà di opinione (perché questo deve intendersi per la “libertà di espressione” prevista dalla Costituzione) sia una presa in giro in vigore da svariati decenni, voglio andare in galera per dimostrare agli italiani che quella libertà di espressione non esiste. Di certo non esiste su Facebook, che, in quanto strumento sociale di interesse pubblico non può praticarla in nome di un discrezionale “standard comunitario”. O c’è la libertà di opinione completa o Facebook deve chiudere, perché la libertà di espressione non può essere affidata ad una discrezionalità privata che sostiene di avere dei non ben definiti “standard comunitari”. In questo modo si minaccia la democrazia italiana che consente l’opinione e il dissenso, il governo e l’opposizione, l’essere bisessuali e il rifiuto di esserlo. Se, in particolare nel post cancellato e che avrebbe provocato la censura di Facebook, invece non si configura alcun incitamento all’odio, ma solo un’opinione che dissente da certe tendenze attuali (è vietato dissentire dall’opinione pubblica? Su facebook o altrove? Se è così sono il peggior delinquente che possa esserci sulla faccia della terra: dissentire dall’opinione pubblica è quasi una caratteristica innata della mia personalità), allora Facebook mi sta diffamando e mi sta minacciando di un ingiusto danno.

sabato 2 settembre 2017

I DIECI COMANDAMENTI 

In realtà solo uno, quello che dice: "Non..desiderare alcuna cosa del tuo prossimo" (Es. 20,17). La società moderna nega completamente questo comandamento. Già il commercio e l'industria, fondandosi sullo scambio, hanno una logica dello "scambio", ognuno desidera la roba altrui. Questa logica è stata supportata dall'ipocrisia cristiana del "dono", che è una sublimazione dello scambio commerciale (visto che la reciprocità è sottitentesa, infatti chi non dona viene guardato male). Poi questa mentalità cristiano-commerciale è stata estesa a tutto, si scambiano i territori con i migranti, si scambiano gli organi con i trapianti, si scambiano i cervelli con le scuole. Tutti desiderano, non solo la roba d'altri, ma perfino il cervello e il corpo degli altri. E' insieme alienazione di sé e arroganza predatoria.

mercoledì 16 agosto 2017

IL TAO
(Wu-wei o non-agire)

    Con la “Rivoluzione scientifica”, che portò anche alla “Rivoluzione industriale”, cioè la volontà di dominio dell’uomo sulla natura e quindi anche della mente sul corpo (auto-addomesticamento o morale dello schiavo), si portò a termine una prospettiva ideologica e un lavoro iniziati col neolitico nel 10000 a. C.. L’arroganza di questa prospettiva scientifica è chiara da queste parole: “Questo è il mio intento..far avanzare verso i confini proposti il dominio dell’uomo sull’universo, le cui attuali angustie non saranno mai abbastanza deplorate” (F. Bacon (Bacone) - “Il parto mascolino del tempo (o ‘La grande instaurazione dell’impero dell’uomo sull’universo’)”). La scienza, come la religione e la politica, è questa arrogante volontà di dominio sull’universo, che schiavizza anche gli esseri umani. Il dominio dell’uomo sull’universo e sulla natura originaria dell’uomo stesso viene chiamato “progresso” e consiste nel fatto che l’uomo “fa” una seconda natura, tramite l’agricoltura, l’allevamento, l’industria, vale a dire “produce”, trasforma la vita del mondo in un bene utile nei confronti di una mente dissociata dal mondo, cioè una mente che concepì l’oltre-mondano e che con la scienza e la tecnica lo sta “realizzando” in terra. “Produrre” significa “dominare”, cioè “rifiutare” il mondo naturale, la “produzione”, cioè la dimensione economica della società industriale, non è altro che l’aspetto “pratico” di quel rifiuto del mondo che era l’ascetismo, il quale ultimo rimane fermo all’aspetto teorico e mentale. “Produrre” significa che il mondo deve diventare qualcosa di “fatto” dall’uomo e quindi di conosciuto e dominato, là dove il mondo naturale, in quanto non “prodotto” e non “fatto” dall’uomo, non è né conosciuto e né dominato. Che il conoscere comportasse il fare, lo aveva già intuito Vico (polemizzando, a ragione, con l’idiozia e l’egocentrismo scientifico di Cartesio), per il quale la conoscenza della natura sarebbe possibile solo nell’ipotesi che fosse stata fatta dall’uomo, cioè “prodotta”, per cui la “conoscenza” riporta alla “produzione” e la “produzione” alla “conoscenza”, solo che la natura non è fatta dall’uomo, il quale, perciò, non può conoscerla e nella “produzione” la nega: la produzione è la versione attiva e aggressiva dell’ascetica negazione del mondo. Dice Vico che l’uomo non conosce il mondo perché non lo fa (in tal senso l’uomo conosce la macchina, non i corpi naturali, supporre che i corpi naturali siano macchine, cioè dei “composti”, è l’abuso, la mistificazione che commette la scienza, la quale trasforma così quello che non è stato fatto dall’uomo in qualcosa che è “come se” l’avesse fatto l’uomo e quindi è conosciuto), invece lo conosce Dio perché lo fa, l’uomo, quando fa scienza, si pone nella posizione di Dio: “il vero si identifica col fatto..il primo vero è in Dio..in quanto facitore di tutte le cose..invece la mente umana..in quanto sono fuori di lei tutte le altre cose che non siano essa stessa, può soltanto andare ad accozzare gli elementi estremi delle cose..L’uomo pertanto, quando si accinge ad investigare la natura delle cose, si accorge di non poterla in alcun modo raggiungere non avendo in sé gli elementi da cui sono costituite le cose <cioè non avendola fatta>..Si crea così un mondo di forme e di numeri, che abbraccerebbe dentro di sé l’universo <Vico non credo all’universo scritto in lingua matematica di cui parlavano Cartesio e Galilei>..Da quanto si è finora dissertato, si può senz’altro concludere che il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo fatto” (G. B. Vico - “De antiquissima italorum sapientia” Lib. 1°, I). La scienza, non avendo fatto il mondo, non possiede il criterio e la regola del vero. L’equiparazione di scienza e vero è una mistificazione operata dallo scienziato. La tecnica, essendo il rifacimento del mondo secondo la scienza, è una deterupazione del vero con il falso, è una negazione del mondo, la dimensione operativa (homo faber) dell’ascetismo, ascetismo che, è bene ricordarlo, è sempre una negazione del mondo. Questo “fare”, o tecnica, è quindi una dichiarazione di guerra continua alla natura in generale e anche a quella animale dell’uomo, una mobilitazione che soffoca la libertà e dignità dello stesso uomo nell’organizzazione sociale. La società moderna ha divinizzato il fare umano e la sua produzione, là dove i cacciatori-raccoglitori primitivi, come i nobili animali, esercitavano il “fare” solo nei casi strettamente “necessari”, come uccidere l’animale per ottenere cibo o pelli o raccogliere cibo e materiale dalle piante. Nel mondo produttivo non esiste rispetto né per l’ambiente e né per l’uomo. I cacciatori-raccoglitori non producevano né piante e né animali, fino a quando la necessità non li costringeva ad agire, il loro criterio era il “lasciar stare”, il “non-agire”, ma godere della compagnia degli altri esseri viventi che la natura e il destino gli offrivano come compagni di viaggio nella vita terrena: “L’addomesticamento implicò l’inizio della produzione <del dominio sulla natura e sullo stesso uomo>(J. Zerzan - “Primitivo attuale” 1). Dello stesso genere fu il senso etico-estetico del romantici, che non a caso amavano i primitivi, perché la natura, fin dove non minaccia, fin dove non diventa necessario “agire”, ha il valore etico-estetico della vita e del corpo. A questo principio “antico” si richiamava, con evidenza, la “semplicità” del “non-agire” taoista, che era, allo stesso tempo, principio di rispetto di tutte le cose, giacché “fare” il bene significa avvantaggiare qualcuno o qualcosa, cioè comporta ingiustizia, “fare” il male significa danneggiare qualcuno o qualcosa, cioè comporta, ancora una volta, ingiustizia, il “fare”, dove non è necessario, è sempre ingiusto. La civiltà moderna non è altro che “fare”, perché “dominare” è “fare”, è “produrre” (organizzare, sottomettere sono “azioni”), rispetto a ciò solo il non-agire taoista è etico, il lasciar stare, il non governare: “Il mondo..non si può governare:/ chi governa lo corrompe,/ chi dirige lo svia,/ poiché tra le creature/ taluna precede ed altra segue,/ taluna è calda ed altra fredda,/ taluna è forte ed altra debole,/ taluna è tranquilla ed altra pericolosa” (Lao-tzu - “Tao-te-ching” XXIX - Non agire). Chi non vuole dominare, agisce solo per quanto è necessario e non sente il bisogno di una conoscenza senza limiti, anzi è diffidente verso la conoscenza, perché la Natura sfugge alle “leggi” che l’uomo pensa di imporgli, tanto è vero che la semplicità è più ignoranza che conoscenza, l’ignoranza rinvia alla vita immediata, in cui dominano istinti e sentimenti e tutto va come deve andare: “L’affidarsi nel modo più semplice alla natura, è affidarcisi nel modo più saggio. Oh che dolce e molle capezzale, e anche sano, è l’ignoranza..per una testa ben fatta” (M. De Montaigne - “Saggi” - Lib. 3, XIII). La citazione è pertinente perché esprime l’idea che la giustizia si trova solo al di là del “fare” (artificio, scienza, tecnologia, cultura, ecc.).

“Il Tao in eterno non agisce
e non v’è nulla che non sia fatto”
(Lao-tzu - “Tao-te-ching” - XXXVII)


Dalla panchina,
nel mio angoletto verde,
osservo il cielo
finché l’occhio si perde,

non c’è nessuno
sto solo e son sereno:
discutere non devo
né del più e né del meno,

già va tutto in natura
come deve andare:
la mia gioia è osservare
e lasciare stare.

(19/6/2017)


giovedì 8 giugno 2017

IO E ZERZAN - Ringrazio Domenico, unico mio ex-alunno presente, per la foto. L'incontro con Zerzan è stato interessantissimo, mi sono complimentato con lui per aver delineato, con chiarezza, che l'evoluzione dal neolitico in poi (10000 a.C.) è andata sempre nella stessa direzione: divisione del lavoro con dominio sul mondo, prima con l'agricoltura, poi con l'allevamento, poi con l'invenzione del tempo, del numero, del linguaggio simbolico da cui nascono scienza e tecnica. Ad ogni addomesticamento del mondo corrisponde un sempre maggiore auto-addomesticamento dell'uomo, fino alla nevrosi moderna. Gli ho solo chiesto se, nella società per piccoli gruppi (ha detto una cosa che mi piace: c'è gruppo solo dove ci si guarda in faccia), la personalità individuale è garantita. Ha risposto che, se comporta privilegi no (e io sono d'accordo con lui), ma se comporta la possibilità di dissociarsi e di esporre idee diverse sì, la cosa mi soddisfa perché per me la personalità significa, prima di tutto, indipendenza e varietà di gusti.

lunedì 15 maggio 2017

 CIVILTA’ MODERNA

    Per chi, come me, ha fatto del sentimento una “filosofia sentimentale”, dato che il sentimento è una discriminazione affettiva, distingue un figlio da un estraneo, un padre, un’innammorata, un innamorato, ecc., dal resto dell’umanità, esso, in modo inevitabile, si scontra con l’egualitarismo e l’universalismo allo stesso modo in cui il Romanticismo si scontrò con l’Illuminismo. Il sentimento, dunque, ha, di necessità, una radice aristocratica, ognuno si circonda di quelli che, per lui, sono i migliori, perché i migliori sono quelli che ama personalmente, anche se questo non avviene per una scelta razionale, ma per circostanze che generano affettività. Il sentimento è figlio del caso, non della scienza, trova o non trova il suo riferimento secondo il destino. Il sentimento può esistere solo in questa discriminazione aristocratica, quando si pretende di amare tutti (cristianesimo) o di essere solidali con tutti (sinistra), è proprio il sentimento che si cancella, per questo è cattivo gusto voler compiacere a tutti, una mentalità servile: “Non si vuole vivere con tutti, né si può vivere per tutti; chi se ne rende conto saprà stimare molto i propri amici e non odierà né perseguiterà i propri nemici” (J. W. Goethe - “Massime e riflessioni” 396). Chi ama tutti, non ama nessuno. Il fatto, quindi, che il sentimento nasca e seguiti a sussistere solo nella “discriminazione” è cosa che l’astrattezza razionale della moderna coscienza illuminista, progressista, economica e globalizzante non riesce proprio a comprendere. Il sentimento non è moderno e seppellirà la modernità: sarà la vendetta romantica. Il sentimento, ovviamente, si estende con maggiore o minore profondità ad ambienti e popoli, non è indifferente ad ambienti e popoli, quindi discrimina anche ambienti e popoli. E’ nella natura individuale del sentimento, che vive sempre nell’hic et nunc. Il sentimento non comprende lo spirito universale, perché questo spirito universale è astratto: non distingue nulla e non discriminando un padre o una moglie da un estraneo, un ambiente caro da un ambiente che è estraneo, un popolo al quale, in qualche misura (mai del tutto, perché l’individuo viene prima dei popoli), si è legati da popoli estranei e perfino culturalmente ritenuti spregevoli, tutta questa indistinzione, si diceva, distrugge il sentimento e la sua realtà affettiva che si estende negli spazi concentrici e circoscritti dell’hic et nunc in cui l’individuo vive. La discriminazione personale, di ambiente, di popolo che il sentimento genera nell’hic et nunc ovunque, si rafforza discriminando, fino a farsi aristocratico, quando, avendo di fronte l’ipocrisia generale, giunge a diventare: “il piacere aristocratico di dispiacere” (C. Baudelaire - “Razzi” XII). Se si vuole piacere a tutti, non si ama nessuno e non si riconosce l’affetto che persone specifiche hanno per noi. Ovviamente questa discriminazione aristocratica non può avere la pretesa di essere “assoluta”, deve essere cosciente di dover convivere con i sentimenti altrui e con le discriminazioni aristocratiche altrui. Ma cosa rende “assoluta” una discriminazione aristocratica? La ragione, con il suo universalismo ed egualitarismo è l’Illuminismo che rese assoluto il culto nazista della “aristocraticità” della razza germanica, perché solo la ragione rende assoluta una diversità, provocando la gerarchia razziale, il sentimento, invece, discrimina anch’esso, ma senza gerarchia, nel senso che ognuno discrimina sentimentalmente per conto suo, per selezione individuale. Il sentimento è discriminazione, ma mai discriminazione di Stato.. Chi si attiene alla discriminazione aristocratica del sentimento sa che questa discriminazione si basa, come capitava nel Romanticismo, sulla diversità e quindi rifiuta l’ipotesi di un mondo tutto uguale e universale, ipotesi che porta una diversità a farsi assoluta, come fece il nazismo che voleva tutti “universalmente” e “ugualmente” tedeschi e nazisti e, nell’impossibilità di ottenere ciò, sottomessi ad essi (la sottomissione riafferma l’universalismo di una discriminazione, il marcio non è la discriminazione, ma l’universalismo). La ragione, non il sentimento, è portatrice di quello spirito tirannico che è l’assoluto universale. L’Illuminismo distrusse un’aristocrazia sociale storica, che era una gerarchia che rendeva assoluto il valore di certe famiglie a scapito di altre, e questo fu un suo merito, ma poi creò il vuoto dell’egualitarismo e dell’universalismo che oggi dilaga nella globalizzazione. La globalizzazione non è un destino, ma una costruzione dovuta all’Illuminismo e come tale si sgretolerà. Questo vuoto razionale, che affermò il principio di eguaglianza e l’universale, ignorava la diversità e il fatto che il sentimento si atteneva proprio a quella discriminazione aristocratica che è la diversità naturale. Tale discriminazione, proprio perché non è assoluta e razionale, non comporta una gerarchia e quindi una sopraffazione verso altri individui. Nel sentimento non si vuole avere schiavi, ma si vuole stare con le persone, gli ambienti e i costumi che si amano. Non è una discriminazione sociale, bensì naturale, tuttavia comporta dei rapporti preferenziali che scavalcano la società e riguardo ai quali la società dovrebbe ritirarsi in buon ordine. Anche se la società si è impadronita di certi sentimenti (paterno, filiale, ecc.) facendone dei ruoli caricati da obblighi che vanno al di là dei sentimenti (militarizzazione dei sentimenti), ruoli da cui il sentimento dovrebbe essere liberato, è chiaro che i sentimenti nascono al di là dell’ordine sociale, ne è un esempio il sentimento dell’amicizia: è talmente anarchico che la società non è riuscita a farne un ruolo e ad ingabbiarlo, tutti l’ammettono, ma non ha alcun valore istituzionale o giuridico. Le discriminazioni sentimentali sono legittimate dalla natura e la lotta indiscriminata alle discriminazioni rischia di distruggere ogni sentimento, creando, per colpa della ragione, persone sempre più vuote e quindi sempre più sole ed insicure. Ovviamente questo lo comprese il Romanticismo, mentre l’Illuminismo non lo comprese affatto e ancora oggi borghesi, scientisti, economisti, affaristi, cristiani e comunisti seguitano a non capirlo. L’Illuminismo creò un calderone generale gestito dalla politica di parte (partiti) e dai giornali, politici e giornalisti si presentarono, mistificando, come rappresentanti del nuovo sovrano, che doveva essere l’“opinione pubblica”. L’“opinione pubblica” è una metafisica politica che sposta sul piano sociale quel principio di “uniformità” che la scienza aveva calato su tutta la natura, resa sovrana con la democrazia essa non è una persona, non è un individuo, in pratica “non è”. E’ un’approssimazione matematica che si riempie di contenuti particolari, i quali non hanno alcun diritto di diventare universali e venire imposti a tutti. L’unica “discriminante” che l’uniformità dell’universale, dell’egualitarismo, dell’opinione pubblica riconosce è quella numerica, quella dei voti, del prezzo, del mercato, della statistica, non riconosce le discriminanti personali, naturali e sentimentali. L’“opinione pubblica”, non essendo rintracciabile da nessuna parte, diviene una forma personale che viene sostituita dall’uniformità della ragione o meglio ancora da volontà singole che spacciano i propri interessi per interessi razionali, generali, tipo il filosofo di Platone. L’opinione pubblica è un “entimema”, cioè una semplice “considerazione mentale”, una realtà fittizia data per scontata. L’“opinione pubblica”, come sovrano, quindi non esiste oppure è rappresentato dal “luogo comune”, dal “conformismo”, dalla “tirannia della maggioranza”, dal “si” (si dice, si fa), addirittura dalla “volgarità”, come sembrano dire Nietzsche e Baudelaire a proposito della grande città e dei giornali, grande città e giornali (mezzi mediatici) che sono una classica espressione dell’Illuminismo e dell’astratto egualitarismo e universalismo. Grande città e giornali rappresentano quella che io, nei miei versi, ho chiamato “civiltà moderna”, qualcosa, cioè, di assolutamente volgare, superficiale, spregevole. Scrive Baudelaire: “Non capisco come possa una mano pura toccare un giornale senza una convulsione di disgusto!” (C. Baudelaire - “Il mio cuore messo a nudo” XLIV). Scrive Nietzsche: “Sputa piuttosto sulla porta della città e torna indietro!..Qui marciscono tutti i grandi sentimenti: qui soltanto sentimentucci scheletriti possono far rumore coi loro ossicini!..Non vedi le anime penzolare come stracci sudici e stracchi? E di questi stracci fanno anche giornali!” (F. Nietzsche - “Così parlò Zarathustra” - Del passar oltre). L’amore universale cristiano, il solidarismo globale comunista, il filantropismo illuminista, il mercato globale borghese, la civiltà moderna nel suo insieme, sono, appunto, quegli stracci con i quali fanno i giornali e tutti gli strumenti mediatici, sono il “marcire” stesso dei sentimenti. La "civiltà moderna" è un inquinante terrificante del buon senso naturale. Solo questo intendevo dire con i miei versi.


Civiltà moderna,
sanguinante altare,
che gl’individui immoli
e inghiotti come il mare,

meccanismo orrendo
di scienza e di paura,
uccidi il cuor nel calcolo,
tu sei la sua tortura,

tu vendi e compri tutto,
basta sol pagare,
vendi perfino l’anima,
che non sa più amare.

La dignità calpesti
nel benessere infernale,
i sentimenti soffochi,
sei superficiale,

con vanità e ricatti
corrompi ogni famiglia,
l’affetto misconosci
tra genitore e figlia,

l’amore lo macelli
nell’oceano dell’uguale,
la scienza poi lo trita
e lo vende ogni giornale,

d’insulti, di leggi,
di mostri e di catene,
con somma progressiva
ci carichi le schiene,

crei orride storture
turpi e intellettuali
e le deviazioni orribili
dei miti culturali,

ogni cuor soccombe
al feroce tuo ingranaggio,
l’anima si spegne,
diventa scarafaggio.

(9/1/1983)




mercoledì 10 maggio 2017

LEOPARDI E L'OMOSESSUALITA'

    L’innaturalezza dell’omosessualità, in quanto segno divino o aristocratico, viene confermato anche da quanto dice Leopardi circa l’omosessualità presso i greci (Leopardi fa anche notare che in epoca moderna c’è una certa omofobia, ma il fatto che si debba combattere l’omofobia, non significa che si debba sfociare nell’omofilia, ad esempio mettendo l’omosessuale come protagonista solo per far vedere che si ha una mentalità aperta: presentatori omosessuali, parate omosessuali, film dedicati ad omosessuali, perfino pubblicità che fa riferimento ad omosessuali, in pratica una “moda”, come vuole l’omofilia: questa non è la discrezione di chi semplicemente combatte la violenza cui può portare l’omofobia, questo è voler imporre l’omosessualità come una “norma”, come se la “normalità” dovesse essere socialmente e artificialmente costruita per sostituire e tenere lontana quella naturalezza che manca: è l’omofilia che sta sostituendo l’artificio dell’opinione pubblica, reso “normalità”, alla natura, l’omofilia attuale è conformismo sociale, l’omosessualità, nell’omofilia, è diventata prepotente come una moda): “Non sarebbe fischiato oggidì..un poeta, un romanziere ec. che togliesse <scegliesse> per argomento la pederastia o l’introducesse in qualunque modo..? Ora la più polita nazione del mondo, la Grecia, l’introduceva nella sua mitologia..scriveva elegantissime poesie su questo soggetto, donna a donna..uomo a giovane..ne faceva argomento di dispute o trattati rettorici o filosofici..Anzi si può dir che tutta la poesia, la filosofia e la filologia greca versasse principalmente sulla pederastia, essendo presso i greci troppo volgare e creduto troppo sensuale, basso, triviale, indegno della poesia, l’amore delle donne <intendi tra uomo e donna>, appunto perché naturale..E Virgilio..ridusse ed applicò all’infame pederastia il sentimento, e ne fece il soggetto di una storietta sentimentale nel suo Niso e Eurialo..nota che forse all’esuberanza di vita si può attribuire la grande universalità della pederastia in Grecia, e in Oriente.., mentre fra noi bisogna convenire che questo è un vizio antinaturale, una inclinazione che il solo eccesso di libidine snaturante i gusti e l’inclinazioni degli uomini può produrre” (G. Leopardi - “Zibaldone” 1840-41). Leopardi nota: 1) che c’è una certa tendenza omofoba nella modernità, 2) che nella Grecia questa omofobia non c’era perché si trattava spesso dell’omosessualità, 3) che questa importanza dell’omosessualità in Grecia dipendeva dal fatto che l’eterosessualità veniva ritenuta volgare, mentre l’omosessualità veniva ritenuta nobile, 4) che la volgarità dell’eterosessualità dipendeva dal fatto che era naturale, 5) definisce comunque “infame” la pederastia, vale a dire l’omosessualità, 6) attribuisce l’omosessualità diffusa presso i greci e presso gli orientali ad un’esuberanza sessuale che porta ad eccessi, 7) conferma che ritiene l’omosessualità “un vizio antinaturale” e una “libidine snaturante i gusti”. Che l’omosessualità possa far capo ad un’esuberanza incontrollata è possibile, come capita in certi atteggiamenti omosessuali di curiosità dell’infanzia che poi svaniscono. L’esuberanza, all’inizio, non riconosce la meta sessuale, cioè la complementarità fisica uomo-donna, tanto è vero che la masturbazione, inizialmente, non è solo un rifugio di indipendenza, ma è addirittura ritenuta la sessualità in se stessa. Solo gradualmente il giovane e la giovane prendono consapevolezza della reciproca attrazione dei loro corpi. Anzi inizialmente negano tale attrazione, perché gli appare inquietante e gli suscita dei timori riguardo alla propria libertà. La carica emotiva del rapporto sentimentale inizialmente genera nei giovani una difficoltà a riconoscere nell’altro sesso la vocazione stessa del proprio corpo. L’educazione spirituale e razionale, rimuovendo la parte corporea dell’uomo, rendendola inconscia, non aiuta in nessun modo i giovani a scoprire la propria corporea eterosessualità. Per questo l’esuberanza sessuale si scarica in qualunque modo possibile. Ci sono, soprattutto nei giovani, comportamenti che sembrano omosessuali, ma che, col tempo, svaniscono del tutto per una maggiore consapevolezza del proprio corpo e della differenza sessuale maschio-femmina. Quanto all’eterosessualità come volgare, in quanto naturale, essa ripete, a livello di civiltà, l’atteggiamento di alcuni popoli primitivi che reputavano gli omosessuali, proprio in quanto non naturali, come portatori di un misterioso segno divino. Mentre con ciò si manifestavano pregiudizi religiosi o aristocratici, allo stesso tempo si ammetteva, di fatto, che naturale fosse solo l’eterosessualità. Da questo punto di vista l’antica Grecia non è un buon esempio, anche se aveva il merito di una maggiore tolleranza verso gli omosessuali. Sulla base di un segno aristocratico rozzo si correva il rischio di fare dell’omosessualità la “normalità” sociale, con la scusa della nobiltà e della divinità, in contrapposizione alla naturalezza che avrebbe reso volgare l’eterosessualità. L’omosessualità assumeva arbitrari segni di nobiltà, idea che, ogni tanto, riemerge anche tra gli omosessuali odierni, i quali cercano di consolarsi delle frustrazioni con supposte idee di “superiorità” (il fenomeno, ogni tanto, emerge anche tra le femministe riguardo alla donna). E’ quasi in atto, per reagire a violenze del passato, una criminalizzazione del maschio, del bianco, dell’eterosessuale. Leopardi, pur notando l’eccesso di ostilità verso l’omosessualità in epoca moderna, mostra di non essere in linea con la “normalità sociale e artificiale” dei greci riguardo all’omosessualità. Espressioni come “infame pederastia” e “vizio antinaturale” riferite all’omosessualità non lasciano dubbi in proposito. Eppure il poeta omosessuale Dario Bellezza ha voluto far credere che Leopardi fosse omosessuale. Anche questo voler far diventare omosessuali grandi personaggi del passato rientra in quel processo di “normalizzazione” (rendere norma) dell’omosessualità in cui consiste, da qualche decennio a questa parte, il trionfo dell’omofilia. Ma l’omofilia non può diventare obbligatoria attraverso il processo di “normalizzazione” dell’omosessualità, perché la “norma” non coincide con la “natura”. Tra natura e società, bisogna seguire sempre prima la natura, altrimenti si subisce una violenza. “Normalizzare”, quindi, Leopardi come omosessuale è solo un disegno politico, perché Leopardi non apprezzava affatto l’omosessualità, come queste pagine dello “Zibaldone” (un’opera non destinata alla pubblicazione) dimostrano: “Alle altre barbarie umane da me altrove notate si aggiunga la pederastia, snaturatezza infame che fu pure ed è comunissima in Oriente..e non fu solo propria de’ barbari ma di tutta una nazione così civile come la greca..Quanto noccia questo infame vizio alla società ed alla moltiplicazione del genere umano, è manifesto” (G. Leopardi - “Zibaldone” 4047)   

domenica 26 marzo 2017


LE DONNE E LA GUERRA

  La letteratura borghese e comunista, che sta alla base del femminismo moderno occidentale, ha sempre mostrato la sua ipocrisia e le sue contraddizioni, attribuendo l’orrore della guerra ai maschi. Le femmine, insomma, vengono ad assumere il ruolo ipocrita della mentalità cristiana, borghese, comunista del pacifista: la guerra è colpa degli uomini, è sempre stato detto negli ambienti sessisti di genere femminista e ribadito anche recentemente: “la violenza, dalle guerre tra Stati alle guerre civili dovute al fanatismo o a problemi sociali, alla persecuzione delle minoranze, è stata praticata dal sesso maschile, sia pure con l’aiuto e la complicità delle donne” (Lea Melandri - “Il genere della violenza, gli orrori hanno un sesso” su “Il Manifesto” del 10/4/2015)La guerra tra partigiani e fascisti era una “guerra civile” e allora perché vengono mostrate con orgoglio delle donne partigiane combattenti con il mitra in mano? Era una “guerra santa”? Ma, a parte che la maggior parte di coloro che fanno la guerra, ritengono, anche a torto, di fare una guerra santa, le affermazioni fatte dalle donne e dalle femministe negli ultimi cinquant’anni non distinguono neppure il fatto che “la guerra educa alla libertà” (F. Nietzsche - “Crepuscolo degli idoli” - idem). Esse si assumono la vanteria del pacifismo cristiano-comunista e scaricano sugli uomini anche il fardello morale della crudeltà che ogni lotta comporta. Un atteggiamento moralmente scorretto. L’uomo è più protagonista della guerra allo stesso modo in cui la donna è più protagonista nel parto, guerra e parto avvengono spesso per l’interesse del gruppo (se la guerra viene fatta per qualche commettere qualche sopruso, le donne del gruppo che commette il sopruso sono responsabili quanto i maschi di quel gruppo). Ma mentre l’uomo ha rispettato, almeno genericamente parlando, il ruolo biologico femminile nel parto, la donna, negli ultimi cinquant’anni, in particolar modo le femministe, non hanno rispettato il ruolo biologico dell’uomo nella guerra, hanno demonizzato, sulla base di un’ideologia da “altro mondo”, cioè cristiana e pacifista, la guerra e il maschio assieme. Queste mistificazioni femministe devono cessare. Sulla base dell’educazione cristiana e pacifista, le donne hanno sempre confermato il ruolo di sottomissione allorché si presentano come paladine della pace e presentano gli uomini come i primi e veri responsabili della guerra. Abbiamo mostrato fino ad ora, nelle pagine che precedono, che la pace è solo la vittoria di un dominatore, mentre la guerra è l’unica speranza per mantenere la libertà dove il dominatore non rinuncia al dominio (non conosciamo dominatori che rinuncino). In ciò le femministe tengono per intero il ruolo ipocrita di quella cultura altruistica che ignora la lotta per la vita. Verrebbe da dire che si tratta di ingratidudine del ruolo che l’uomo, per doti fisiche più adatte alla lotta, volente o nolente, si è dovuto assumere. Non è facile dire se è meglio vivere da sottomessi o morire combattendo (anche se qui la risposta che si dà è la seconda), ma, se alla donna spesso è stato consentito solo di essere sottomessa, agli uomini, ancora più spesso, è stato consentito solo di morire. Avviene la stessa cosa tra i gatti e non perché le gatte siano delle pacifiste, è come il segno di un destino. Il fatto è che la società moderna, non riconoscendo più amici e nemici, vivendo in un mondo ovattato di benessere, spinge la donna a diventare femminista, cioè ostile non al maschio di gruppi nemici, bensì al maschio in generale, al maschio come genere. In fondo, come diceva Leopardi, la società moderna è la guerra di tutti contro tutti: “La fola <favola> dell’amore universale..ha prodotto l’egoismo <egocentrismo> universale. Non si odia più lo straniero? ma si odia il compagno <il maschio>, il concittadino, l’amico, il padre, il figlio” (G. Leopardi - “Zibaldone” 890). Il femminismo è una guerra di genere. Una guerra, per ora, dichiarata solo dalle femministe e da donne senza personalità che seguono l’andamento ideologico moderno passivamente, nel momento in cui venisse dichiarata anche dagli uomini e questi ultimi smettono di fare i “femminstielli”, la situazione sarebbe catastrofica e la società diverrebbe preda di culture più barbare proprio perché più compatte. La tesi di un’islamizzazione del mondo Occidentale è tutt’altro che campata in aria. Anche perché molte donne, se sono protette, si sentono sicure anche se sottomesse, evidentemente contano nella proverbiale e deprecabile “astuzia femminile”, che, onestamente, sia pure con tutte le malattie ideologiche che hanno, le femministe non possiedono. Le femministe sono delle borghesi egocentriche e ambiziose di potere e di successo, hanno la malattia del mondo borghese moderno, quella del “protagonismo”, ma, di sicuro, non sono delle disoneste “furbe”, non pretendono quel diritto all’uso della furbizia, che non è correttezza, che le donne sfacciatamente rivendicano da sempre come loro dote, senza rendersi conto che, nello stesso senso, allora anche l’uomo avrebbe diritto a rivendicare l’uso della forza come sua dote. Insomma, se c’è da sempre una guerra strisciante tra uomo e donna, tanto che lo stesso Nietzsche lo riteneva un problema irrisolvibile: Impigliarsi nella questione di fondo ‘uomo e donna’, negare, a questo proposito, l’antagonismo abissale e la necessità di una tensione eternamente ostile, sognare forse di eguali diritti, di un’eguale educazione, di eguali esigenze e doveri: tutto ciò è un tipico indice di una mente superficiale” (F. Nietzsche - “Al dilà del bene e del male” 238), al giorno d’oggi sembra che solo le donne, nel linguaggio, nell’atteggiamento aggressivo, nella retorica giornalistica, ecc. siano autorizzate alle guerra, ovviamente una guerra moderna, imbalsamata dentro i limiti del buonismo e con qualche coito non ammesso troppo facilmente. Non ammesso facilmente anche perché la mentalità femminista, in parte travasata nella mentalità femminile corrente, del tutto ignara della storia e attenta solo ai documenti formali trasmessi dal passato, ha adottato in senso laico la morale sessuofobica della suora cristiana (documenti del passato dove non mancano affermazioni di maschilismo, ma spesso libresche e comunque concepite al di fuori della lotta quotidiana, allora più dura - molto di più di quanto la borghese femminista possa concepire: ad un congresso di quarant’anni fa le femministe occidentali parlavano solo di oppressione e di sesso, mentre le donne del terzo mondo parlavano solo di fame e di bambini -, lotta che si rifletteva in regole sociali irrigidite senza dubbio, come sono tutte le regole sociali, ma di cui le donne erano responsabili come gli uomini, perché non si può affermare che gli uomini sono responsabili e le donne solo complici, ci si sta prendendo per il sedere). I conventi delle suore sono stati i primi modelli della “guerra di genere”, infatti tale guerra si può condurre solo con una rigorosa sessuofobia anti-maschile, insomma con una specie di misoginia rovesciata contro gli uomini. Questa sessuofobia anti-maschile sfociò in quello che già Freud notava come il carattere più tipico delle donne, che ritenendo di non trovare soddisfazione all’esterno, rivolgono il loro interesse verso se stesse, a partire dal corpo, vale a dire il narcisismo: La libido sottratta al mondo esterno è stata diretta sull’Io, dando origine a un comportamento che possiamo definire narcisistico.. Con lo sviluppo della pubertà dovuto alla completa maturazione degli organi sessuali femminili latenti fino a quella fase, sembra prodursi nella donna un incremento dell’originario narcisismo che non risulta propizio alla configurazione di un amore d’oggetto vero e proprio <cioè rivolto all’esterno, si riferisce alla sfera sessuale, non a quella sentimentale, molto più complessa> con la relativa sopravvalutazione sessuale. Specialmente quando sviluppandosi le donne acquistano in bellezza, interviene in esse una sorta di autosufficienza” (S. Freud - “Introduzione al narcisismo”). Sviluppando questa tendenza femminile al narcisismo, le femministe, confermando la propria insicurezza ogni volta che dicevano “donna è bello” (le persone sicure non hanno bisogno di conferme né verbali e né psicologiche), hanno finito per spostare la loro sessuofobia da suora, difficile da mantenere, nel lesbo-femminismo dei primi anni Ottanta, tanto che si può facilmente ritenere il lesbo-femminismo la dimensione laicizzata e sessualizzata del convento di suore: lo sposalizio con Dio (che ha reso misogini quasi tutti i preti, così che, visto che scrivevano solo monaci e preti, l’unica cultura che appariva era quella misogina, ciò non può essere preso per la realtà) rendeva le donne misantrope nei confronti del maschi e dopo di ciò lesbiche. Ciò è tanto vero che quelle donne, anche del movimento femminista, che hanno cercato di far entrare l’erotismo (in qualche caso anche la pornografia) nella dimensione femminista sono state continuamente isolate o osteggiate. Il femminismo ha tutto il cattivo odore della mentalità cristiana e borghese, da cui deriva il comunismo, quindi non c’è da meravigliarsi se le femministe e la letteratura al femminile arriva ad attribuire l’orrore della guerra solo ai maschi. Ovviamente, in questa prospettiva pacifista-femminista, l’idea della guerra come “educazione alla libertà” neppure figura, essendo da sempre delegato ai maschi questo compito. In sostanza le donne, le femministe assumono un atteggiamento di comodo, dandosi, al massimo, la responsabilità della “complicità” (seguitando a dimostrare che le donne sono immature e scansano le responsabilità che affiorano quando la cosa non appare buona secondo i loro valori: essendo la guerra un disvalore nei termini pacifisti post-cristiani, borghesi e comunisti, ecco che la responsabilità viene scaricata sui maschi e alla donna si attribuisce il ruolo marginale della “complice”). Questo cosa significa? Significa che tutta la contestazione del passato maschilista è una buffonata. Se, infatti, questa contestazione si basa sul fatto che si rimproverano le società passate perché maschiliste, nel senso che il maschio aveva il ruolo del protagonista e le donne solo il ruolo della “complice”, perché la donna c’era, adesso, di fronte al presunto disvalore della guerra, alla donna e alla femminista non ripugna affatto di assumere il solo ruolo di “complice”, dichiarando la sua irresponsabilità in tutto e per tutto, trova ora motivo di vantarsi del presunto pacifismo delle donne. Qui l’ipocrisia galoppa. Che contraddizione: contestare sempre il ruolo marginale, al massimo, di “complice” e ora trovare il modo per vantarsene. Come per dire: abbiamo scherzato, il ruolo di complice ci va anche bene. L’importante è che il demonio resti il maschio. Queste donne troppo spesso lanciano il sasso e nascondono la mano, sono troppo figlie del moralismo benpensante e post-cristiano, non hanno l’onestà delle donne spartane che, riconoscendo i sacrifici dei loro uomini, gli dicevano orgogliose, indicando lo scudo, data la pratica di riportare indietro i morti sul grosso scudo, “o con questo o su questo”. Le donne che rinnegano i loro uomini nella guerra sono delle traditrici borghesi e viziate chiuse nel loro egocentrismo, non sono degne neppure dello sguardo di un uomo coraggioso. Le guerre erano fatte dalle comunità e con pari energia da uomini e donne, ognuno con le sue possibilità intellettuali e fisiche. Sostenere il contrario significa mentire.      


mercoledì 15 marzo 2017

IL RAZZISMO UNIVERSITARIO

    Per Heidegger, quindi, con la confusione circa il fatto che il mondo delle “idee” è effettivamente metafisico, perché la realtà è fatta di individui assolutamente diversi e separati, nasconde il suo sentimento da cristiano represso nei confronti della natura (sublimata, indirettamente, solo come simbolo del nascosto), perché è chiaro che alla base di tutto c’è, direbbe Nietzsche, una repulsione per l’estetica naturale, sessuale, materiale, come ben dimostra il tono sprezzante con il quale tratta l’animalità: “All’animale l’ente non compare mai come ente: l’ente non è per l’animale né rivelato, né nascosto. L’animale dà la caccia a quel che irrompe nella sua sfera vitale; lo cattura, azzanna quel che ha catturato e lo inghiotte” (M. Heidegger - “Logica e linguaggio” 28 a). Questo, forse, è quello che fa Heidegger quando considera gli enti degli “utilizzabili” o “fondo a disposizione”, l’animale è molto più sensibile, intelligente e sofisticato di Heidegger, l’animale ama, soffre, ha istinti naturali, molto più difficilmente dell’uomo esce dai suoi limiti e invade l’esistenza altrui. Quando la follia di considerare il pensare e l’interrogare come qualcosa di più reale, di fondante, di essenziale, cessa, quando lo stesso Heidegger si trova davanti ad un pericolo, a meno che non chiuda gli occhi, come è probabile per i vili che stanno rinchiusi nel pensiero e nell’anima, scatta come una molla per difendersi, allora, forse, Heidegger capirà che l’animale ha quel coraggio che Nietzsche pretende per il superuomo, quel coraggio che deriva dalla morale romantica del “sublime”, cioè il coraggio di dire sì ad un’esistenza tragica, il coraggio di sentirsi solo un ente tra gli enti, enti non meccanici, ma viventi. Al contrario gli spiritualisti, a cui la demenza novecentesca ha riportato, pretendono di vivere in una dimensione spirituale “superiore”, che genera, non solo il dualismo tra spirito e corpo o tra Essere ed ente, ma anche la superiorità razziale e intellettuale, tra la razza superiore spiritualmente e quella inferiore spiritualmente (razzismo gerarchico), quella tra sapiente e ignorante, la quale ultima, nell’età della tecnica, sta diventando una forma di razzismo tra gli individui, come se l’ignorante non fosse un individuo che ha scelto la sua vita, ma fosse un “inferiore”. Troppi razzisti della sapienza stanno sfornando le università, che sono, sempre di più, delle istituzioni auto-referenziali che pretendono di stabilire una gerarchia tra laureati e non laureati. Se le si chiudesse, nessun danno ne verrebbe alla natura e la libertà delle persone sarebbe maggiormente garantita. E, infatti, Heidegger stesso fa diventare il problema dell’Essere un problema dell’università, l’università deve rincorrere l’Essere, con ciò si stabilirebbero le caratteristiche dell’università superiore. Questo fondamento di superiorità spirituale che l’Essere connota con il domandare viene poi a ritrovarsi anche nella missione che avrebbe il popolo tedesco di ridisegnare l’inizio, allorché la domanda era fondante, cioè portava all’Essere e finiva per contrapporre il popolo dell’Essere (tedesco) e i popoli dell’ente (americani, bolscevichi, ebrei; l’anti-semitismo di Heidegger, quindi, è solo un caso particolare tra i popoli dell’ente, non l’unico): “L’opera reale deve - ponendo ancora una volta la questione dell’essere <la domanda essenziale> - esserci e configurare quell’interrogare nella sua piena originarietà adattandolo al lontano destino dell’epoca <insomma deve essere reso attuale in ogni epoca: allora a renderlo attuale dovevano essere i tedeschi> per poter riannodare nel grande inizio <greco, con la fiaccola ora  passata ai tedeschi> il più segreto compito del popolo tedesco. L’incomparabilità dell’ora mondiale il cui spazio di risonanza deve portare ad amplificare la filosofia tedesca” (M. Heidegger - “Quaderni neri” 1931-38 – III, 2-3). Questa supremazia dello spirito, vero fondamento del razzismo gerarchico, viene tolta del tutto là dove l’estetica diventa etica tragica della vita del sublime, perché Nietzsche ha proprio trasformato l’estetismo romantico in un’etica terrena che distingue individui e popoli per il coraggio, non per presunte superiorità spirituali, e nel fare questo si attiene all’innocenza del corpo e dell’animalità, partendo dall’irresistibile fascino dell’apparire naturale: “l’artista a ogni disvelamento della verità rimane attaccato con sguardi eatatici sempre e solo a ciò che anche ora, dopo il disvelamento, rimane velo, l’uomo teoretico a sua volta gode e si appaga nel togliere il velo <solo che dietro il velo non c’è nulla, il nulla, contrariamente alla follia di Heidegger, ‘non è’ e basta>(F. Nietzsche – “La nascita della tragedia” 15). Per Heidegger, teoretico e spirituale più che mai, vale quanto disse Nietzsche dei filosofi tedeschi: “Il pastore protestante è il nonno della filosofia tedesca” (F. Nietzsche - “L’anticristo” – 10).
RELIGIONE: L'OPPIO DEGLI ATEI 

Marx scrisse: "La religione..è l'oppio dei popoli" ("Critica della filosofia del diritto di Hegel"), intendendo che essa è "una coscienza capovolta" (idem): non è Dio che fa l'uomo, ma l'uomo che fa Dio. Però, poi, faceva dell'Umanità un Dio, cioè un'"autorità" davanti alla quale sono tutti "uguali". Ma si è uguali solo davanti a Dio, all'autorità: "L'amore per gli uomini dei cristiani, che non fa differenze, è possibile solo nella costante contemplazione di Dio..allo stesso modo che,..da un'alta montagna, il grande e il piccolo diventano formiche e simili tra loro" (F. Nietzsche-"Frammenti postumi" '85-87, 1(66)). Il laico (anche Marx) perpetua l'autoritarismo e l'egualitarsimo religioso (l'essenza del cristianesimo) attraverso l'umanitarismo: fuma oppio religioso.

giovedì 2 marzo 2017

CHE COS'E' ROMANTICO (E ANCHE UN PO' AUTOBIOGRAFICO)

"Lontani e morti sono coloro che amavo e di loro non mi giunge notizia alcuna. La mia attività su questa terra è finita, ho versato il sangue per esso e non ho arricchito il mondo nemmeno di un centesimo...Ma tu risplendi ancora, o Sole del cielo! Tu verdeggi ancora, o terra sacra!..La pienezza di un mondo che dà vita al tutto nutre e sazia con ebbrezza il mio misero essere..Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto..un Dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando riflette, e, quando l'estasi <l'entusiasmo> si è dileguata, si ritrova come un figlio fuorviato che il padre cacciò via di casa" (F. Holderlin - "Iperione" lib. 1°). Non un sogno fuori della natura, ma dentro la natura. All'opposto l'io dell'individuo odierno si colloca fuori della natura e vuole che il mondo circostante e il suo stesso corpo si adattino ai suoi progetti, non ha un rapporto vivo con una terra viva, ma è solo e isolato dall'utilitarismo della sua razionalità con il quale vede solo strumenti da adattare alla comodità del suo egocentrismo, non "lascia vivere", impone ovunque  tale egocentrismo che considera perfino ordine morale come "dover essere".

venerdì 10 febbraio 2017

L'IMBECILLITA' ALTRUISTICA - Ognuno tifa per la "sua" squadra, antepone la "sua" casa, la "sua" famiglia, la "sua" città, la "sua" regione. Ma, se antepone la "sua" nazione, la "sua" razza, il "suo" territorio, se antepone proprietari di aziende della "sua" città o nazione e non stranieri, se antepone per il lavoro persone della "sua" gente e non immigrati, diventa un mostro. "Tutti uguali"- urla l'imbecillità altruistica -, come se un romanista tifasse per la Juventus. La vita come "non-senso personale". Chi "antepone" non "sfrutta" o "sottomette" altri. Allora l'altruista tira fuori gli epiteti: "sei egoista", "sei nazionalista", "sei razzista". Vuole il distacco da se stessi, come una madre che ignora i "suoi" figli . Chi si distacca da sé, non ha un "Sé" in cui risiedere, vampirizza gli altri, diventa altruista e quindi imbecille.

venerdì 3 febbraio 2017

INTRODUZIONE (al libro "Saggi inattuali" - "Come si diventa ciò che si è")



    Sia il titolo che il sottotitolo rimandano a Nietzsche, la più grande esperienza critica dell’umanità. Il titolo vi rimanda con l’espressione “inattuali”, ma si limita a indicare l’aspetto formale del libro. Più esplicativo è il sottotitolo “Come si diventa ciò che si è”, che è anche il sottotitolo di un’opera di Nietzsche, cioè “Ecce homo”. Al di là di come Nietzsche abbia inteso la frase, qui verrà intesa nel senso che, a causa dell’educazione e dell’interiorizzazione delle regole sociali, la mente umana viene allontanata dalla realtà di ogni “singolo se stesso”, per cui, pur essendo sempre “se stessi”, occorre ridiventarlo mentalmente, in quanto essere “se stessi” è un destino fissato dal proprio corpo, che non è in nessun modo un semplice meccanismo organicistico. Questo ritorno a sé combatte l’alienazione della mente che crea una continua dissociazione e contraddizione nei pensieri e nei comportamenti (dualismo), tipo egocentrismo che si presenta come altruismo. L’essere “se stessi”, o “Sé”, infatti è “unico” e la filosofia critica può insegnare come tutelarlo, ma non può fornirlo, perché esso è antecedente a ogni pensiero, per questo Nietzsche temeva il fatto di poter diventare “santo”, cioè qualcuno da imitare: “Ho una paura spaventosa che un giorno mi facciano santo” (F. Nietzsche - “Ecce homo” - Perché io sono un destino 1). Le persone ribelli, forse proprio quelle più disadattate, meno integrate, sono le persone più vicine al “Sé”, anche se poi non sempre riescono a gestire bene se stesse, vista l’ernorme pressione ostile dell’organizzazione sociale (vedi lo stesso Nietzsche), su di esse la disciplina militar-mentale dell’educazione ha avuto scarso effetto. Il motivo per cui, ricevuta un’educazione, è di nuovo necessario “diventare” se stessi, dipende dal fatto che la società, l’educazione, l’altruismo distruggono questo se stesso, almeno psicologicamente (talvolta anche fisicamente col concetto di “sacrificio”): “Il pauperismo è la mancanza di valore dell’io..Lo Stato <società, altruismo> non mi permette di farmi valere per quello che sono e la sua esistenza si basa solo sulla mia mancanza di valore: cerca sempre di trarre vantaggio da me, cioè di sfruttarmi, di depredarmi, di logorarmi” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Nella società moderna e organizzata esiste un “pauperismo di personalità” mostruoso (insicurezza). La personalità appartiene ad un individuo preciso, è l’insieme delle sue caratteristiche psico-fisiche, non è un prodotto del pensiero e della cultura se non nella misura in cui il Sé “adotta” certe idee e certe caratteristiche culturali facendole “sue”: “Prima del mio pensare esisto io..Nessuna idea ha esistenza, poiché è incapace di essere corporea” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Il che significa che il “Sé” è, prima di tutto, il corpo vivente, un individuo con un certo carattere, una certa sensibilità, una certa costituzione fisica, tutte cose che non si possono “sciogliere” nel mare delle astrazioni simboliche farneticate dalla scienza, questo proprio perché il “Sé” è rigorosamente particolare: “il singolo è infatti nemico inconciliabile di ogni generalità” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Proprio perché il pensiero pensa solo idee e non cose reali, il Sé non è concettualizzabile, non è pensabile e, quindi, alla fine non è nominabile: “Si dice di Dio: ‘Non ci sono nomi che ti definiscano’. Il che vale anche per me: nessun concetto mi esprime, nulla di ciò che si fa passare per la mia essenza mi esaurisce; sono unicamente nomi” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Innalzando il corpo al livello dello spirito, il pensiero, cioè la ragione, non è più giudice del corpo (vedi Spinoza), il “Sé” è un’unità individuale che precede la posizione del pensiero, il pensare è solo una delle tante possibilità, neppure la migliore, del Sé. Pensare è un verbo, non un’entità metafisica, e, in quanto verbo, presuppone un soggetto. Ogni individuo vivente “trascende” il pensiero, questa è la verità che la ragione, la religione e la scienza non riescono ad ammettere. Trascendendo il pensiero, ogni individuo è incommensurabile rispetto ad ogni altro individuo, sia all’interno che all’esterno della sua razza. Ciò significa che il “Sé” esiste solo nella “separazione” rispetto ad altri individui, la “separazione” è il fenomeno naturale con cui riconoscere la diversità: “Tu, come individuo unico, non hai più nulla in comune con gli altri e perciò non hai neppure più nulla che..ti renda loro nemico..Il conflitto sparisce nella perfetta separazione” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). L’indipendenza degli interessi permette agli individui liberi di andare ognuno per la sua strada, senza discutere o litigare con gli altri circa il modo in cui si effettua lo scambio e il lavoro per gli altri. Le entità naturali più sono diverse e separate meno stanno in competizione tra loro: “non reco alcun danno alla roccia per il fatto che, rispetto ad essa, ho il vantaggio di camminare” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Individui e popoli diversi e separati vivono più in pace di popoli “mescolati”. Vedere la diversità individuale e dei popoli sempre all’interno dell’unità, come nella sintesi hegeliana, significa imporre dovunque la “mediazione” della ragione. Alla fine la dialettica tra unione (pensiero) e diversità (realtà) sbiadisce le diversità, che, mano mano che la mediazione, cioè l’integrazione, va avanti, spariscono. In Hegel, infatti, ciò che resta, alla fine, è solo la mediazione fine a se stessa. Non si può permettere questo genocidio della diversità individuale e dei popoli, la diversità esiste prima e al di là di ogni unione del pensiero. L’individuo è assoluto sovrano su se stesso solo nella “separazione”. Tuttavia l’individuo ha dentro di sé dei tratti che, visti dal di fuori, appaiono generici, mentre visti dal singolo stesso sono indistinguibili dalla sua personalità. Questi tratti generici degli individui sono la sessualità, la razza e la cultura adottata nel territorio di nascita o “culla”. Sesso, razza, nazione appartengono all’individuo, perché il sesso in sé, la razza in sé, la nazione in sé sono idee e come tali non esistono da nessuna parte: “I nazionalisti hanno ragione: non si può rinunciare alla propria nazionalità..L’elemento nazionale è un mio attributo. Ma io non mi esaurisco nel mio attributo” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Questo significa che si può essere sensuali senza essere posseduti dal sesso, si può essere razzisti senza appartenere ad una razza (ancora meno ad uno Stato razzista), si può essere nazionalisti senza appartenere ad una nazione. In quanto il sesso, la razza, biologicamente, e la nazione, culturalmente, fanno parte del “Sé” individuale, risultano essere tratti generici dell’individualità, ma comunque appartengono pur sempre all’individualità, per cui è giusto che l’individualità ne tenga conto nei modi che, escludendo la violenza fisica e il danno (da intendere come separazione, non come omissione, perché a priori nessuno deve niente a nessuno), giudica più opportuni. Non è lecito negare la separazione. Basta vincoli altruisti che impongono di badare prima agli altri che a se stessi!