SESSO, SENTIMENTO E GLOBALIZZAZIONE (un passo del mio libro) - Proprio il sentimento è maggiormente minacciato dalla globalizzazione del mercato che separa gli innamorati, dato che li subordina agli interessi della produzione sociale mondiale e dato che propone mille attività che distraggono dal sentimento stesso. Il sesso si adatta meglio agli interessi economici mondiali, per cui la rivoluzione sessuale si può anche intendere come un contentino che la società borghese ha offerto all’individuo reso schiavo dei mercati e dei cicli produttivi. Con il sesso ci si stacca più facilmente dal proprio amante. Viene anche da pensare che la rivoluzione sessuale sia stata favorita, per un certo periodo, dalla stessa globalizzazione economica, perché rende più facile il distacco da persone e territori e favorisce, quindi, quello “sradicamento”, sia degli imprenditori che dei migranti-lavoratori, che è necessario per poter seguire con successo la globalizzazione economica. Il sesso è potenzialmente più borghese del sentimento personale, quest’ultimo ostacola troppo l’indifferenziato personale che la riduzione a “funzione” della società globale pretende. Tuttavia, allorché la società globale entra in crisi, neppure quel contentino che è il sesso viene concesso (di qui il riflusso contro la rivoluzione sessuale), perché la globalizzazione si concentra sull’idea di unità e ordine, rispetto alla quale la passione sessuale è sempre pericolosa, più o meno come può esserlo la droga, l’alcool, il gioco, che, non a caso, vengono sempre più demonizzati, quanto più la globalizzazione trova la sua dimensione di ordine sociale obbligatorio.
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domenica 31 dicembre 2017
domenica 26 novembre 2017
DENUNCIA CONTRO FACEBOOK
(mafia internazionale e dittatura gay?)
ALLA
PROCURA DELLA REPUBBLICA DI ROMA
PIAZZALE
CLODIO
e p.c. a Facebook
Piazza Missori, 2 -
Milano (20122)
al giornale “Il Tempo”
al giornale “Libero”
al giornale “Il fatto
quotidiano”
Il sottoscritto prof. Carlo De
Cristofaro, residente in Via... - Roma.., presenta
querela nei confronti di Facebook, nella persona dei suoi legali
rappresentanti in Italia (Milano - Via Missori, 2 - 20122) o ovunque si trovino,
per la verifica della presenza dei seguenti reati: Ingiuria (594 c.p.),
Diffamazione (598 c.p.), Minaccia (612). Nel considerare la questione si prega
di tenere presente che Facebook, privata o no che sia, svolge un’importante
funzione sociale e quindi non può essere considerata al di fuori dell’interesse
pubblico, di conseguenza anche la sua limitazione arbitraria verso una persona
dovrebbe essere considerata perseguibile penalmente.
Questi i fatti: in data 25 novembre 2017 il
sottoscritto ha pubblicato il post seguente (ricostruito a memoria): BISESSUALITA’=AMBIGUITA’ - I bisessuali, fino a quando non hanno
legami, possono fare quello che vogliono, perché devono rendere conto solo a se
stessi. Ma, se si legano ad un partner eterosessuale, restare bisessuali
significa rifiutare il proprio partner eterosessuale sia come “individuo” che
come “genere”. Infatti andare con una persona del proprio sesso indica che,
rispetto al partner eterosessuale, si va sia con un “altro” individuo e sia con
un “altro” genere sessuale, il che nella sostanza è rifiuto del proprio partner
(una specie di poligamia sessuale). Questo significa ambiguità nel rapporto.
Non è obbligatorio essere accondiscendi con chi è ambiguo, anzi bisogna
combattere le ambiguità”. Questo post è stato cancellato da Facebook e,
a seguito della sua pubblicazione, Facebook ha bloccato il mio account Facebook
per 24 ore, minacciando di farlo definitivamente in caso di nuove pubblicazioni
del genere, potendo perfino danneggiarmi, visto che è una modalità di
comunicazione con persone lontane. Le scritte, che apparivano in inglese,
tradotte in italiano erano le seguenti: “Non puoi pubblicare adesso. - Potresti
aver usato facebook in un modo che il nostro sistema considera insolito, anche
se non volessi. Puoi postare di nuovo tra 24 ore” - “Grazie per averci fatto sapere
chiudi. Esamineremo le attività recenti del tuo account rispetto ai nostri
standard comunitari”. Poiché, visto che nel post non
c’erano né foto oscene e né parole scurrili, il motivo non può essere che
quello della violazione degli standard comunitari relativi all’incitazione
all’odio, in tal modo si offende l’onore della mia persona (Ingiuria), si
diffama la mia persona (Diffamazione) si minaccia un ingiusto danno (la
chiusura di Facebook). Il tutto stabilito discrezionalmente con una parola,
“insolito”, come se uno strumento sociale dovesse essere solo un veicolo del
“solito”. Questo si deduce dal fatto che Facebook indica le seguenti
caratteristiche come fondamento del suo standard comunitario: “Le persone possono usare
Facebook per mettere in discussione idee, istituzioni e linee di condotta in
modo da promuovere il dibattito e una maggiore comprensione. Talvolta si
condividono contenuti altrui che incitano all'odio con lo scopo di
sensibilizzare o informare le altre persone riguardo ai discorsi di incitazione
all'odio. In questo caso, ci aspettiamo che le persone indichino chiaramente la
loro intenzione, aiutandoci a capire meglio perché hanno condiviso tale
contenuto”. Io sono un filosofo e faccio riflessioni che possono anche
andare controcorrente rispetto all’opinione pubblica attuale e Facebook non ha
rispettato quello che esso stesso afferma, cioè che Facebook si possa usare
“per mettere in discussione idee”. Facebook censurerebbe anche Leopardi e
Nietzsche, dato che i loro scritti e concetti erano certamente “insoliti”? E
nel mio post si metteva solo in discussione l’idea della bisessualità,
affermando che conteneva un’ambiguità, rispetto ai compagni etero, che le
persone corrette non possono accettare. Null’altro. Si è trattato quindi di una
censura vera e propria, perché evidentemente Facebook ha una impostazione
ideologica e politica non confessata, ma, dato che la rimozione del mio post e
addirittura la minaccia della chiusura del mio account sono giustificabili solo
per “discorsi che incitano all’odio”, questo vuol dire che, di fatto, sono
accusato di questo da Facebook e questo è ingiuria, diffamazione, minaccia.
D’altra parte, se fosse vero che i miei ragionamenti e le mie conclusioni
incitano all’odio, ammesso che ci sia un reato di incitamento all’odio e che la
libertà di opinione (perché questo deve intendersi per la “libertà di
espressione” prevista dalla Costituzione) sia una presa in giro in vigore da
svariati decenni, voglio andare in galera per dimostrare agli italiani che
quella libertà di espressione non esiste. Di certo non esiste su Facebook, che,
in quanto strumento sociale di interesse pubblico non può praticarla in nome di
un discrezionale “standard comunitario”. O c’è la libertà di opinione completa
o Facebook deve chiudere, perché la libertà di espressione non può essere
affidata ad una discrezionalità privata che sostiene di avere dei non ben
definiti “standard comunitari”. In questo modo si minaccia la democrazia
italiana che consente l’opinione e il dissenso, il governo e l’opposizione,
l’essere bisessuali e il rifiuto di esserlo. Se, in particolare nel post
cancellato e che avrebbe provocato la censura di Facebook, invece non si
configura alcun incitamento all’odio, ma solo un’opinione che dissente da certe
tendenze attuali (è vietato dissentire dall’opinione pubblica? Su facebook o
altrove? Se è così sono il peggior delinquente che possa esserci sulla faccia
della terra: dissentire dall’opinione pubblica è quasi una caratteristica
innata della mia personalità), allora Facebook mi sta diffamando e mi sta
minacciando di un ingiusto danno.
sabato 2 settembre 2017
I DIECI COMANDAMENTI
In realtà solo uno, quello che dice: "Non..desiderare alcuna cosa del tuo prossimo" (Es. 20,17). La società moderna nega completamente questo comandamento. Già il commercio e l'industria, fondandosi sullo scambio, hanno una logica dello "scambio", ognuno desidera la roba altrui. Questa logica è stata supportata dall'ipocrisia cristiana del "dono", che è una sublimazione dello scambio commerciale (visto che la reciprocità è sottitentesa, infatti chi non dona viene guardato male). Poi questa mentalità cristiano-commerciale è stata estesa a tutto, si scambiano i territori con i migranti, si scambiano gli organi con i trapianti, si scambiano i cervelli con le scuole. Tutti desiderano, non solo la roba d'altri, ma perfino il cervello e il corpo degli altri. E' insieme alienazione di sé e arroganza predatoria.
mercoledì 16 agosto 2017
IL TAO
(Wu-wei o non-agire)
Con la “Rivoluzione scientifica”, che portò
anche alla “Rivoluzione industriale”, cioè la volontà di dominio dell’uomo
sulla natura e quindi anche della mente sul corpo (auto-addomesticamento o
morale dello schiavo), si portò a termine una prospettiva ideologica e un
lavoro iniziati col neolitico nel 10000 a. C.. L’arroganza di questa
prospettiva scientifica è chiara da queste parole: “Questo è il mio intento..far avanzare verso i confini proposti il
dominio dell’uomo sull’universo, le cui attuali angustie non saranno mai
abbastanza deplorate” (F. Bacon (Bacone)
- “Il parto mascolino del tempo (o ‘La grande instaurazione dell’impero
dell’uomo sull’universo’)”). La scienza, come la religione e la
politica, è questa arrogante volontà di dominio sull’universo, che schiavizza
anche gli esseri umani. Il dominio dell’uomo sull’universo e sulla natura
originaria dell’uomo stesso viene chiamato “progresso” e consiste nel fatto che
l’uomo “fa” una seconda natura, tramite l’agricoltura, l’allevamento,
l’industria, vale a dire “produce”, trasforma la vita del mondo in un bene
utile nei confronti di una mente dissociata dal mondo, cioè una mente che
concepì l’oltre-mondano e che con la scienza e la tecnica lo sta “realizzando”
in terra. “Produrre” significa “dominare”, cioè “rifiutare” il mondo naturale,
la “produzione”, cioè la dimensione economica della società industriale, non è
altro che l’aspetto “pratico” di quel rifiuto del mondo che era l’ascetismo, il
quale ultimo rimane fermo all’aspetto teorico e mentale. “Produrre” significa
che il mondo deve diventare qualcosa di “fatto” dall’uomo e quindi di
conosciuto e dominato, là dove il mondo naturale, in quanto non “prodotto” e
non “fatto” dall’uomo, non è né conosciuto e né dominato. Che il conoscere
comportasse il fare, lo aveva già intuito Vico (polemizzando, a ragione, con
l’idiozia e l’egocentrismo scientifico di Cartesio), per il quale la conoscenza
della natura sarebbe possibile solo nell’ipotesi che fosse stata fatta
dall’uomo, cioè “prodotta”, per cui la “conoscenza” riporta alla “produzione” e
la “produzione” alla “conoscenza”, solo che la natura non è fatta dall’uomo, il
quale, perciò, non può conoscerla e nella “produzione” la nega: la produzione è
la versione attiva e aggressiva dell’ascetica negazione del mondo. Dice Vico
che l’uomo non conosce il mondo perché non lo fa (in tal senso l’uomo conosce
la macchina, non i corpi naturali, supporre che i corpi naturali siano
macchine, cioè dei “composti”, è l’abuso, la mistificazione che commette la
scienza, la quale trasforma così quello che non è stato fatto dall’uomo in
qualcosa che è “come se” l’avesse fatto l’uomo e quindi è conosciuto), invece
lo conosce Dio perché lo fa, l’uomo, quando fa scienza, si pone nella posizione
di Dio: “il vero si identifica col
fatto..il primo vero è in Dio..in quanto facitore di tutte le cose..invece la
mente umana..in quanto sono fuori di lei tutte le altre cose che non siano essa
stessa, può soltanto andare ad accozzare gli elementi estremi delle
cose..L’uomo pertanto, quando si accinge ad investigare la natura delle cose,
si accorge di non poterla in alcun modo raggiungere non avendo in sé gli
elementi da cui sono costituite le cose <cioè non avendola fatta>..Si crea così un mondo di forme e di
numeri, che abbraccerebbe dentro di sé l’universo <Vico non credo
all’universo scritto in lingua matematica di cui parlavano Cartesio e Galilei>..Da quanto si è finora dissertato, si può
senz’altro concludere che il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo
fatto” (G. B. Vico - “De antiquissima
italorum sapientia” Lib. 1°, I). La scienza, non avendo fatto il mondo,
non possiede il criterio e la regola del vero. L’equiparazione di scienza e
vero è una mistificazione operata dallo scienziato. La tecnica, essendo il
rifacimento del mondo secondo la scienza, è una deterupazione del vero con il
falso, è una negazione del mondo, la dimensione operativa (homo faber)
dell’ascetismo, ascetismo che, è bene ricordarlo, è sempre una negazione del
mondo. Questo “fare”, o tecnica, è quindi una dichiarazione di guerra
continua alla natura in generale e anche a quella animale dell’uomo, una
mobilitazione che soffoca la libertà e dignità dello stesso uomo
nell’organizzazione sociale. La società moderna ha divinizzato il fare umano e
la sua produzione, là dove i cacciatori-raccoglitori primitivi, come i nobili
animali, esercitavano il “fare” solo nei casi strettamente “necessari”, come
uccidere l’animale per ottenere cibo o pelli o raccogliere cibo e materiale
dalle piante. Nel mondo produttivo non esiste rispetto né per l’ambiente e né
per l’uomo. I cacciatori-raccoglitori non producevano né piante e né animali,
fino a quando la necessità non li costringeva ad agire, il loro criterio era il
“lasciar stare”, il “non-agire”, ma godere della compagnia degli altri esseri
viventi che la natura e il destino gli offrivano come compagni di viaggio nella
vita terrena: “L’addomesticamento implicò
l’inizio della produzione <del dominio sulla natura e sullo stesso
uomo>” (J. Zerzan - “Primitivo attuale” 1). Dello stesso genere fu il
senso etico-estetico del romantici, che non a caso amavano i primitivi, perché
la natura, fin dove non minaccia, fin dove non diventa necessario “agire”, ha
il valore etico-estetico della vita e del corpo. A questo principio “antico” si
richiamava, con evidenza, la “semplicità” del “non-agire” taoista, che era,
allo stesso tempo, principio di rispetto di tutte le cose, giacché “fare” il
bene significa avvantaggiare qualcuno o qualcosa, cioè comporta ingiustizia,
“fare” il male significa danneggiare qualcuno o qualcosa, cioè comporta, ancora
una volta, ingiustizia, il “fare”, dove non è necessario, è sempre ingiusto. La
civiltà moderna non è altro che “fare”, perché “dominare” è “fare”, è
“produrre” (organizzare, sottomettere sono “azioni”), rispetto a ciò solo il
non-agire taoista è etico, il lasciar stare, il non governare: “Il mondo..non si può governare:/ chi
governa lo corrompe,/ chi dirige lo svia,/ poiché tra le creature/ taluna
precede ed altra segue,/ taluna è calda ed altra fredda,/ taluna è forte ed
altra debole,/ taluna è tranquilla ed altra pericolosa” (Lao-tzu - “Tao-te-ching” XXIX - Non agire). Chi non vuole
dominare, agisce solo per quanto è necessario e non sente il bisogno di una
conoscenza senza limiti, anzi è diffidente verso la conoscenza, perché la
Natura sfugge alle “leggi” che l’uomo pensa di imporgli, tanto è vero che la semplicità
è più ignoranza che conoscenza, l’ignoranza rinvia alla vita immediata, in cui
dominano istinti e sentimenti e tutto va come deve andare: “L’affidarsi nel modo più semplice alla natura, è affidarcisi nel modo
più saggio. Oh che dolce e molle capezzale, e anche sano, è l’ignoranza..per
una testa ben fatta” (M. De Montaigne -
“Saggi” - Lib. 3, XIII). La citazione è pertinente perché esprime
l’idea che la giustizia si trova solo al di là del “fare” (artificio, scienza,
tecnologia, cultura, ecc.).
“Il Tao in eterno non
agisce
e non v’è nulla che non
sia fatto”
(Lao-tzu - “Tao-te-ching” - XXXVII)
Dalla
panchina,
nel
mio angoletto verde,
osservo
il cielo
finché
l’occhio si perde,
non
c’è nessuno
sto
solo e son sereno:
discutere
non devo
né
del più e né del meno,
già
va tutto in natura
come
deve andare:
la
mia gioia è osservare
e
lasciare stare.
(19/6/2017)
giovedì 8 giugno 2017
IO E ZERZAN - Ringrazio Domenico, unico mio ex-alunno presente, per la foto. L'incontro con Zerzan è stato interessantissimo, mi sono complimentato con lui per aver delineato, con chiarezza, che l'evoluzione dal neolitico in poi (10000 a.C.) è andata sempre nella stessa direzione: divisione del lavoro con dominio sul mondo, prima con l'agricoltura, poi con l'allevamento, poi con l'invenzione del tempo, del numero, del linguaggio simbolico da cui nascono scienza e tecnica. Ad ogni addomesticamento del mondo corrisponde un sempre maggiore auto-addomesticamento dell'uomo, fino alla nevrosi moderna. Gli ho solo chiesto se, nella società per piccoli gruppi (ha detto una cosa che mi piace: c'è gruppo solo dove ci si guarda in faccia), la personalità individuale è garantita. Ha risposto che, se comporta privilegi no (e io sono d'accordo con lui), ma se comporta la possibilità di dissociarsi e di esporre idee diverse sì, la cosa mi soddisfa perché per me la personalità significa, prima di tutto, indipendenza e varietà di gusti.
lunedì 15 maggio 2017
CIVILTA’ MODERNA
Per chi, come me, ha fatto del sentimento
una “filosofia sentimentale”, dato che il sentimento è una discriminazione affettiva,
distingue un figlio da un estraneo, un padre, un’innammorata, un innamorato,
ecc., dal resto dell’umanità, esso, in modo inevitabile, si scontra con
l’egualitarismo e l’universalismo allo stesso modo in cui il Romanticismo si
scontrò con l’Illuminismo. Il sentimento, dunque, ha, di necessità, una radice
aristocratica, ognuno si circonda di quelli che, per lui, sono i migliori, perché
i migliori sono quelli che ama personalmente, anche se questo non avviene per
una scelta razionale, ma per circostanze che generano affettività. Il
sentimento è figlio del caso, non della scienza, trova o non trova il suo
riferimento secondo il destino. Il sentimento può esistere solo in questa
discriminazione aristocratica, quando si pretende di amare tutti
(cristianesimo) o di essere solidali con tutti (sinistra), è proprio il sentimento
che si cancella, per questo è cattivo gusto voler compiacere a tutti, una
mentalità servile: “Non si vuole vivere con tutti, né si può vivere per tutti; chi se ne
rende conto saprà stimare molto i propri amici e non odierà né perseguiterà i
propri nemici” (J. W. Goethe - “Massime e riflessioni” 396). Chi ama tutti, non ama nessuno. Il
fatto, quindi, che il sentimento nasca e seguiti a sussistere solo nella
“discriminazione” è cosa che l’astrattezza razionale della moderna coscienza
illuminista, progressista, economica e globalizzante non riesce proprio a
comprendere. Il sentimento non è moderno e seppellirà la modernità: sarà la
vendetta romantica. Il sentimento, ovviamente, si estende con maggiore o minore
profondità ad ambienti e popoli, non è indifferente ad ambienti e popoli,
quindi discrimina anche ambienti e popoli. E’ nella natura individuale del
sentimento, che vive sempre nell’hic et nunc. Il sentimento non comprende lo
spirito universale, perché questo spirito universale è astratto: non distingue
nulla e non discriminando un padre o una moglie da un estraneo, un ambiente
caro da un ambiente che è estraneo, un popolo al quale, in qualche misura (mai
del tutto, perché l’individuo viene prima dei popoli), si è legati da popoli
estranei e perfino culturalmente ritenuti spregevoli, tutta questa
indistinzione, si diceva, distrugge il sentimento e la sua realtà affettiva che
si estende negli spazi concentrici e circoscritti dell’hic et nunc in cui
l’individuo vive. La discriminazione personale, di ambiente, di popolo che il
sentimento genera nell’hic et nunc ovunque, si rafforza discriminando, fino a
farsi aristocratico, quando, avendo di fronte l’ipocrisia generale, giunge a
diventare: “il piacere aristocratico di
dispiacere” (C. Baudelaire - “Razzi”
XII). Se si vuole piacere a tutti, non si ama nessuno e non si
riconosce l’affetto che persone specifiche hanno per noi. Ovviamente questa
discriminazione aristocratica non può avere la pretesa di essere “assoluta”,
deve essere cosciente di dover convivere con i sentimenti altrui e con le
discriminazioni aristocratiche altrui. Ma cosa rende “assoluta” una
discriminazione aristocratica? La ragione, con il suo universalismo ed
egualitarismo è l’Illuminismo che rese assoluto il culto nazista della
“aristocraticità” della razza germanica, perché solo la ragione rende assoluta
una diversità, provocando la gerarchia razziale, il sentimento, invece,
discrimina anch’esso, ma senza gerarchia, nel senso che ognuno discrimina
sentimentalmente per conto suo, per selezione individuale. Il sentimento è
discriminazione, ma mai discriminazione di Stato.. Chi si attiene alla
discriminazione aristocratica del sentimento sa che questa discriminazione si
basa, come capitava nel Romanticismo, sulla diversità e quindi rifiuta
l’ipotesi di un mondo tutto uguale e universale, ipotesi che porta una
diversità a farsi assoluta, come fece il nazismo che voleva tutti
“universalmente” e “ugualmente” tedeschi e nazisti e, nell’impossibilità di
ottenere ciò, sottomessi ad essi (la sottomissione riafferma l’universalismo di
una discriminazione, il marcio non è la discriminazione, ma l’universalismo).
La ragione, non il sentimento, è portatrice di quello spirito tirannico che è
l’assoluto universale. L’Illuminismo distrusse un’aristocrazia sociale storica,
che era una gerarchia che rendeva assoluto il valore di certe famiglie a
scapito di altre, e questo fu un suo merito, ma poi creò il vuoto
dell’egualitarismo e dell’universalismo che oggi dilaga nella globalizzazione.
La globalizzazione non è un destino, ma una costruzione dovuta all’Illuminismo
e come tale si sgretolerà. Questo vuoto razionale, che affermò il principio di
eguaglianza e l’universale, ignorava la diversità e il fatto che il sentimento
si atteneva proprio a quella discriminazione aristocratica che è la diversità naturale.
Tale discriminazione, proprio perché non è assoluta e razionale, non comporta
una gerarchia e quindi una sopraffazione verso altri individui. Nel sentimento
non si vuole avere schiavi, ma si vuole stare con le persone, gli ambienti e i
costumi che si amano. Non è una discriminazione sociale, bensì naturale,
tuttavia comporta dei rapporti preferenziali che scavalcano la società e
riguardo ai quali la società dovrebbe ritirarsi in buon ordine. Anche se la
società si è impadronita di certi sentimenti (paterno, filiale, ecc.) facendone
dei ruoli caricati da obblighi che vanno al di là dei sentimenti (militarizzazione
dei sentimenti), ruoli da cui il sentimento dovrebbe essere liberato, è chiaro
che i sentimenti nascono al di là dell’ordine sociale, ne è un esempio il
sentimento dell’amicizia: è talmente anarchico che la società non è riuscita a
farne un ruolo e ad ingabbiarlo, tutti l’ammettono, ma non ha alcun valore
istituzionale o giuridico. Le discriminazioni sentimentali sono legittimate
dalla natura e la lotta indiscriminata alle discriminazioni rischia di distruggere
ogni sentimento, creando, per colpa della ragione, persone sempre più vuote e
quindi sempre più sole ed insicure. Ovviamente questo lo comprese il
Romanticismo, mentre l’Illuminismo non lo comprese affatto e ancora oggi
borghesi, scientisti, economisti, affaristi, cristiani e comunisti seguitano a
non capirlo. L’Illuminismo creò un calderone generale gestito dalla politica di
parte (partiti) e dai giornali, politici e giornalisti si presentarono,
mistificando, come rappresentanti del nuovo sovrano, che doveva essere
l’“opinione pubblica”. L’“opinione pubblica” è una metafisica politica che
sposta sul piano sociale quel principio di “uniformità” che la scienza aveva
calato su tutta la natura, resa sovrana con la democrazia essa non è una
persona, non è un individuo, in pratica “non è”. E’ un’approssimazione
matematica che si riempie di contenuti particolari, i quali non hanno alcun
diritto di diventare universali e venire imposti a tutti. L’unica
“discriminante” che l’uniformità dell’universale, dell’egualitarismo,
dell’opinione pubblica riconosce è quella numerica, quella dei voti, del
prezzo, del mercato, della statistica, non riconosce le discriminanti personali,
naturali e sentimentali. L’“opinione pubblica”, non essendo rintracciabile da
nessuna parte, diviene una forma personale che viene sostituita dall’uniformità
della ragione o meglio ancora da volontà singole che spacciano i propri
interessi per interessi razionali, generali, tipo il filosofo di Platone. L’opinione
pubblica è un “entimema”, cioè una semplice “considerazione mentale”, una
realtà fittizia data per scontata. L’“opinione pubblica”, come sovrano, quindi
non esiste oppure è rappresentato dal “luogo comune”, dal “conformismo”, dalla
“tirannia della maggioranza”, dal “si” (si dice, si fa), addirittura dalla
“volgarità”, come sembrano dire Nietzsche e Baudelaire a proposito della grande
città e dei giornali, grande città e giornali (mezzi mediatici) che sono una
classica espressione dell’Illuminismo e dell’astratto egualitarismo e
universalismo. Grande città e giornali rappresentano quella che io, nei miei
versi, ho chiamato “civiltà moderna”, qualcosa, cioè, di assolutamente volgare,
superficiale, spregevole. Scrive Baudelaire: “Non capisco come possa una mano pura toccare un giornale senza una
convulsione di disgusto!” (C. Baudelaire
- “Il mio cuore messo a nudo” XLIV). Scrive Nietzsche: “Sputa piuttosto sulla porta della città e
torna indietro!..Qui marciscono tutti i grandi sentimenti: qui soltanto
sentimentucci scheletriti possono far rumore coi loro ossicini!..Non vedi le
anime penzolare come stracci sudici e stracchi? E di questi stracci fanno anche
giornali!” (F. Nietzsche - “Così parlò
Zarathustra” - Del passar oltre). L’amore universale cristiano, il
solidarismo globale comunista, il filantropismo illuminista, il mercato globale
borghese, la civiltà moderna nel suo insieme, sono, appunto, quegli stracci con
i quali fanno i giornali e tutti gli strumenti mediatici, sono il “marcire” stesso dei sentimenti. La "civiltà moderna" è un inquinante
terrificante del buon senso naturale. Solo questo intendevo
dire con i miei versi.
Civiltà
moderna,
sanguinante
altare,
che
gl’individui immoli
e
inghiotti come il mare,
meccanismo
orrendo
di
scienza e di paura,
uccidi
il cuor nel calcolo,
tu
sei la sua tortura,
tu
vendi e compri tutto,
basta
sol pagare,
vendi
perfino l’anima,
che
non sa più amare.
La
dignità calpesti
nel
benessere infernale,
i
sentimenti soffochi,
sei
superficiale,
con
vanità e ricatti
corrompi
ogni famiglia,
l’affetto
misconosci
tra
genitore e figlia,
l’amore
lo macelli
nell’oceano
dell’uguale,
la
scienza poi lo trita
e
lo vende ogni giornale,
d’insulti,
di leggi,
di
mostri e di catene,
con
somma progressiva
ci
carichi le schiene,
crei
orride storture
turpi
e intellettuali
e
le deviazioni orribili
dei
miti culturali,
ogni
cuor soccombe
al
feroce tuo ingranaggio,
l’anima
si spegne,
diventa
scarafaggio.
(9/1/1983)
mercoledì 10 maggio 2017
LEOPARDI E L'OMOSESSUALITA'
L’innaturalezza dell’omosessualità, in
quanto segno divino o aristocratico, viene confermato anche da quanto dice
Leopardi circa l’omosessualità presso i greci (Leopardi fa anche notare che in
epoca moderna c’è una certa omofobia, ma il fatto che si debba combattere
l’omofobia, non significa che si debba sfociare nell’omofilia, ad esempio
mettendo l’omosessuale come protagonista solo per far vedere che si ha una
mentalità aperta: presentatori omosessuali, parate omosessuali, film dedicati
ad omosessuali, perfino pubblicità che fa riferimento ad omosessuali, in
pratica una “moda”, come vuole l’omofilia: questa non è la discrezione di chi
semplicemente combatte la violenza cui può portare l’omofobia, questo è voler
imporre l’omosessualità come una “norma”, come se la “normalità” dovesse essere
socialmente e artificialmente costruita per sostituire e tenere lontana quella
naturalezza che manca: è l’omofilia che sta sostituendo l’artificio
dell’opinione pubblica, reso “normalità”, alla natura, l’omofilia attuale è
conformismo sociale, l’omosessualità, nell’omofilia, è diventata prepotente
come una moda): “Non sarebbe fischiato
oggidì..un poeta, un romanziere ec. che togliesse <scegliesse> per argomento la pederastia o
l’introducesse in qualunque modo..? Ora la più polita nazione del mondo, la
Grecia, l’introduceva nella sua mitologia..scriveva elegantissime poesie su
questo soggetto, donna a donna..uomo a giovane..ne faceva argomento di dispute
o trattati rettorici o filosofici..Anzi si può dir che tutta la poesia, la
filosofia e la filologia greca versasse principalmente sulla pederastia,
essendo presso i greci troppo volgare e creduto troppo sensuale, basso,
triviale, indegno della poesia, l’amore delle donne <intendi tra uomo e
donna>, appunto perché naturale..E
Virgilio..ridusse ed applicò all’infame pederastia il sentimento, e ne fece il
soggetto di una storietta sentimentale nel suo Niso e Eurialo..nota che forse
all’esuberanza di vita si può attribuire la grande universalità della
pederastia in Grecia, e in Oriente.., mentre fra noi bisogna convenire che
questo è un vizio antinaturale, una inclinazione che il solo eccesso di
libidine snaturante i gusti e l’inclinazioni degli uomini può produrre” (G. Leopardi - “Zibaldone” 1840-41).
Leopardi nota: 1) che c’è una certa tendenza omofoba nella modernità, 2) che
nella Grecia questa omofobia non c’era perché si trattava spesso
dell’omosessualità, 3) che questa importanza dell’omosessualità in Grecia
dipendeva dal fatto che l’eterosessualità veniva ritenuta volgare, mentre
l’omosessualità veniva ritenuta nobile, 4) che la volgarità
dell’eterosessualità dipendeva dal fatto che era naturale, 5) definisce
comunque “infame” la pederastia, vale
a dire l’omosessualità, 6) attribuisce l’omosessualità diffusa presso i greci e
presso gli orientali ad un’esuberanza sessuale che porta ad eccessi, 7)
conferma che ritiene l’omosessualità “un
vizio antinaturale” e una “libidine
snaturante i gusti”. Che l’omosessualità possa far capo ad un’esuberanza
incontrollata è possibile, come capita in certi atteggiamenti omosessuali di
curiosità dell’infanzia che poi svaniscono. L’esuberanza, all’inizio, non
riconosce la meta sessuale, cioè la complementarità fisica uomo-donna, tanto è
vero che la masturbazione, inizialmente, non è solo un rifugio di indipendenza,
ma è addirittura ritenuta la sessualità in se stessa. Solo gradualmente il
giovane e la giovane prendono consapevolezza della reciproca attrazione dei
loro corpi. Anzi inizialmente negano tale attrazione, perché gli appare
inquietante e gli suscita dei timori riguardo alla propria libertà. La carica
emotiva del rapporto sentimentale inizialmente genera nei giovani una
difficoltà a riconoscere nell’altro sesso la vocazione stessa del proprio
corpo. L’educazione spirituale e razionale, rimuovendo la parte corporea dell’uomo,
rendendola inconscia, non aiuta in nessun modo i giovani a scoprire la propria
corporea eterosessualità. Per questo l’esuberanza sessuale si scarica in qualunque
modo possibile. Ci sono, soprattutto nei giovani, comportamenti che sembrano
omosessuali, ma che, col tempo, svaniscono del tutto per una maggiore
consapevolezza del proprio corpo e della differenza sessuale maschio-femmina.
Quanto all’eterosessualità come volgare, in quanto naturale, essa ripete, a
livello di civiltà, l’atteggiamento di alcuni popoli primitivi che reputavano
gli omosessuali, proprio in quanto non naturali, come portatori di un
misterioso segno divino. Mentre con ciò si manifestavano pregiudizi religiosi o
aristocratici, allo stesso tempo si ammetteva, di fatto, che naturale fosse
solo l’eterosessualità. Da questo punto di vista l’antica Grecia non è un buon
esempio, anche se aveva il merito di una maggiore tolleranza verso gli omosessuali.
Sulla base di un segno aristocratico rozzo si correva il rischio di fare
dell’omosessualità la “normalità” sociale, con la scusa della nobiltà e della
divinità, in contrapposizione alla naturalezza che avrebbe reso volgare
l’eterosessualità. L’omosessualità assumeva arbitrari segni di nobiltà, idea
che, ogni tanto, riemerge anche tra gli omosessuali odierni, i quali cercano di
consolarsi delle frustrazioni con supposte idee di “superiorità” (il fenomeno,
ogni tanto, emerge anche tra le femministe riguardo alla donna). E’ quasi in
atto, per reagire a violenze del passato, una criminalizzazione del maschio,
del bianco, dell’eterosessuale. Leopardi, pur notando l’eccesso di ostilità
verso l’omosessualità in epoca moderna, mostra di non essere in linea con la
“normalità sociale e artificiale” dei greci riguardo all’omosessualità.
Espressioni come “infame pederastia”
e “vizio antinaturale” riferite
all’omosessualità non lasciano dubbi in proposito. Eppure il poeta omosessuale
Dario Bellezza ha voluto far credere che Leopardi fosse omosessuale. Anche
questo voler far diventare omosessuali grandi personaggi del passato rientra in
quel processo di “normalizzazione” (rendere norma) dell’omosessualità in cui
consiste, da qualche decennio a questa parte, il trionfo dell’omofilia. Ma
l’omofilia non può diventare obbligatoria attraverso il processo di
“normalizzazione” dell’omosessualità, perché la “norma” non coincide con la
“natura”. Tra natura e società, bisogna seguire sempre prima la natura,
altrimenti si subisce una violenza. “Normalizzare”, quindi, Leopardi come
omosessuale è solo un disegno politico, perché Leopardi non apprezzava affatto
l’omosessualità, come queste pagine dello “Zibaldone” (un’opera non destinata
alla pubblicazione) dimostrano: “Alle
altre barbarie umane da me altrove notate si aggiunga la pederastia,
snaturatezza infame che fu pure ed è comunissima in Oriente..e non fu solo
propria de’ barbari ma di tutta una nazione così civile come la greca..Quanto
noccia questo infame vizio alla società ed alla moltiplicazione del genere
umano, è manifesto” (G. Leopardi -
“Zibaldone” 4047)
domenica 26 marzo 2017
LE DONNE E LA GUERRA
La letteratura
borghese e comunista, che sta alla base del femminismo moderno occidentale, ha
sempre mostrato la sua ipocrisia e le sue contraddizioni, attribuendo l’orrore
della guerra ai maschi. Le femmine, insomma, vengono ad assumere il ruolo
ipocrita della mentalità cristiana, borghese, comunista del pacifista: la
guerra è colpa degli uomini, è sempre stato detto negli ambienti sessisti di
genere femminista e ribadito anche recentemente: “la violenza, dalle guerre tra Stati alle guerre civili dovute al
fanatismo o a problemi sociali, alla persecuzione delle minoranze, è stata
praticata dal sesso maschile, sia pure con l’aiuto e la complicità delle donne”
(Lea Melandri - “Il genere della
violenza, gli orrori hanno un sesso” su “Il Manifesto” del 10/4/2015). La guerra tra partigiani e fascisti era una “guerra civile” e allora
perché vengono mostrate con orgoglio delle donne partigiane combattenti con il
mitra in mano? Era una “guerra santa”? Ma, a parte che la maggior parte di coloro
che fanno la guerra, ritengono, anche a torto, di fare una guerra santa, le
affermazioni fatte dalle donne e dalle femministe negli ultimi cinquant’anni
non distinguono neppure il fatto che “la
guerra educa alla libertà” (F. Nietzsche
- “Crepuscolo degli idoli” - idem). Esse si assumono la vanteria del
pacifismo cristiano-comunista e scaricano sugli uomini anche il fardello morale
della crudeltà che ogni lotta comporta. Un atteggiamento moralmente scorretto.
L’uomo è più protagonista della guerra allo stesso modo in cui la donna è più
protagonista nel parto, guerra e parto avvengono spesso per l’interesse del
gruppo (se la guerra viene fatta per qualche commettere qualche sopruso, le
donne del gruppo che commette il sopruso sono responsabili quanto i maschi di
quel gruppo). Ma mentre l’uomo ha rispettato, almeno genericamente parlando, il
ruolo biologico femminile nel parto, la donna, negli ultimi cinquant’anni, in
particolar modo le femministe, non hanno rispettato il ruolo biologico dell’uomo
nella guerra, hanno demonizzato, sulla base di un’ideologia da “altro mondo”,
cioè cristiana e pacifista, la guerra e il maschio assieme. Queste mistificazioni femministe devono cessare. Sulla base dell’educazione
cristiana e pacifista, le donne hanno sempre confermato il ruolo di
sottomissione allorché si presentano come paladine della pace e presentano gli
uomini come i primi e veri responsabili della guerra. Abbiamo mostrato fino ad
ora, nelle pagine che precedono, che la pace è solo la vittoria di un
dominatore, mentre la guerra è l’unica speranza per mantenere la libertà dove
il dominatore non rinuncia al dominio (non conosciamo dominatori che
rinuncino). In ciò le femministe tengono per intero il ruolo ipocrita di quella
cultura altruistica che ignora la lotta per la vita. Verrebbe da dire che si
tratta di ingratidudine del ruolo che l’uomo, per doti fisiche più adatte alla
lotta, volente o nolente, si è dovuto assumere. Non è facile dire se è meglio
vivere da sottomessi o morire combattendo (anche se qui la risposta che si dà è
la seconda), ma, se alla donna spesso è stato consentito solo di essere
sottomessa, agli uomini, ancora più spesso, è stato consentito solo di morire. Avviene
la stessa cosa tra i gatti e non perché le gatte siano delle pacifiste, è come
il segno di un destino. Il fatto è che la società moderna, non riconoscendo più
amici e nemici, vivendo in un mondo ovattato di benessere, spinge la donna a
diventare femminista, cioè ostile non al maschio di gruppi nemici, bensì al
maschio in generale, al maschio come genere. In fondo, come diceva Leopardi, la
società moderna è la guerra di tutti contro tutti: “La fola <favola>
dell’amore universale..ha prodotto l’egoismo <egocentrismo> universale. Non si odia più lo straniero? ma
si odia il compagno <il maschio>,
il concittadino, l’amico, il padre, il figlio” (G. Leopardi - “Zibaldone” 890). Il femminismo è una guerra di
genere. Una guerra, per ora, dichiarata solo dalle femministe e da donne senza
personalità che seguono l’andamento ideologico moderno passivamente, nel
momento in cui venisse dichiarata anche dagli uomini e questi ultimi smettono
di fare i “femminstielli”, la situazione sarebbe catastrofica e la società
diverrebbe preda di culture più barbare proprio perché più compatte. La tesi di
un’islamizzazione del mondo Occidentale è tutt’altro che campata in aria. Anche
perché molte donne, se sono protette, si sentono sicure anche se sottomesse,
evidentemente contano nella proverbiale e deprecabile “astuzia femminile”, che,
onestamente, sia pure con tutte le malattie ideologiche che hanno, le
femministe non possiedono. Le femministe sono delle borghesi egocentriche e
ambiziose di potere e di successo, hanno la malattia del mondo borghese
moderno, quella del “protagonismo”, ma, di sicuro, non sono delle disoneste “furbe”,
non pretendono quel diritto all’uso della furbizia, che non è correttezza, che
le donne sfacciatamente rivendicano da sempre come loro dote, senza rendersi
conto che, nello stesso senso, allora anche l’uomo avrebbe diritto a rivendicare
l’uso della forza come sua dote. Insomma, se c’è da sempre una guerra
strisciante tra uomo e donna, tanto che lo stesso Nietzsche lo riteneva un
problema irrisolvibile: “Impigliarsi
nella questione di fondo ‘uomo e donna’, negare, a questo proposito, l’antagonismo
abissale e la necessità di una tensione eternamente ostile, sognare forse di
eguali diritti, di un’eguale educazione, di eguali esigenze e doveri: tutto ciò
è un tipico indice di una mente superficiale” (F. Nietzsche - “Al dilà del bene e del male” 238), al giorno d’oggi
sembra che solo le donne, nel linguaggio, nell’atteggiamento aggressivo, nella
retorica giornalistica, ecc. siano autorizzate alle guerra, ovviamente una
guerra moderna, imbalsamata dentro i limiti del buonismo e con qualche coito
non ammesso troppo facilmente. Non ammesso facilmente anche perché la mentalità
femminista, in parte travasata nella mentalità femminile corrente, del tutto
ignara della storia e attenta solo ai documenti formali trasmessi dal passato,
ha adottato in senso laico la morale sessuofobica della suora cristiana (documenti
del passato dove non mancano affermazioni di maschilismo, ma spesso libresche e
comunque concepite al di fuori della lotta quotidiana, allora più dura - molto
di più di quanto la borghese femminista possa concepire: ad un congresso di
quarant’anni fa le femministe occidentali parlavano solo di oppressione e di
sesso, mentre le donne del terzo mondo parlavano solo di fame e di bambini -, lotta che si rifletteva in regole sociali
irrigidite senza dubbio, come sono tutte le regole sociali, ma di cui le donne
erano responsabili come gli uomini, perché non si può affermare che gli uomini
sono responsabili e le donne solo complici, ci si sta prendendo per il sedere).
I conventi delle suore sono stati i primi modelli della “guerra di genere”,
infatti tale guerra si può condurre solo con una rigorosa sessuofobia
anti-maschile, insomma con una specie di misoginia rovesciata contro gli
uomini. Questa sessuofobia anti-maschile sfociò in quello che già Freud notava
come il carattere più tipico delle donne, che ritenendo di non trovare
soddisfazione all’esterno, rivolgono il loro interesse verso se stesse, a
partire dal corpo, vale a dire il narcisismo:
“La
libido sottratta al mondo esterno è stata diretta sull’Io, dando origine a un
comportamento che possiamo definire narcisistico.. Con lo sviluppo della
pubertà dovuto alla completa maturazione degli organi sessuali femminili
latenti fino a quella fase, sembra prodursi nella donna un incremento
dell’originario narcisismo che non risulta propizio alla configurazione di un
amore d’oggetto vero e proprio <cioè
rivolto all’esterno, si riferisce alla sfera sessuale, non a quella
sentimentale, molto più complessa> con
la relativa sopravvalutazione sessuale. Specialmente quando sviluppandosi le
donne acquistano in bellezza, interviene in esse una sorta di autosufficienza” (S. Freud - “Introduzione al narcisismo”).
Sviluppando questa tendenza femminile al narcisismo, le femministe, confermando
la propria insicurezza ogni volta che dicevano “donna è bello” (le persone
sicure non hanno bisogno di conferme né verbali e né psicologiche), hanno
finito per spostare la loro sessuofobia da suora, difficile da mantenere, nel
lesbo-femminismo dei primi anni Ottanta, tanto che si può facilmente ritenere
il lesbo-femminismo la dimensione laicizzata e sessualizzata del convento di
suore: lo sposalizio con Dio (che ha reso misogini quasi tutti i preti, così
che, visto che scrivevano solo monaci e preti, l’unica cultura che appariva era
quella misogina, ciò non può essere preso per la realtà) rendeva le donne
misantrope nei confronti del maschi e dopo di ciò lesbiche. Ciò è tanto vero
che quelle donne, anche del movimento femminista, che hanno cercato di far
entrare l’erotismo (in qualche caso anche la pornografia) nella dimensione
femminista sono state continuamente isolate o osteggiate. Il femminismo ha
tutto il cattivo odore della mentalità cristiana e borghese, da cui deriva il
comunismo, quindi non c’è da meravigliarsi se le femministe e la letteratura al
femminile arriva ad attribuire l’orrore della guerra solo ai maschi.
Ovviamente, in questa prospettiva pacifista-femminista, l’idea della guerra
come “educazione alla libertà”
neppure figura, essendo da sempre delegato ai maschi questo compito. In
sostanza le donne, le femministe assumono un atteggiamento di comodo, dandosi,
al massimo, la responsabilità della “complicità”
(seguitando a dimostrare che le donne sono immature e scansano le
responsabilità che affiorano quando la cosa non appare buona secondo i loro
valori: essendo la guerra un disvalore nei termini pacifisti post-cristiani,
borghesi e comunisti, ecco che la responsabilità viene scaricata sui maschi e
alla donna si attribuisce il ruolo marginale della “complice”). Questo cosa significa? Significa che tutta la
contestazione del passato maschilista è una buffonata. Se, infatti, questa
contestazione si basa sul fatto che si rimproverano le società passate perché
maschiliste, nel senso che il maschio aveva il ruolo del protagonista e le
donne solo il ruolo della “complice”,
perché la donna c’era, adesso, di fronte al presunto disvalore della guerra,
alla donna e alla femminista non ripugna affatto di assumere il solo ruolo di “complice”, dichiarando la sua
irresponsabilità in tutto e per tutto, trova ora motivo di vantarsi del
presunto pacifismo delle donne. Qui l’ipocrisia galoppa. Che contraddizione:
contestare sempre il ruolo marginale, al massimo, di “complice” e ora trovare il modo per vantarsene. Come per dire:
abbiamo scherzato, il ruolo di complice ci va anche bene. L’importante è che il
demonio resti il maschio. Queste donne troppo spesso lanciano il sasso e
nascondono la mano, sono troppo figlie del moralismo benpensante e
post-cristiano, non hanno l’onestà delle donne spartane che, riconoscendo i
sacrifici dei loro uomini, gli dicevano orgogliose, indicando lo scudo, data la
pratica di riportare indietro i morti sul grosso scudo, “o con questo o su
questo”. Le donne che rinnegano i loro uomini nella guerra sono delle traditrici
borghesi e viziate chiuse nel loro egocentrismo, non sono degne neppure dello
sguardo di un uomo coraggioso. Le guerre erano fatte dalle comunità e con pari
energia da uomini e donne, ognuno con le sue possibilità intellettuali e
fisiche. Sostenere il contrario significa mentire.
mercoledì 15 marzo 2017
IL RAZZISMO UNIVERSITARIO
Per Heidegger, quindi, con la confusione
circa il fatto che il mondo delle “idee” è effettivamente metafisico, perché la
realtà è fatta di individui assolutamente diversi e separati, nasconde il suo
sentimento da cristiano represso nei confronti della natura (sublimata, indirettamente,
solo come simbolo del nascosto), perché è chiaro che alla base di tutto c’è,
direbbe Nietzsche, una repulsione per l’estetica naturale, sessuale, materiale,
come ben dimostra il tono sprezzante con il quale tratta l’animalità: “All’animale l’ente non compare mai come
ente: l’ente non è per l’animale né rivelato, né nascosto. L’animale dà la
caccia a quel che irrompe nella sua sfera vitale; lo cattura, azzanna quel che
ha catturato e lo inghiotte” (M. Heidegger
- “Logica e linguaggio” 28 a). Questo, forse, è quello che fa Heidegger
quando considera gli enti degli “utilizzabili” o “fondo a disposizione”, l’animale
è molto più sensibile, intelligente e sofisticato di Heidegger, l’animale ama,
soffre, ha istinti naturali, molto più difficilmente dell’uomo esce dai suoi
limiti e invade l’esistenza altrui. Quando la follia di considerare il pensare
e l’interrogare come qualcosa di più reale, di fondante, di essenziale, cessa,
quando lo stesso Heidegger si trova davanti ad un pericolo, a meno che non
chiuda gli occhi, come è probabile per i vili che stanno rinchiusi nel pensiero
e nell’anima, scatta come una molla per difendersi, allora, forse, Heidegger
capirà che l’animale ha quel coraggio che Nietzsche pretende per il superuomo,
quel coraggio che deriva dalla morale romantica del “sublime”, cioè il coraggio
di dire sì ad un’esistenza tragica, il coraggio di sentirsi solo un ente tra
gli enti, enti non meccanici, ma viventi. Al contrario gli spiritualisti, a cui
la demenza novecentesca ha riportato, pretendono di vivere in una dimensione
spirituale “superiore”, che genera, non solo il dualismo tra spirito e corpo o
tra Essere ed ente, ma anche la superiorità razziale e intellettuale, tra la
razza superiore spiritualmente e quella inferiore spiritualmente (razzismo
gerarchico), quella tra sapiente e ignorante, la quale ultima, nell’età della
tecnica, sta diventando una forma di razzismo tra gli individui, come se l’ignorante
non fosse un individuo che ha scelto la sua vita, ma fosse un “inferiore”. Troppi
razzisti della sapienza stanno sfornando le università, che sono, sempre di
più, delle istituzioni auto-referenziali che pretendono di stabilire una
gerarchia tra laureati e non laureati. Se le si chiudesse, nessun danno ne
verrebbe alla natura e la libertà delle persone sarebbe maggiormente garantita. E,
infatti, Heidegger stesso fa diventare il problema dell’Essere un problema dell’università,
l’università deve rincorrere l’Essere, con ciò si stabilirebbero le
caratteristiche dell’università superiore. Questo fondamento di superiorità
spirituale che l’Essere connota con il domandare viene poi a ritrovarsi anche
nella missione che avrebbe il popolo tedesco di ridisegnare l’inizio, allorché
la domanda era fondante, cioè portava all’Essere e finiva per contrapporre il
popolo dell’Essere (tedesco) e i popoli dell’ente (americani, bolscevichi,
ebrei; l’anti-semitismo di Heidegger, quindi, è solo un caso particolare tra i
popoli dell’ente, non l’unico): “L’opera
reale deve - ponendo ancora una volta la questione dell’essere <la
domanda essenziale> - esserci e
configurare quell’interrogare nella sua piena originarietà adattandolo al
lontano destino dell’epoca <insomma deve essere reso attuale in ogni
epoca: allora a renderlo attuale dovevano essere i tedeschi> per poter riannodare nel grande inizio <greco,
con la fiaccola ora passata ai
tedeschi> il più segreto compito del
popolo tedesco. L’incomparabilità dell’ora mondiale il cui spazio di risonanza
deve portare ad amplificare la filosofia tedesca” (M. Heidegger - “Quaderni neri” 1931-38 – III, 2-3). Questa
supremazia dello spirito, vero fondamento del razzismo gerarchico, viene tolta
del tutto là dove l’estetica diventa etica tragica della vita del sublime,
perché Nietzsche ha proprio trasformato l’estetismo romantico in un’etica
terrena che distingue individui e popoli per il coraggio, non per presunte
superiorità spirituali, e nel fare questo si attiene all’innocenza del corpo e
dell’animalità, partendo dall’irresistibile fascino dell’apparire naturale: “l’artista a ogni disvelamento della verità
rimane attaccato con sguardi eatatici sempre e solo a ciò che anche ora, dopo
il disvelamento, rimane velo, l’uomo teoretico a sua volta gode e si appaga nel
togliere il velo <solo che dietro il velo non c’è nulla, il nulla,
contrariamente alla follia di Heidegger, ‘non è’ e basta>” (F.
Nietzsche – “La nascita della tragedia” 15). Per Heidegger, teoretico e
spirituale più che mai, vale quanto disse Nietzsche dei filosofi tedeschi: “Il pastore protestante è il nonno della
filosofia tedesca” (F. Nietzsche - “L’anticristo”
– 10).
RELIGIONE: L'OPPIO DEGLI ATEI
Marx scrisse: "La religione..è l'oppio dei popoli" ("Critica della filosofia del diritto di Hegel"), intendendo che essa è "una coscienza capovolta" (idem): non è Dio che fa l'uomo, ma l'uomo che fa Dio. Però, poi, faceva dell'Umanità un Dio, cioè un'"autorità" davanti alla quale sono tutti "uguali". Ma si è uguali solo davanti a Dio, all'autorità: "L'amore per gli uomini dei cristiani, che non fa differenze, è possibile solo nella costante contemplazione di Dio..allo stesso modo che,..da un'alta montagna, il grande e il piccolo diventano formiche e simili tra loro" (F. Nietzsche-"Frammenti postumi" '85-87, 1(66)). Il laico (anche Marx) perpetua l'autoritarismo e l'egualitarsimo religioso (l'essenza del cristianesimo) attraverso l'umanitarismo: fuma oppio religioso.
giovedì 2 marzo 2017
CHE COS'E' ROMANTICO (E ANCHE UN PO' AUTOBIOGRAFICO)
"Lontani e morti sono coloro che amavo e di loro non mi giunge notizia alcuna. La mia attività su questa terra è finita, ho versato il sangue per esso e non ho arricchito il mondo nemmeno di un centesimo...Ma tu risplendi ancora, o Sole del cielo! Tu verdeggi ancora, o terra sacra!..La pienezza di un mondo che dà vita al tutto nutre e sazia con ebbrezza il mio misero essere..Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto..un Dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando riflette, e, quando l'estasi <l'entusiasmo> si è dileguata, si ritrova come un figlio fuorviato che il padre cacciò via di casa" (F. Holderlin - "Iperione" lib. 1°). Non un sogno fuori della natura, ma dentro la natura. All'opposto l'io dell'individuo odierno si colloca fuori della natura e vuole che il mondo circostante e il suo stesso corpo si adattino ai suoi progetti, non ha un rapporto vivo con una terra viva, ma è solo e isolato dall'utilitarismo della sua razionalità con il quale vede solo strumenti da adattare alla comodità del suo egocentrismo, non "lascia vivere", impone ovunque tale egocentrismo che considera perfino ordine morale come "dover essere".
venerdì 10 febbraio 2017
L'IMBECILLITA' ALTRUISTICA - Ognuno tifa per la "sua" squadra, antepone la "sua" casa, la "sua" famiglia, la "sua" città, la "sua" regione. Ma, se antepone la "sua" nazione, la "sua" razza, il "suo" territorio, se antepone proprietari di aziende della "sua" città o nazione e non stranieri, se antepone per il lavoro persone della "sua" gente e non immigrati, diventa un mostro. "Tutti uguali"- urla l'imbecillità altruistica -, come se un romanista tifasse per la Juventus. La vita come "non-senso personale". Chi "antepone" non "sfrutta" o "sottomette" altri. Allora l'altruista tira fuori gli epiteti: "sei egoista", "sei nazionalista", "sei razzista". Vuole il distacco da se stessi, come una madre che ignora i "suoi" figli . Chi si distacca da sé, non ha un "Sé" in cui risiedere, vampirizza gli altri, diventa altruista e quindi imbecille.
venerdì 3 febbraio 2017
INTRODUZIONE (al libro "Saggi inattuali" - "Come si diventa ciò che si è")
Sia
il titolo che il sottotitolo rimandano a Nietzsche, la più grande esperienza
critica dell’umanità. Il titolo vi rimanda con l’espressione “inattuali”, ma si
limita a indicare l’aspetto formale del libro. Più esplicativo è il sottotitolo
“Come si diventa ciò che si è”, che è anche il sottotitolo di un’opera di
Nietzsche, cioè “Ecce homo”. Al di là di come Nietzsche abbia inteso la frase,
qui verrà intesa nel senso che, a causa dell’educazione e
dell’interiorizzazione delle regole sociali, la mente umana viene allontanata
dalla realtà di ogni “singolo se stesso”, per cui, pur essendo sempre “se
stessi”, occorre ridiventarlo mentalmente, in quanto essere “se stessi” è un
destino fissato dal proprio corpo, che non è in nessun modo un semplice
meccanismo organicistico. Questo ritorno a sé combatte l’alienazione della
mente che crea una continua dissociazione e contraddizione nei pensieri e nei
comportamenti (dualismo), tipo egocentrismo che si presenta come altruismo.
L’essere “se stessi”, o “Sé”, infatti è “unico” e la filosofia critica può
insegnare come tutelarlo, ma non può fornirlo, perché esso è antecedente a ogni
pensiero, per questo Nietzsche temeva il fatto di poter diventare “santo”, cioè
qualcuno da imitare: “Ho una paura
spaventosa che un giorno mi facciano santo” (F. Nietzsche - “Ecce homo” - Perché io sono un destino 1). Le
persone ribelli, forse proprio quelle più disadattate, meno integrate, sono le
persone più vicine al “Sé”, anche se poi non sempre riescono a gestire bene se
stesse, vista l’ernorme pressione ostile dell’organizzazione sociale (vedi lo
stesso Nietzsche), su di esse la disciplina militar-mentale dell’educazione ha
avuto scarso effetto. Il motivo per cui, ricevuta un’educazione, è di nuovo
necessario “diventare” se stessi, dipende dal fatto che la società,
l’educazione, l’altruismo distruggono questo se stesso, almeno psicologicamente
(talvolta anche fisicamente col concetto di “sacrificio”): “Il pauperismo è la mancanza di valore dell’io..Lo Stato <società,
altruismo> non mi permette di farmi
valere per quello che sono e la sua esistenza si basa solo sulla mia mancanza
di valore: cerca sempre di trarre vantaggio da me, cioè di sfruttarmi, di
depredarmi, di logorarmi” (M. Stirner -
“L’Unico e la sua proprietà”). Nella società moderna e organizzata
esiste un “pauperismo di personalità” mostruoso (insicurezza). La personalità
appartiene ad un individuo preciso, è l’insieme delle sue caratteristiche
psico-fisiche, non è un prodotto del pensiero e della cultura se non nella
misura in cui il Sé “adotta” certe idee e certe caratteristiche culturali
facendole “sue”: “Prima del mio pensare
esisto io..Nessuna idea ha esistenza, poiché è incapace di essere corporea” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”).
Il che significa che il “Sé” è, prima di tutto, il corpo vivente, un individuo
con un certo carattere, una certa sensibilità, una certa costituzione fisica,
tutte cose che non si possono “sciogliere” nel mare delle astrazioni simboliche
farneticate dalla scienza, questo proprio perché il “Sé” è rigorosamente
particolare: “il singolo è infatti nemico
inconciliabile di ogni generalità” (M.
Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Proprio perché il pensiero
pensa solo idee e non cose reali, il Sé non è concettualizzabile, non è
pensabile e, quindi, alla fine non è nominabile: “Si dice di Dio: ‘Non ci sono nomi che ti definiscano’. Il che vale
anche per me: nessun concetto mi esprime, nulla di ciò che si fa passare per la
mia essenza mi esaurisce; sono unicamente nomi” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Innalzando il
corpo al livello dello spirito, il pensiero, cioè la ragione, non è più giudice
del corpo (vedi Spinoza), il “Sé” è un’unità individuale che precede la
posizione del pensiero, il pensare è solo una delle tante possibilità, neppure
la migliore, del Sé. Pensare è un verbo, non un’entità metafisica, e, in quanto
verbo, presuppone un soggetto. Ogni individuo vivente “trascende” il pensiero,
questa è la verità che la ragione, la religione e la scienza non riescono ad
ammettere. Trascendendo il pensiero, ogni individuo è incommensurabile rispetto
ad ogni altro individuo, sia all’interno che all’esterno della sua razza. Ciò
significa che il “Sé” esiste solo nella “separazione” rispetto ad altri
individui, la “separazione” è il fenomeno naturale con cui riconoscere la
diversità: “Tu, come individuo unico, non
hai più nulla in comune con gli altri e perciò non hai neppure più nulla
che..ti renda loro nemico..Il conflitto sparisce nella perfetta separazione” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”).
L’indipendenza degli interessi permette agli individui liberi di andare ognuno
per la sua strada, senza discutere o litigare con gli altri circa il modo in
cui si effettua lo scambio e il lavoro per gli altri. Le entità naturali più
sono diverse e separate meno stanno in competizione tra loro: “non reco alcun danno alla roccia per il
fatto che, rispetto ad essa, ho il vantaggio di camminare” (M. Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Individui e popoli
diversi e separati vivono più in pace di popoli “mescolati”. Vedere la
diversità individuale e dei popoli sempre all’interno dell’unità, come nella
sintesi hegeliana, significa imporre dovunque la “mediazione” della ragione.
Alla fine la dialettica tra unione (pensiero) e diversità (realtà) sbiadisce le
diversità, che, mano mano che la mediazione, cioè l’integrazione, va avanti,
spariscono. In Hegel, infatti, ciò che resta, alla fine, è solo la mediazione
fine a se stessa. Non si può permettere questo genocidio della diversità
individuale e dei popoli, la diversità esiste prima e al di là di ogni unione del
pensiero. L’individuo è assoluto sovrano su se stesso solo nella “separazione”.
Tuttavia l’individuo ha dentro di sé dei tratti che, visti dal di fuori,
appaiono generici, mentre visti dal singolo stesso sono indistinguibili dalla
sua personalità. Questi tratti generici degli individui sono la sessualità, la
razza e la cultura adottata nel territorio di nascita o “culla”. Sesso, razza,
nazione appartengono all’individuo, perché il sesso in sé, la razza in sé, la
nazione in sé sono idee e come tali non esistono da nessuna parte: “I nazionalisti hanno ragione: non si può
rinunciare alla propria nazionalità..L’elemento nazionale è un mio attributo.
Ma io non mi esaurisco nel mio attributo” (M.
Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Questo significa che si può
essere sensuali senza essere posseduti dal sesso, si può essere razzisti senza
appartenere ad una razza (ancora meno ad uno Stato razzista), si può essere
nazionalisti senza appartenere ad una nazione. In quanto il sesso, la razza,
biologicamente, e la nazione, culturalmente, fanno parte del “Sé” individuale,
risultano essere tratti generici dell’individualità, ma comunque appartengono
pur sempre all’individualità, per cui è giusto che l’individualità ne tenga
conto nei modi che, escludendo la violenza fisica e il danno (da intendere come
separazione, non come omissione, perché a priori nessuno deve niente a
nessuno), giudica più opportuni. Non è lecito negare la separazione. Basta
vincoli altruisti che impongono di badare prima agli altri che a se stessi!
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