MARCUSE,
LA DIALETTICA, L’ILLUMINISMO E IL ROMANTICISMO
La Scuola di Francoforte ha, nel
Novecento, indiscutibili meriti critici, ma questi erano già da considerare
“superati” alla loro nascita se si tiene presente quanto di “ribellione
critica” verso la civiltà moderna c’era nel Romanticismo e negli sviluppi
anarchici dell’Ottocento, da Stirner fino a Nietzsche e a Michelstadter. La
base di partenza della Scuola di Francoforte, cioè il marxismo, per quanto
ampiamente revisionato, fino, in certi momenti, ad una quasi negazione, lascia,
tuttavia, la pesantezza delle sue tracce sugli orizzonti mentali degli autori
della Scuola stessa. La contrapposizione tra la “teoria critica” della società
e la “sociologia”, mette certamente a nudo la mancanza di senso critico di una
scienza, come quella sociologica (lo stesso si può dire in generale della
Psicologia), che è un semplice “specchio” della società in cui vive e di cui
fornisce un formulario “tecnico” sostanzialmente collaborante con l’apparato
repressivo della società amministrata stessa. Ma la “teoria critica” della
società, anche se rappresenta un’evoluzione della teoria rivoluzionaria
marxista, ne serba comunque dei miti, come ad esempio l’idea di “dialettica”,
nonché la radice illuministica (l’illuminismo è sempre stato neutrale tra
liberalismo borghese e socialismo, anche se, all’inizio, per motivi storici, la
borghesia essendo più pronta, venne a caratterizzarsi soprattutto in senso
borghese), radice illuministica che, grazie all’idea di “dialettica”, viene
condannata e salvata allo stesso tempo (condannata in quanto “ragione
strumentale” e salvata come “ragione critica”). La “ragione critica”, però, per
esercitare le sue funzioni, non ha bisogno della cornice illuministica, nella
quale, in ogni momento, rischia di essere sopraffatta dalla “ragione
strumentale” o “tecnologica”. Al contrario, i romantici, pur rischiando
pericolose tangenze con l’ideologia religiosa clericale (che, però, sono
facilmente superabili dalla “ragione critica” o “negativa”), abbandonarono del
tutto la via della “ragione”, sia perché una “ragione negativa” ha bisogno di
supporti che vadano al di là della ragione (corpo, natura, istinti, sentimenti,
individualità come unicità ecc.), sia perché considerare la ragione stessa come
via d’uscita, visto che la “ragione negativa” presa in se stessa si chiude o
nella vuotezza o nel potenziamento delle sue facoltà, non può non far ricadere
in quella “ragione strumentale” in cui, a ragione, la Scuola di Francoforte
individuava la base di quel totalitarismo e di quella repressione che si
svolgono nel segno della “civiltà” e della “tecnica” (concetti base
dell’Illuminismo). L’equivoco per cui l’Illuminismo è anche la sede esclusiva
della “critica” e quindi di una possibile via di liberazione spinge la Scuola
di Francoforte a ritenere che l’uscita dall’Illuminismo avvenga nel segno di un
più alto Illuminismo, magari costruito nel segno della “dialettica”. Una specie
di Hegel revisionato nel segno illuministico del progresso e della giustizia
sociale, insomma un Hegel che, grazie al superamento dei limiti “reazionari”,
somigli sempre di più a Marx. Solo che la “dialettica” hegeliana è essa stessa
estensione della razionalità strumentale illuminista, rappresenta il suo
dilatarsi all’infinito della scienza (non certo della “critica”), fino al punto
in cui scienza e teologia coincidono, visto che hanno la stessa radice, cioè la
megalomania e la fuga dalla realtà naturale operata dall’uomo che nel pensiero vuol
sentirsi “padrone” del tutto. Quello che la scuola di Francoforte, a ragione,
attribuisce all’Illuminismo, cioè un’arrogante “padronalità”, si trova, in
realtà, nell’intera filosofia dialettica hegeliana (e anche in Marx), nella
quale la ragione ha assunto vesti dialettiche, non per concessioni all’irrazionalità
della natura, ma per poter dilatare all’infinito il carattere totalitario della
ragione strumentale: “L’illuminismo si
rapporta alle cose come il dittatore con gli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli. Lo
scienziato conosce le cose in quanto è in grado di farle” (M. Horkheimer - T. W. Adorno - “Dialettica dell’illuminismo”).
Il marxismo, mentre assume il carattere bipolare della dialettica senza
esitazioni, è molto ambiguo riguardo alla “sintesi”, che, a giudicare dal passaggio
dalla “dittatura borghese” alla “dittatura del proletariato”, sembra piuttosto
l’assolutizzazione di uno dei due poli a danno dell’altro. Tuttavia non ci si
deve neppure far troppo ingannare dalla “sintesi” hegeliana, in essa il lato
reale e naturale è decisamente abbandonato e si sviluppa solo sotto forma di
idee sempre più astratte, per cui diventa una sorta di “dittatura del
pensiero”, che in questa vocazione razionale non può, alla fine, non somigliare
a Dio. Nel marxismo, quindi, l’idea di “conciliazione” hegeliana, che a livello
sociale (mentre non è così a livello naturale) finisce per essere vicina a
posizioni “reazionarie”, non sussiste o avviene attraverso un “salto”
(rivoluzionario) che lo scivolamento nella sintesi nel senso hegeliano non prevede.
Ciò spiega per quale motivo la Scuola di Francoforte ama presentarsi, di fronte
alla sociologia borghese, come “teoria critica”, là dove avrebbe dovuto
precisarsi meglio come “sociologia critica”, cioè appunto “marxismo
revisionato”. “Sociologia critica” che prevede il momento “rivoluzionario” come
necessario, come “palingenesi” della società: su questa lontana radice marxista
si collocano l’“uomo nuovo” e il “grande rifiuto” di Marcuse. Ma, dicendo ciò,
si è certamente detta una verità circa le radici marxiste della Scuola di
Francoforte, ma non si è reso giustizia a quanto di “revisionistico” del
marxismo c’è in essa. Ad onore della Scuola di Francoforte, almeno dei singoli
autori presi nei loro sviluppi di pensiero individuali, va detto che l’uomo nuovo
di cui si parla spesso rivaluta l’individualità e non è infarcito delle
costruzioni “proletarie” del marxismo e che, quindi, il “grande rifiuto” non
porta alla società socialista o comunista storica, la quale ultima mantiene le
stesse strutture del totalitarismo tecnologico della società borghese senza un
“uomo nuovo”, come giustamente dice Marcuse:”Ma
dove queste classi <lavoratrici> sono
diventate un sostegno al modo di vivere stabilito <struttura sociale e
tecnologica del potere>, la loro
ascesa al controllo prolungherebbe tal modo di vivere in un quadro diverso” (H. Marcuse - “L’uomo a una dimensione”).
Questo è stato dimostrato dalla storia e dal fallimento dell’esperimento
comunista che ha portato a un numero di morti non inferiore a quello del nazi-fascismo.
Dato che, di fatto, i lavoratori hanno sempre più collaborato con la borghesia
industriale, piuttosto che elaborare una “teoria critica”, appare chiaro che il
socialismo e il comunismo rappresentano una modificazione “reazionaria” della
società. Non c’è alcuna “liberazione” che passi per le vie del socialismo. In
questo senso sia la Scuola di Francoforte, così come farà Zerzan, con il suo
anarco-primitivismo a sfondo sociale, hanno superato il marxismo in senso
stretto. Rimane in tutti loro, però, l’illusione di una “palingenesi” sociale
che consenta il successo in altri contesti (alternativa astratta, là dove, al
contrario, la natura, come alternativa, seguita perennemente a non essere
astratta), definiti “utopici” solo perché il mondo amministrato e tecnologico
odierno impedisce ogni ipotesi che non sia la ripetizione del mondo
amministrato e tecnologico stesso, Ma questa “palingenesi” non può essere
“sociale”, perché la società, che esiste in quanto, almeno attualmente,
sussiste solo in modo “amministrato” e “tecnologico”, non può far altro che
proporre la presunta “liberazione” nei termini della struttura amministrata e
tecnologica stessa. Si tratta, quindi, sempre di false liberazioni, quando si
parte dalla società. L’uomo nuovo non nasce dalla società, nemmeno ideale,
perché la società ideale fa solo diventare vittima l’individuo che porta in sé
l’ideale (vedi Socrate). L’uomo nuovo nasce dalla propria individualità in
senso stretto. La Scuola di Francoforte si avvicina spesso a tale soluzione
“individuale”, però, non solo non la approfondisce nei suoi legami naturali, ma
perfino non riesce a capire che tale percorso “individuale” è stato già
percorso dall’opposizione del poeta romantico alla modernità e dall’anarchismo
individuale di Stirner o dall’anarchismo aristocratico di Nietzsche. Al
contrario, si seguita a rimanere nell’alveo della ragione (magari quella
dialettica) o dell’Illuminismo, perché non ci si rende conto che l’uomo nuovo
non può esistere all’interno di un mondo razionale e protetto, cioè quello
amministrato e tecnologico. Dato che il carattere selvaggio della natura, che
l’Illuminismo vanta di aver conquistato, seguita a far paura, si esce e non si
esce da questo mondo protetto, cioè amministrato e tecnologico. Nietzsche già notava
questa continua “insicurezza” dell’uomo moderno: “’Io non so né uscire e né entrare; io sono tutto ciò che non sa uscire né
entrare’ - sospira l’uomo moderno” (F.
Nietzsche - “L’anticristo” 1). Questa insicurezza e ambiguità
appartenne per intero alla Scuola di Francoforte, dei quali autori,
particolarmente Marcuse, ora esaminerò qualche affermazione.
La verità è che non esiste alcuna
“protesta” o “opposizione” al totalitarismo della società disciplinare
amministrata e tecnologica moderna, che non faccia capo alla natura esaminata
dall’ottica romantica come qualcosa che “trascende” la sua versione scientifica
e tecnologica, versione che altro non è che la “reificazione” dell’ordine
sociale esistente in quanto ideologia. L’ideologia è quella borghese/socialista
che nasce dall’Illuminismo stesso. Sul carattere ideologico di scienza e
tecnica Marcuse e l’anarco-primitivista Zerzan concordano: “il concetto stesso di ragione tecnica è forse ideologico. Non solo
l’applicazione della tecnologia, ma la tecnologia stessa è dominio..controllo
metodico, scientifico, calcolato e calcolatore” (H. Marcuse - “L’uomo a una dimensione”), poi: “Coloro che ancora sostengono che la
tecnologia è ‘neutrale’, ‘un semplice strumento’, non hanno ancora cominciato a
riflettere sulla vera posta in gioco..Oggi viviamo questo controllo come una
diminuzione costante del nostro contatto con il mondo vivente <la
tecnologia, in effetti, ci circonda di ‘cose morte’>, un vuoto accelerato dall’Era dell’informazione, risucchiato dalla
computerizzazione e avvelenato dall’imperialismo addomesticante dell’alta
tecnologia” (J. Zerzan - “Dizionario
primitivista” - Tecnologia). La “trascendenza romantica” appare
religiosa soprattutto perché la “reificazione” operata dalla ragione mediante
scienza e tecnica fa apparire come “metafisica” o “utopistica” la stessa realtà
naturale “non controllata”. Però, mediante il concetto del “sublime”, cioè di
ciò che sfugge al controllo e alla previsione umana, presentandosi al mondo
protetto come “terribile”, il Romanticismo ebbe accesso a questo mondo della
“trascendenza naturale”, giacché, spinozianamente, il Romanticismo non insegue
una trascendenza spirituale, platonica, cristiana, protestante che sia (la
polemica contro il protestantesimo è costante nel Romanticismo: da Novalis fino
a Heine e Nietzsche), ma una “trascendenza estetica”, che coincide con la
materialità della natura. Questo “materialismo romantico”, che fa da retroterra
al più “grande rifiuto” della modernità che ci sia stato, un “grande rifiuto”
ben più solido di quello di Marcuse, porta direttamente all’“Unico” di Stirner
e al “Superuomo” di Nietzsche. Questa “trascendenza” della natura, del corpo,
della individualità come irripetibile entità limitata, si trova chiaramente nel
“materialismo” di Nietzsche, in cui il corpo non viene letto tramite il
formulario dell’amministrazione della natura creato da scienza e tecnica, ma
come immediata corrispondenza con il soggetto, un soggetto che avverte se
stesso e la sua unicità a partire dal suo corpo e non dalla ragione: “Dietro i tuoi pensieri..sta un possente
sovrano, un saggio ignoto - che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo
corpo..Tramontare vuole il vostro Sé, e perciò siete divenuti dispregiatori del
corpo!” (F. Nietzsche - “Così parlò
Zarathustra” - Dei dispregiatori del corpo). La “ragione negativa” non
può far altro che mettersi al servizio di tale “possente sovrano”, mentre la “ragione strumentale”, come hanno
detto Horkheimer e Adorno, “manipola”
concettualmente (scienza) e praticamente (tecnologia) i corpi, tutti i corpi
del mondo, finché non “ricostruisce” l’universo secondo gli schemi della
“ragione”, creando quel mondo amministrato e tecnico, dominato e protetto, che
caratterizza la civiltà moderna. La “ragione negativa” non può seguitare ad
avere alcun rapporto “dialettico” con la “ragione strumentale” che non sia pura
e semplice ambiguità e contraddizione. Nel momento in cui, grazie al
Romanticismo, la natura si oppone alla ragione, non solo si oppone sì alla
“ragione strumentale”, che, come giustamente viene scritto, porta, assieme
all’Illuminismo, la “trionfale sventura”:
“la terra interamente illuminata splende
all’insegna della trionfale sventura” (M.
Horkheimer - T. W. Adorno - “Dialettica dell’illuminismo”), ma pone
anche una base, certamente irrazionale (fatta di corpi, sentimenti, istinti,
ovviamente non filtrati o deformati da schemi sociali), per una separazione
profonda della “ragione negativa” dalla “ragione strumentale”, portando, con ciò,
al superamento di tutte le ambiguità e contraddizioni, che favoriscono il
proliferare della “ragione strumentale” e del suo mondo protetto, controllato,
dominato, che seguitano a sussistere là dove semplicemente si parla di
“dialettica” dell’illuminismo e della ragione. Occorre stabilire, una volta per
tutte, che la “ragione critica” o “negativa” sta al servizio di un mondo reale
che trascende il mondo artificiale creato da scienza e tecnica con la
“reificazione”. A questo mondo possono accedere tutti tramite i sensi, i corpi,
i sentimenti e gli istinti. E’, quindi, anche il più democratico di tutti i
mondi possibili, pur nella diversità individuale più assoluta.
Appare, quindi, inevitabile che forme
culturali di provenienza socialista, più legate alla revisione del marxismo
negli anni Sessanta (di qui il successo di Marcuse presso le giovani
generazioni di quegli anni e non solo), generazioni che, animate dal “grande
rifiuto”, fecero indubbiamente tremare le strutture della modernità, ma si “incancrenirono”
nell’idea di un socialismo, secondo modalità progressiste e illuministe, posto
“al di là” del comunismo reale (sia in politica interna che estera), che portò
dapprima al mito maoista e cubano e poi alle Brigate rosse. Su questo ha
ragione Zerzan nel denunciare come, la incapacità di staccarsi dalla modernità,
imputabile al fatto di restare fermi nella prospettiva illuminista (un
illuminismo intrinsecamente contraddittorio, cioè anti-illuminista), porti il
marxista, anche se revisionista, a immaginare, come fa appunto Marcuse, un “civiltà
non repressiva”, là dove era indiscutibile quello che aveva detto Freud, cioè
che civiltà e repressione vanno di pari passo. Freud, come si sa, sebbene negli
anni Sessanta passasse per un “liberatore” (cosa che nessuno più crede), si
schierò dalla parte della civiltà e quindi di una necessaria repressione. In
questo Freud è profondamente diverso da Nietzsche che reputa la civiltà moderna
il frutto della “morale dello schiavo”. In realtà il socialista rivoluzionario
mantiene, sebbene lo denunci, un legame segreto con la civiltà totalitaria e
repressiva, perché, come dice Zerzan, chi non vuole far saltare per aria
l’illuminismo, non fa saltare per aria neppure la società amministrata e
tecnologica: “il pensiero marxiano
recente continua a cadere nella trappola di dovere in sostanza esaltare la
divisione del lavoro nell’interesse del progresso tecnologico” (J. Zerzan - “Dizionario primitivista” -
Divisione del lavoro). La visione socialista di Zerzan, non essendo più
“modernista”, sviluppa la visione stessa del revisionismo della Scuola di
Francoforte verso un socialismo che possa ancora di più svincolarsi
dall’illuminismo tradizionale. In un certo senso la filosofia di Zerzan è il
punto estremo di arrivo della “critica” della Scuola di Francoforte e della ribellione
degli anni Sessanta, che, appunto come estremo, non cerca il socialismo nel
futuro tecnologico, ormai irrimediabilmente condannato dalla visione
“alternativa” socialista, ma lo trova in una dimensione “primitiva”, coniugando
l’estremo punto dell’illuminismo, identificato in un olismo sociale di tipo
rousseauiano, con un rifiuto effettivo, e non ambiguo come il “grande rifiuto”
di Marcuse, della modernità. Certo bisogna poi vedere se un socialismo,
ancorché primitivo, non sia superato, comunque, dall’anarco-individualismo. Zerzan, quindi, sta un passo avanti rispetto a
Marcuse e ai socialisti alternativi che tengono, contemporaneamente, i piedi
nel “rifiuto” e nella modernità tecnologica. In realtà il “progressismo
alternativo”, per i motivi stessi che indica la Scuola di Francoforte, è una
mistificazione, come è una mistificazione un illuminismo che viva di sola
“critica” e abbandoni la “ragione strumentale”. Per questo la “ragione critica”
non può viaggiare all’interno dell’orizzonte illuminista, dove convive con il
totalitarismo tecnologico della “ragione strumentale”. Al contrario, deve
abbandonare l’orizzonte illuminista per abbracciare l’orizzonte romantico,
limitatamente all’aspetto vitalistico, estetico e panteista. Cosa capita,
invece? Che tanto Zerzan, quanto Marcuse, si trovano ad appoggiarsi ad esempi
della cultura romantica, là dove vedono strade “liberatorie” che poi non
percorrono, perché porterebbero alla dimensione naturale, libera e tragica
della vita naturale che non hanno il coraggio di affrontare come fecero
Leopardi e Nietzsche e, su un piano più di critica politica, anche da Stirner.
E naturalmente, a questo punto, il socialismo non è solo una maggiore
considerazione dell’individuo (come capita in Zerzan e nella Scuola di Francoforte
in generale) in un ambito che rimane, comunque, illuministico-socialista, ma un
superamento totale della visione sociale e illuminista, per affidarsi al “mare
aperto”, di cui parlava Nietzsche, in cui l’individuo, guidato dalla
“necessità” naturale, conta solo sulle sue forze e quelle di coloro che sono a
lui individualmente e personalmente legati. Non è quindi un caso che Zerzan e
Marcuse citino il Romanticismo, allorché cercano spazi non contaminati dalla
razionalità tecnica che ha reso il mondo brutalmente “unidimensionale”: “Riducendo e anzi annullando lo spazio
romantico dell’immaginazione, la società ha costretto l’immaginazione a dar
prova di sé in campi nuovi <quelli tecnico-scientifici, questa tesi del
ruolo 'creativo' dell’immaginazione in scienza e tecnica è un ritornello di
tutta la cultura scientista del Novecento, basti pensare alla 'falsa anarchia' detta 'anarchia epistemologica')” (H. Marcuse - “L’uomo a una dimensione”),
poi: “Circa 250 anni fa, il romantico
tedesco Novalis lamentava che ‘il significato autentico della vita è andato
perduto’. Ci si incomincia a domandare a livello diffuso sul significato della
vita solo all’incirca in quest’epoca <tardo Illuminismo, riflessione che
porta, appunto, al Romanticismo>,
proprio quando l’industrialismo fa le sue prime incursioni” (J. Zerzan - “Dizionario primitivista” -
Reificazione).
Appare chiaro, quindi, che il discorso
della Scuola di Francoforte è particolarmente interessante solo quando mette in
evidenza la follia del mondo moderno amministrato, protetto e tecnologico.
Quando riserva per sé l’appartenenza al mondo illuminista o mantiene l’idea di
un socialismo e di una civiltà non repressivi, non solo prosegue inconsciamente
la società amministrata, specialistica e tecnologica della borghesia, ma la
chiude in se stessa, facendone un segno, non più del profitto e dell’interesse,
ma della stessa modalità di essere “uomo”. In pratica, se nel capitalismo
tecnologia e controllo stanno al servizio di un guadagno e, in teoria, possono
interrompersi quando questo guadagno non c’è più, nel socialismo la società
“unidimensionale” del controllo amministrativo, scientifico e tecnologico
diventa il modo stesso di essere dell’uomo, per cui uomo=padrone. Il dominio di
scienza e tecnica nel capitalismo è sottoposto ad una condizione: quella del
profitto, nel socialismo, al contrario, è un presupposto ideologico della
politica. Dato che solo una società tecnologica e industriale può dominare il
mondo e portare il benessere moderno a tutti, il socialismo rischia di
ignorare, più ancora del capitalismo, quello che lo stesso Marcuse ha messo in
evidenza e che ogni anarchico serio condivide, cioè che: “con l’avanzare della conquista tecnologica della natura aumenta la
conquista dell’uomo da parte dell’uomo; e tale conquista riduce la libertà, che
è un a priori necessario della liberazione” (H. Marcuse - “L’uomo a una dimensione”). E’ chiaro, a questo
punto, che l’irrazionale, cioè la natura (la natura era irrazionale era anche per
Hegel, se presa nel suo “quid” variegato e individuale), non può essere il
semplice polo irrazionale-reale di una “dialettica” che fa capo alla ragione
illuminista, perché in tal modo si ottiene solo una duplice contaminazione. Se
la logica non dialettica, di tipo matematico e simbolico, si oppone alla logica
dialettica, nel senso che quest’ultima affonda le sue radici nella realtà: “La logica dialettica non può essere formale
poiché è determinata dal reale, che è concreto..E’la razionalità della
contraddizione..dell’opposizione di forze, tendenze, elementi, che costituisce
il movimento del reale” (H. Marcuse -
“L’uomo a una dimensione”), allora questo vuol dire che la logica che
sta alla base della scienza e della tecnica non si fonda sulla realtà. L’accusa
è pienamente fondata, tanto è vero che Zerzan nei suoi percorsi “primitivisti”,
vede il sorgere del linguaggio simbolico, che sta alla base della scienza e
della tecnica, proprio dai rituali sciamanici. Il linguaggio, come
successivamente le immagini artificiali (talmente mimetiche da ingannare
perfino gli animali), nasce come simbolo del pensiero: “il linguaggio è la simbolizzazione del pensiero, e i simboli sono le
unità elementari della cultura, il discorso è un fenomeno culturale
fondamentale per la civiltà” (J. Zerzan
- “Primitivo attuale” - Linguaggio: origine e significato). Il
linguaggio non rappresenta in alcun modo la realtà, è simbolo del pensiero,
diverge dalla realtà quanto e più del pensiero. La realtà non è rappresentabile
se non in modo astratto e mutilato. Ogni discorso scientifico contiene una
percentuale più o meno alta di astrazione e mutilazione della realtà. Il
linguaggio simbolico, alla fine, diventa un gioco fine a se stesso, al massimo
pilotato dall’egocentrismo antropologico. Il linguaggio è la struttura
dialogante del sistema repressivo e di ordine, ciò fin dalle interpretazioni
sciamaniche fatte nelle società tribali. Le grandi religioni, prima, la scienza
e la tecnica, dopo, sono il proseguimento e lo sviluppo di questo sistema che si
sviluppa attraverso il linguaggio simbolico. La scienza non è altro che una
simbolizzazione sistematica orientata dalla logica del pensiero. Ma oltre il
simbolo c’è la realtà. Se la logica formale e simbolica genera il mondo
“unidimensionale”, tramite la scienza e la tecnica, è altrettanto vero che la
logica dialettica non è affatto autenticamente “reale”, perché in essa: “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è
reale è razionale” (G. W. F. Hegel -
“Lineamenti di filosofia del diritto” - Prefazione). La realtà, nella dialettica, è già
inquinata “a priori” dalla ragione, per cui, poi, realtà e ragione risultano
essere dei poli dialettici, anziché dimensioni del tutto estranee. Poli
dialettici che trovano una sintesi in una razionalità storica che conferma,
ancora una volta, l’antropocentrismo illuminista, anziché superarlo. Per
questo, poi, la “ragione negativa” non riesce mai a scindersi del tutto e
definitivamente dalla “ragione strumentale” e l’illuminismo diventa la gabbia
in cui, ambiguamente, convivono la ragione strumentale e quella negativa, come
se l’Illuminismo stesso, come la tela di Penolope, disfacesse di notte, con la
ragione negativa, quello che fa di giorno con la ragione strumentale.
L’opposizione natura-ragione, come ben capirono i romantici, non è dialettica e
l’opposizione libertà-natura, da un lato, civiltà-società stabilita, dall’altro
lato, diventa radicale. In questa opposizione irriducibile a qualsiasi gioco
dialettico, la ragione negativa svolge un ruolo subordinato a qualcosa che la
“trascende”, giacché la libertà e la natura preesistono alla ragione negativa e
vengono da essa difese dagli abusi che contro la libertà e i corpi vengono
compiuti dalla ragione strumentale, che, non dimentichiamolo, rappresenta la
parte trionfale e dominante del progressismo illuminista. Il rapporto che sussiste
tra “ragione negativa” e “natura libera e individuale” può paragonarsi a quello
del sacerdote con Dio, secondo un’immagine che venne già usata dal romantico
Novalis: “Poeti e sacerdoti erano in
origine una cosa sola..Il vero poeta è però rimasto sempre un sacerdote, come
il vero sacerdote è sempre rimasto un poeta” (Novalis - “Frammenti” - “Polline” 71). Ovviamente il poeta è
sacerdote in epoche pagane, non certo in epoche in cui la religione è
metafisica e puramente spirituale, perché, in quest’ultimo caso, è avvenuta una
scissione tra natura e spirito. Dove, invece, natura e spirito coincidono, come
nel panteismo romantico, la natura appare viva e “trascendente” la razionalità
umana scientifica e tecnica, per cui la “ragione negativa”, non rendendo morta
la natura, come fa la ragione strumentale con i suoi simboli e sovrapposti
nessi logici e causali, prende la natura così com’è immediatamente. La ragione
negativa prende la natura come trascendente la ragione in sé e solo così può
avere un solido fondamento, perché, altrimenti, come “pura ragione negativa”, girerebbe
a vuoto nel nulla e infatti il nichilismo esistenzialista oscilla tra il girare
nel nulla della ragione e le nostalgie teologiche. La positività della
natura impedisce il girare a vuoto della “ragione negativa” e nello stesso
tempo denuncia la falsità e la mistificazione delle costruzioni razionali,
scientifiche e tecniche della “ragione strumentale”, cioè della “reificazione”,
aiutata in ciò dalla “ragione negativa”. In questo senso la ragione negativa
sta alla natura come il sacerdote sta a Dio. E’ lo strumento comunicativo e
dialogante di quella trascendenza naturale che la ragione in sé non comprende,
trascendenza naturale, rigorosamente individuale, che comunica con il corpo, i
sentimenti e gli istinti. Conseguenza di ciò è il fatto che il poeta capisca la
natura meglio dello scienziato: “Il poeta
capisce la natura meglio della testa scientifica” (Novalis - “Frammenti” - Allgemeines brouillon 1093). Questo
capita perché la scienza riproduce solo una “sovrastruttura” simbolica e
tecnico-razionale della natura, cioè la “reificazione” (che fa tutt’uno con
quel dominio sulla natura e sull’uomo che Marcuse denuncia come mondo
“unidimensionale”), non coglie la natura stessa nella sua individualità
particolare e nella sua soggettività vivente materializzata nei corpi, compito
che, secondo i romantici, può essere svolto solo da chi, dopo aver usato la
“ragione negativa” per destrutturare la scienza con lo scetticismo, si pone
nell’immediatezza del corpo singolo e vivente, il “Sé” di cui parlava
Nietzsche. Per i romantici questo Sé vivente, individuale e corporeo si
esprimeva attraverso l’arte, per cui il poeta diventa “il profeta della rappresentazione della natura” (Novalis - “Frammenti” - Il regno del poeta). Questo regno del
poeta è il regno stesso della natura e in esso tutto è individuale,
sentimentale, istintivo, corporeo, si colloca, cioè, “al di là” della ragione,
al di là dell’Illuminismo e di ogni presunta dialettica dell’Illuminismo. Nella
realtà naturale l’universale in sé, strumento della scienza, non esiste, e
l’universale è il particolare stesso, come ebbe a notare, giustamente, Goethe: “E’ molto diverso che il poeta <o il
filosofo> cerchi il particolare in
funzione dell’universale <Hegel, Marx, la scienza in generale> oppure veda nel particolare l’universale <romanticismo,
individualismo, anarchismo>. Nel primo
caso si ha l’allegoria <il simbolismo, vedi quello scientifico, ma il
simbolismo in generale tende a ignorare la natura e l’individualità, leggere
simbolisticamente gli autori romantici significa avere in testa una gran
confusione provocata dalla ragione>,
in cui il particolare vale solo come esempio, come emblema dell’universale; nel
secondo caso invece si svela la vera natura della poesia: si esprime il caso
particolare senza pensare all’universale e senza alludervi” (J. W. Goethe - “Massime e riflessioni”
279). Questo significa che la filosofia romantica si sarebbe dovuta
basare sul naturale immediato, senza simbolismi creati dalla ragione, e avrebbe
dovuto descrivere le caratteristiche dell’individuo particolare, in quanto
particolare. Ovvio che la filosofia trovasse qualche difficoltà, dato che usava
i concetti. Per questo nessun filosofo idealista ha espresso quella che avrebbe
dovuto essere la filosofia romantica, che, perciò, rimase espressa solo dai
poeti e dai frammenti (Novalis, Schlegel, Leopardi, ecc.). Solo successivamente
la filosofia seppe far sua questa eredità romantica, con l’Unico di Stirner,
nella contestazione anarchica e individualista della società politica, e con il
Superuomo di Nietzsche a livello generale esistenziale e tragico. Leopardi fu
un anticipatore di questa tendenza e si avvicinò all’autentica filosofia
romantica molto di più di quanto fecero i figli di Kant, cioè i filosofi
dell’Idealismo filosofico (vedi Fichte, Schelling e Hegel, fino a quel Croce
che non capì mai che il romanticismo voleva proprio la fusione di poesia e
filosofia e sulla base di questa sua incomprensione criticava assurdamente
Leopardi), ne è riprova la stretta congiunzione, che Leopardi e i romantici fanno,
tra poesia e filosofia: “il vero poeta è
sommamente disposto ad essere gran filosofo, e il vero filosofo ad essere gran
poeta” (G. Leopardi - “Zibaldone” 3383),
passo che ha l’esatto corrispondente nel Romanticismo tedesco: “il filosofo diviene poeta. Il poeta è solo
il grado più elevato del pensatore” (Novalis
- “Frammenti” - Allgemeines brouillon 717). Tutto questo significa che
la “protesta” o il “rifiuto critico”, se non hanno una base ontologica nella
natura, poggiano, come diceva Goethe, con i piedi nel vuoto e ondeggiano nel
vento: “Giacché con gli dei/ nessun
mortale/ deve provarsi./ Se egli si innalza/ e con il capo/ sfiora le stelle,/
allora in nessun luogo/ poggiano i piedi incerti/ e con lui giocano/ nuvole e
venti” (J. W. Goethe - “Poesie diverse”
- “Limiti dell’umano”). Il “grande rifiuto” di Marcuse e degli anni
Sessanta rischiava questo “nulla” e questo movimentismo da “banderuola”,
infatti terminò o nel terrorismo marxista delle Brigate rosse o nella droga. Il
merito della “ribellione”, però, resta. Ma negli anni Sessanta furono anche poste le basi per un nuovo naturalismo (purtroppo ormai del tutto inquadrato nella tecnologia e nella società "unidimensionale": vedi raccolta differenziata, energie rinnovabili, ecc.) e per la "rivoluzione sessuale" (anch'essa, dapprima sfruttata economicamente con l'industria del porno e ora, addirittura, imbavagliata di nuovo dal bigottismo dei benpensanti). Marcuse cercò disperatamente nell’Es
freudiano un appoggio ontologico per la “protesta” , immaginando una società
non repressiva che, a rigore, si può concepire presente nell’ispiratore segreto
di Freud, cioè Nietzsche, ma non in Freud e nella psicoanalisi, in cui l’Es,
invece, è il compagno fedele della repressione della civiltà, più o meno come
il lavoratore è il fedele compagno dell’imprenditore industriale. Il tutto
ignorando quel “rifiuto” della modernità che fu il Romanticismo, dapprima,
l’anarco-individualismo di Stirner, poi, l’amor fati di Nietzsche, infine, che
esplicavano tutti la linea del “rifiuto” della modernità. Questo “ignoranza”
c’era a causa della censura operata dalla ragione, perché la prospettiva
illuminista, cioè borghese e socialista, catalogava, a priori e senza esame
critico approfondito, nella categoria del “reazionario” sia il Romanticismo,
sia Stirner e sia Nietzsche. La società non repressiva di Marcuse, alla fin
fine, è la civiltà tecnologica resa buona, cioè un “ossimoro”, il cattivo reso
buono. Pregiudizio illuminista più forte non poteva esserci e così la società
disciplinare detta civiltà, fatta di controllo e di tecnica, è andata tranquillamente
avanti.
Marcuse e la Scuola di Francoforte,
nonostante l’ottima critica fatta alla società amministrata e tecnica, non
seppero trovare un fondamento per quella critica, così che la società
tecnologica ha potuto proseguire indisturbata il suo percorso devastante della
natura e della libertà dell’uomo. Vediamo alcune ottime osservazioni critiche della Scuola di Francoforte, per poi passare ad esaminare il paragrafo
conclusivo del lavoro di Marcuse “L’uomo a una dimensione”.
Dicono Horkheimer e Adorno: “Ciò che non si piega al criterio del
calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo, sospetto. E quando
l’illuminismo può svilupparsi indisturbato <vedi dal 1945 in poi> da ogni oppressione esterna, non c’è più
freno..L’illuminismo è totalitario..La società borghese <e socialista,
moderna in generale> è dominata
dall’equivalente. Essa rende comparabile l’eterogeneo riducendolo a grandezze
astratte. Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell’uno,
diventa, per l’illuminismo, apparenza; e il positivismo moderno lo confina
nella letteratura” (M. Horkheimer - T. W.
Adorno - “Dialettica dell’illuminismo”). E’ esattamente quello che è
stato fatto nei confronti del Romanticismo e di Leopardi: relegati a
“letteratura”, quindi a qualcosa che non possiede “verità”. Nietzsche è stato
relegato nella “filosofia”, anch’essa ritenuta dallo spirito illuminista
qualcosa di simile alla “letteratura”, perché il positivismo illuminista
ritiene ormai “verità” solo la scienza, soprattutto nel suo articolarsi
infinito, sul modello del DNA. Come se la moltiplicazione all’infinito della
falsità dei simboli, di cui ognuno è falso per natura, potesse dare una cosa
vera. Stirner, infine, è stato relegato nel silenzio a causa della stessa
ignoranza della filosofia. La civiltà scientifica e tecnologica moderna, erede
dei pregiudizi illuministi e positivisti, ha creato i contorni del modello
ideologico per molti secoli a venire.
Dicono ancora Horkheimer e Adorno: “Come signori della natura, dio creatore e
spirito ordinatore <scienza e tecnica> si assomigliano. La somiglianza dell’uomo con Dio consiste nella
sovranità sull’esistente, nello sguardo padronale, nel comando..L’illuminismo
si rapporta alle cose come il dittatore con gli uomini.. L’astrazione, lo
strumento dell’illuminismo, opera coi suoi oggetti come il destino, di cui
elimina il concetto: come liquidazione. Sotto il dominio livellatore
dell’astratto, che rende tutto ripetibile nella natura, e dell’industria, per
cui esso lo prepara, i liberati stessi <i presunti ‘liberati’
dall’Illuminismo> finirono per
diventare quella ‘truppa’ in cui Hegel ha mostrato il risultato
dell’illuminismo..l’illuminismo è totalitario più di ogni altro sistema. Non in
ciò che gli hanno rimproverato i suoi nemici romantici - metodo analitico,
riduzione agli elementi, riflessione dissolvente <ma come? Non sono
proprio questi i principali fattori dell’astrazione?> - è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in
anticipo. Quando, nell’operare matematico, l’ignoto diventa l’incognita di
un’equazione, è già bollato come arcinoto prima ancora che ne venga determinato
il valore” (M. Horkheimer - T. W. Adorno
- “Dialettica dell’illuminismo”). Ogni previsione scientifica si pone
nella posizione di principio per cui gli eventi futuri devono somigliare
all’incognita di un’equazione, tanto è vero che molte “previsioni scientifiche”
usano “proiezioni matematiche”. In ogni caso “il processo è deciso in anticipo” proprio perché i dati vengono
dissolti nell’analisi in elementi semplici, cioè proprio per quello che gli
rimproveravano i romantici. Dunque, perché prendere le distanze dai romantici?
Perché la critica all’Illuminismo può venire solo dall’Illuminismo stesso? Perché è
“dialettica dell’illuminismo”? Come dire che è Illuminismo sia la “ragione
strumentale” che la “ragione critica”. No! La “ragione critica” non è un
monopolio dell’Illuminismo, che ne fu solo un momento storico che portava con
sé, inscindibilmente, la “ragione strumentale”. L’Illuminismo otteneva positività
dalla “ragione strumentale”, non dalla “ragione critica”, è dunque in nome del
“nulla” che dovremmo criticare la scienza e la tecnica che sono il frutto della
“ragione strumentale”? La verità è che la “ragione critica” o rimanda alla
positività della natura non più letta mediante gli schemi della ragione scientifica, oppure
non fonda su niente la sua critica. Per questo i romantici dicevano che, per
percepire la natura quale essa è, bisogna liberarsi, prima di tutto, del
“sapere”, culturale in generale, ma, nel caso in questione, soprattutto di
quello scientifico e tecnico: “Il mondo
deve essere romanticizzato. Così si ritrova il senso originario. Romanticizzare
non è altro che un potenziamento qualitativo..Nel momento in cui do a ciò che è
comune un senso elevato, a ciò che è consueto un aspetto pieno di mistero, al
noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita io lo rendo
romantico” (Novalis - “Frammenti” -
Lavori preparatori per raccolte di
frammenti - Poeticismi 105). Vedere la realtà come se ci fosse sempre
“ignota”, questo vuol dire vedere la natura al di là della scienza e della
tecnica. Ed è lo sguardo dei fanciulli, degli animali e, aggiungevano i
romantici, dei “poeti”: “Il nostro
invadente intelletto/ deforma la bellezza delle cose/ - con l’analisi noi
uccidiamo./ Basta con le arti e le scienze,/ chiudi queste pagine avvizzite,/
esci fuori e porta con te un cuore/ che osserva e percepisce” (W. Wordsworth - “Ballate liriche” - “Il
rovescio della medaglia”). Al di là del “conosciuto” si trovano la
natura, la vita e noi stessi e si trova anche quella morte che nel mondo amministrato e tecnico neppure lontanamente è prevista: l'ora della morte non è un concetto scientifico e tecnico: "L''ora della morte' non è un concetto cristiano" (F. Nietzsche - "L'anticristo" 34). Questa umiltà, la saccenteria illuminista,
scientifica e tecnologica, con la sua arroganza e padronalità su tutto, piante,
animali ed esseri umani stessi, non la conosce e gli sfugge il senso stesso
della vita, che è incomprensibile bellezza e tragedia (sublime) assieme.
Ancora
Horkheimer e Adorno: “L’eliminazione
delle qualità, la loro traduzione in funzioni, passa dalla scienza, tramite la
razionalizzazione dei metodi di lavoro, al mondo percettivo dei popoli..La
regressione delle masse, oggi, è l’incapacità di udire con le proprie orecchie
qualcosa che non sia stato ancora udito” (M.
Horkheimer - T. W. Adorno - “Dialettica dell’illuminismo”).
Perfettamente vero, ma il principale responsabile di questo stato di cose è
l’Illuminismo, come ammettono i nostri due illuministi anti-illuministi. Ma
perché non notare, allora, che proprio il Romanticismo aveva difeso “le qualità”, vale a dire le differenze
naturali, individuali e nazionali? Dove regnano le differenze naturali, la scienza e la tecnica non possono
esercitare il loro nefasto potere omologante e uniformante. Ma di Romanticismo
non si parla, perché il pregiudizio del borghese e del socialista è quello di
vedere in esso solo una cultura “reazionaria”. Eppure qui, come altrove, si può
facilmente notare come si possa enucleare un “materialismo romantico”
assolutamente rivoluzionario, ben al di là delle rivoluzioni moderne, perché si
tratta di una rivoluzione “contro la modernità” ed è chiaro, da quello che dice
la stessa Scuola di Francoforte, che è la modernità il totalitarismo più
perfetto che sia mai stato immaginato. Lottare “contro” la modernità non vuol
dire tornare al Medioevo, il corpo non è un evento storico, somigli o meno ad
età preistoriche o di mezzo, il corpo, le emozioni personali e l’oggettiva
differenza individuale sono la base romantica della “ragione critica”, altra
base non c’è.
Dicono ancora Horkheimer e Adorno: “La civiltà è la vittoria della società
sulla natura che trasforma tutto in mera natura..L’irrazionalità dell’adattamento
docile e solerte alla realtà diventa, per il singolo, più ragionevole della
ragione..La dialettica dell’illuminismo si rovescia oggettivamente in follia” (M. Horkheimer - T. W. Adorno - “Dialettica
dell’illuminismo”). Le masse, in altri termini, si rapportano
irrazionalmente alla civiltà e prendono per principio l’adattamento alla realtà
sociale senza uso della ragione. Dato che la realtà di cui qui, però, si parla
è quella sociale e tecnologica della civiltà, che ha reso “oggetto” di scienza
anche l’uomo, ne consegue che l’adattamento alla realtà e l’adattamento
all’appiattimento dell’equivalente sociale, tipico della tecnica, vengono
ritenute la stessa cosa. Per cui, poi, Marcuse cercherà un’assurdo rifugio
dell’Es come opposizione, in vista di una fantomatica civiltà non repressiva, opposta
alla realtà sociale. Ma la realtà sociale, soprattutto nella versione
appiattita dalla ragione tecnico-scientifica, non è affatto la realtà, bensì è
la realtà già manipolata dalla ragione e dalla società, è una “reificazione”,
non una “realtà”. Realtà è solo quella naturale, antecedente ad ogni
manipolazione fisica e intellettuale. Non è affatto necessario affidarsi ad una
ragione che si dissoci dal principio di realtà, soprattutto perché la realtà e
la ragione si confondono solo nel mondo artificioso della scienza e della
tecnica, solo nell’Illuminismo e nel Positivismo e infine anche nella "dialettica". Non bisogna cercare una
ragione posta contro la realtà razionalizzata, così come non bisogna cercare un
Es che nelle persone coscienti non esiste. E’ il mondo della ragione che va
rimosso, come dicevano i romantici, cioè quello del “sapere”: rimosso questo
mondo fasullo, il mondo reale riemerge da solo. La rimozione della ragione porta con sé la rimozione del mondo unidimensionale "reificato" nella scienza e nella tecnica (oltre che nella religione e nella politica). Se l’uomo smettesse di parlare
e di rappresentare, linguisticamente o per immagini, il mondo reale tornerebbe
in primo piano da solo. D’altra parte, ragione o non ragione, la realtà naturale
ci attanaglia sempre, con il suo potere di vita e di morte.
Se la società, come dice Adorno e anche
Zerzan dopo di lui, appare “reificata”, nel senso che i fenomeni culturali
vengono fatti apparire come un destino necessario, allora bisogna smascherare
questa mistificazione: “Theodor Adorno,
fra gli altri, asseriva che la società e la coscienza sono diventate quasi
completamente reificate..La tecnologia è innegabilmente diventata il grande
veicolo della reificazione” (J. Zerzan -
“Dizionario primitivista” - La reificazione). Per poter smascherare la
“reificazione” non ci si può affidare alla ragione in generale, occorre la
“ragione critica”, ma occorre anche il fondamento della “ragione critica”, cioè
la natura presa in modo pre-culturale, perché, appunto, la cultura appare reale
solo nella “reificazione”. La “reificazione” riflette i modelli artificiali e
culturali che la civiltà impone progressivamente agli individui e tale
atteggiamento nella cultura tecnico-scientifica è più duro che mai: “Anche la forma deduttiva della scienza
riflette gerarchia e coercizione..l’intero ordine logico, la dipendenza, la
progressione e l’unione dei concetti si fondano su condizioni equivalenti della
realtà sociale - vale a dire, la divisione del lavoro” (M. Horkheimer - T. W. Adorno - “Dialettica dell’illuminismo”).
La dimensione tecnico-scientifica, quindi, è una “gabbia culturale” che è
“reificata” intorno alla vita delle persone, le quali si rapportano tra di loro
solo nei termini di tale ideologia, a cominciare dall’attribuzione delle
responsabilità, ormai tutte ricondotte alla legge di causa ed effetto e
misurate da procedimenti tecnici disposti dalla polizia, per cui già nel
gabinetto scientifico vieni a sapere se sarai condannato o meno. Il processo
giudiziario diventa una formalità. La “reificazione” tecnico-scientifica è
assolutamente necessaria là dove la società vive in modo “organizzato” e
pratica una sistematica, quanto ingiusta, “divisione del lavoro”. Il progresso
organizzativo, scientifico e tecnologico nascono dalla divisione del lavoro e
lo riproducono all’infinito. A livello di opinione pubblica una critica ad un
simile apparato manca totalmente e, laddove viene vagamente proposta, la gente
reagisce dicendo “oddio il benessere? oddio il pane?”. Siamo, quindi, in piena
società “unidimensionale”, non ci si può meravigliare se anche la sessualità
riproduca, con l’ideologia “transgender”, una sessualità “unidimensionale”. Si
tratta di conformismo al modello “uomo a una dimensione”. Tutto questo avviene
solo là dove si riesce a separare l’individuo dalla sua natura primaria
attraverso la reificazione artificiale prodotta dall’arte e dalla scienza: “L’arte fornì lo strumento concettuale con
il quale l’individuo venne separato dalla natura e dominato socialmente nel
profondo” (J. Zerzan - “Primitivo
attuale”). Arte e tecnica, in effetti, collaborano sempre di più per
dare un volto estetico alla “reificazione”: è il famoso “bello tecnologico”. Un
bello sostanzialmente da snaturati, giacché il bello autentico ha sempre
qualcosa di naturale.
Se è vero, come è vero, che, sulla scia di
una radice romantica, consapevole o meno nei ribelli, cresce il fastidio per
questa società interamente amministrata, controllata e tecnicizzata, allora,
dicono gli autori della Scuola di Francoforte, bisogna salvaguardare
l’individuo dai feticci sociali della civiltà amministrata e tecnologica, che
rappresentano il proseguimento della dittatura nazi-fascista: “La salvaguardia dell’individuo in un’epoca
che ne minaccia la scomparsa: attorno a questo fuoco prospettico ruotano dunque
le analisi più mature degli esponenti della prima generazione francofortese” (E. Donaggio - “Introduzione a ‘La Scuola
di Francoforte’”). Ma come può una prospettiva illuminista e razionale
tutelare l’individuo naturale quando è essa stessa a creare la barbarie della
civiltà amministrata e tecnologica? La barbarie nazi-fascista, in quanto moderna, è contaminata dall'Illuminismo molto di più di quanto si ritiene, per motivi opposti, a destra e a sinistra. E' l'universalismo illuminista che ha reso fanatico il nazionalismo nazi-fascista, perché una nazione particolare ha preteso di diventare il modello "unidimensionale" dell'intero globo. Esattamente la stessa cosa sta avvenendo con il modello mercantile-militare americano, chiamato impropriamente "globalizzazione". E’ l’assurdità della “dialettica
dell’illuminismo”, l’illuminismo, se è il demone che crea il moderno
totalitarismo, non può essere il liberatore dal totalitarismo. Se la civiltà
moderna è la repressione, non può essere una società non repressiva.
L’individuo viene tutelato solo se si superano l’Illuminismo e la ragione (facendo
di questa una semplice serva, tipo “ragione critica”, posta al servizio non di
scopi politici diversi, ma della natura primordiale che vive repressa in ognuno
di noi e risorge da capo ad ogni nuova nascita), solo se si prende la strada
della varietà individuale dei romantici, di Stirner, di Leopardi, di Nietzsche.
La teoria critica, liberata dal peso delle ultime forme di socialismo, esiste
già, è bella che pronta, occorre soltanto volerla vedere, anziché rimanere in
preda a pregiudizi illuministici, cioè borghesi e socialisti, secondo i quali
il Romanticismo, Stirner e Nietzsche sono autori “reazionari”, pregiudizio
fatale di chi non li ha letti e scavati con attenzione. La soluzione è il
superamento dell’Illuminismo, non una “dialettica dell’Illuminismo” che ci
parla di un razionale che diventa irrazionale (totalitarismo di scienza e
tecnica), per poi chiedere al razionale di liberarci di nuovo, al che,
correttamente, si fa la seguente obiezione: “Una
situazione di stallo: confina la riflessione filosofica di Adorno al fondo del
vicolo cieco cui sfocia ‘Dialettica dell’illuminismo’: come può, infatti, la
ragione comprendere e criticare una barbarie che le è connaturata?” (E. Donaggio - “Introduzione a ‘La Scuola
di Francoforte’”). Proprio perché capì che con la ragione illuminista
non si poteva superare la barbarie che l’Illuminismo stava preparando nacque il
Romanticismo. Le collusioni avvenute, specialmente in Italia, tra falsi
romantici e la religione (quanti danni ha fatto la Chiesa in Italia!), non possono far ignorare che proprio nel Romanticismo
c’è quella risposta che rivaluta la qualità, la varietà, l’individualità a cui,
confusamente, si richiamano i membri della Scuola di Francoforte (Marcuse
pretende di farlo tramite l’Es, nella psicoanalisi compagno di strada della
repressione, allora perché non Nietzsche?) per considerare superato il
totalitarismo della società amministrata: “Cresce
però la consapevolezza che l’insopportabile pressione esercitata dalla società
sull’uomo non è inevitabile, e c’è da sperare che gli uomini capiranno come essa
non sia la diretta conseguenza delle esigenze puramente tecniche della
produzione, bensì abbia radice nella struttura sociale..La disciplina
industriale, il progresso tecnico, promettono..di dar vita a un nuovo mondo in
cui l’individualità potrà riaffermarsi come elemento di una forma d’esistenza
meno ideologica e più umana” (M.
Horkheimer - “Eclisse della ragione”). Il pregiudizio politico
anti-capitalista e il pregiudizio tecnico-razionale illuminista vanno qui di
pari passo. Come dice correttamente Donaggio, la ragione, anche se critica
l’Illuminismo, non può far altro che ricrearne la barbarie, perché la “ragione
critica” non ha positività e quando la ragione si fa positiva viene fuori la
barbarie della “ragione strumentale”. Si sostiene, poi, che il totalitarismo
della ragione tecnica, cui assistiamo impotenti oggi, dipenda da una società
sbagliata come sarebbe il capitalismo. Per cui, in una struttura sociale “più umana”, la tecnologia non sarebbe
più oppressiva. Insomma, di fronte all’inferno creato dal mondo amministrato e
tecnologico (tecnologia cattiva o capitalista), si prospetta l’idea di un mondo
amministrato e tecnologico diverso (buono, forse socialista?), dove
l’individualità possa riprendere vigore e far valere quegli anti-corpi che l’individuo
possiede per non farsi soggiogare dall’equivalente della piattaforma
tecnologica. Si cerca, insomma, una ragione più ragionevole, un illuminismo più
illuminista, una modernità più moderna. Questo spiega perché siamo andati
sempre peggio e nella stessa direzione. Perché stiamo solo accelerando sulla
strada del totalitarismo illuminista. L’unica strada di emancipazione, quella
che va dal materialismo naturalistico romantico verso Leopardi, Stirner e Nietzsche, non
viene percorsa, sia per un pregiudizio illuminista nei confronti di tali
movimenti e autori (definiti “reazionari”, quasi fossero dei semplici
nostalgici dell’antico regime o della Chiesa medievale), sia perché si vuole la
botte piena e la moglie ubriaca, cioè si nota che la civiltà moderna del
benessere è anche una civiltà repressiva, e si immagina una civiltà moderna del
benessere che non sia repressiva. E la si cerca anche nella psicoanalisi,
magari isolando l’Es da tutto il contesto della dottrina psicoanalitica (come
fa Marcuse), là dove la dottrina psicoanalitica è chiara: non si da civiltà del
benessere senza repressione: “Sembra
piuttosto che ogni civiltà debba edificarsi sulla coercizione e sulla rinuncia
pulsionale” (S. Freud - “L’avvenire di
un illusione”). Immaginare civiltà dove non c'è repressione è come immaginare un cerchio quadrato, è ancora più utopistico
dell’immaginare un ritorno alla natura di tipo edenico, perché l’esperienza
della civiltà è legata ad una struttura organizzativa e razionale che è sempre
stata, storicamente, repressiva, e che non può essere diversa per il semplice
fatto che la struttura organizzativa razionale inevitabilmente rende passivi e
meccanici gli individui. Una civiltà non repressiva non può esistere. Né l’Es è
una via d’uscita, sia perché manca del senso della realtà e sia perché nella
psicoanalisi è la vittima predestinata dell’analisi che riconduce alla
supremazia dell’Io, il quale obbedisce, con minore slancio del Super-io, agli
ordini della normalità sociale e civile. La funzione seguente che Marcuse
assegna alla psicoanalisi non può sussistere e rivela che il pregiudizio
illuminista impedisce di osservare che la psicoanalisi è il trasferimento
dentro l’ambito “normativo” di una pseudo-scienza (la psicoanalisi) di
un’esigenza istintiva e “oscura”, ma solo per la ragione, che era venuta fuori
con il Romanticismo ed era andata avanti nell’Ottocento attraverso gli autori
“ribelli”, cioè Leopardi, Stirner e Nietzsche. Dice Marcuse: “affinare i concetti psicoanalitici
significa affinare la loro funzione critica, la loro opposizione alla forma
vigente della società. E questa funzione sociologica critica della psicoanalisi
scaturisce dalla funzione fondamentale che la sessualità ha come ‘forza
produttiva’; le esigenze libidiche spingono il progresso verso la libertà..La
psicoanalisi porta alla luce l’universale dell’esperienza individuale”(H. Marcuse - “Eros e civiltà”).
Che la sessualità possa essere un’energia liberatrice è possibile e augurabile.
Ma non si può confondere la sessualità con la psicoanalisi. La psicoanalisi,
deformando in senso razionale scientifico il messaggio che arrivava dal
Romanticismo e dal “Sé” corporeo di Nietzsche, rappresenta la “reazione” della
società amministrata nei confronti di quel lato “oscuro” per la ragione e per
la civiltà che il Romanticismo, in polemica con l’Illuminismo, aveva scoperchiato.
Questo lato “oscuro” per la ragione è il corpo come entità vivente posto al di
là e al di sopra degli schemi analitici della scienza (atomi, cellule, elementi
chimici, ecc.), lato oscuro-corpo che, in quanto “corpo vivente”, esprime
“sentimenti” e “istinti”, i quali sono altrettanto “oscuri” per la ragione.
L’intero mondo naturale, in realtà, è “oscuro” per la ragione, ma quest’ultima,
con le sue “reificazioni” di rapporti e mediazioni, tramite un continuo
simbolismo, non lo ammette. Quel lato “oscuro” per la ragione che era nato con
il Romanticismo, il Romanticismo stesso lo espresse nella forma della
“liberazione”: il fanciullo, l’animale, fino al Superuomo nicciano; al
contrario, in Freud appare nella forma della “repressione” (l’Es), in una forma psicologica
svincolata dal reale (mentre istinti e sentimenti agiscono solo in un contesto
reale), in una forma che appare pericolosa perché sviluppata quasi in senso
maniacale e che la psicoanalisi razionalizza in modo del tutto arbitrario (come
è arbitraria ogni codificazione della scienza) nel tentativo di riportare i
fenomeni “oscuri” a una “chiarezza” compatibile con la razionalità e la civiltà, che li hanno provocati con la repressione. La psicoanalisi è la forma in cui la repressione
civile tiene a bada il lato oscuro dell’uomo, è il tentativo di negare che
qualcosa sfugga alla ragione, cioè, alla fin fine, alla repressione stessa. Lo
psicoanalista somiglia tanto al confessore, il confessore è uno strumento della
repressione, non un liberatore. E’ al naturalismo romantico e ai suoi sviluppi
anarchici e individualisti che bisogna guardare per andare nella direzione
della liberazione, non ad uno strumento scientista come la psicoanalisi. Il
fatto che Marcuse vada a cercare la liberazione in una forma della repressione
mostra con evidenza come la confusione regnasse sovrana in chi si ostinava a
seguire la ragione anche quando affermava di combattere il totalitarismo
illuminista. E’ evidente anche che Marcuse risente del clima degli anni
Sessanta in cui Freud passava per un liberatore, anche se aveva simpatizzato
per il regime fascista austriaco. Il fatto è che questa forza liberatrice nella
psicoanalisi non esiste affatto, essa rappresenta solo un controllo più
sofisticato e scientifico della sessualità. La psicoanalisi non parte dalla
prospettiva dell’Es, ma dalla prospettiva della schematizzazione scientifica e
del controllo delle pulsioni al fine di far diventare il paziente, dopo la
terapia, un cittadino ben integrato. La psicoanalisi sta dalla parte della
civiltà e questa, come diceva Freud, è necessariamente repressiva. Tutta la
lettura del caso clinico che fa lo psicoanalista non ha nulla a che fare con l’individualità,
dato che le reazioni e i comportamenti del paziente vengono subito ricondotti
dalla psicoanalisi a schemi psicologici precostituiti che non hanno nulla di
veramente personale. Per di più il fatto che si adotti l’Es come forza
liberante, dato che l’Es non conosce la realtà, è una forzatura psicologica
della liberazione che solo un secolo malato di psicologia come il Novecento
poteva concepire. L’Es è un concetto nicciano mal recepito da Freud, perché
l’energia vitale della necessità o volontà di potenza in Nietzsche si staglia,
attraverso il corpo cosciente come Sé e non per nulla inconscio (tale è solo
nella rimozione sociale, ma il superuomo non subisce la rimozione sociale),
all’interno della realtà naturale (non sociale) come “amor fati”. L’Es freudiano
appare come un minorenne gettato nella realtà e quindi autorizza la tutela da
parte dell’Io o del Super-io, in pratica non solo non sarebbe un individuo che
segue i suoi liberi istinti, ma anche un irresponsabile, il che ha sempre dato
giustificazione per creare un potere repressivo. Solo un individuo istintivo e
responsabile può sfuggire alla tela di ragno della società amministrata e
tecnologica. Questo individuo descrissero i romantici, Leopardi, Stirner e
Nietzsche. In realtà il superuomo nicciano altro non è che il “Prometeo”
romantico di Goethe che affronta il destino del suo percorso di vita terrestre,
senza sottomettersi ad alcuna autorità (sottomissione che equivale alla “morale
dello schiavo”). Ma con ciò siamo nell’alveo della tradizione romantica, che i
socialisti non comprendono, visto che sono incancreniti nella tradizione
borghese di origine illuminista. Non si tratta più di “sociologia critica”,
cioè di “socialismo moderno”, ma di superamento della prospettiva sociologica,
critica o non critica che sia, borghese o socialista che sia. Quell’individuo e
quell’inconscio che la Scuola di Francoforte e Marcuse inseguono è, invece, ben
delineato nell’individualismo estetico, etico, cosciente e qualitativamente
percepito della tradizione romantica e arcaicizzante che va dal Romanticismo a
Leopardi, a Stirner, fino a Nietzsche.
Dice Marcuse: “La fusione oscena del momento estetico con la realtà, rifiuta le
filosofie che oppongono l’immaginazione ‘poetica’ alla Ragione scientifica ed
empirica. Al progresso tecnologico si accompagna una razionalizzazione
progressiva ed anzi la realizzazione dell’immaginario” (H. Marcuse . “L’uomo a una dimensione”). Non c’è dubbio sul
fatto che questo sia accaduto e stia accadendo ancora. L’immaginazione è stata
catturata dalla ragione scientifica per spingere quest’ultima sempre più
avanti. Nel contempo la ragione tecnologica ha sempre di più contaminato l’arte
che, in teoria, almeno se presa nel suo aspetto romantico, si opporrebbe alla ragione scientifica e tecnica. Ne è venuta
fuori un’arte sempre più astratta e mostruosa (i cui monumenti vengono perfino
messi nelle piazze per ricordarci l’orrore quotidiano in cui viviamo) e allo
stesso tempo un’accelerazione della conquista tecnologica come non si vedeva da
tempo. A ragione, quindi, Marcuse definisce “osceno”
il connubio tra arte e tecnica, tra “immaginazione
poetica” e “ragione scientifica e
empirica”. Tuttavia ignora che l’esempio più potente che ci sia mai stato
di “immaginazione poetica”, che si staccava, schifata, dalla
ragione, sia stato proprio il Romanticismo. Il paraocchi illuminista impedisce
di vedere l’opposizione più grande che ci sia mai stata alla ragione strumentale
e vagheggia ancora una modernità non repressiva, come se fosse possibile non
reprimere la gente là dove la si deve inquadrare nell’organizzazione come in un
esercito.
Dice
ancora Marcuse: “Riducendo e anzi
annullando lo spazio romantico dell’immaginazione <si cita il
Romanticismo quale spazio creativo ma libero e nello stesso tempo lo si ignora
completamente, come se non fosse una via da percorrere e appartenesse ai preti
a priori>, la società ha costretto
l’immaginazione a dar prova di sé in campi nuovi, nei quali le immagini sono
tradotte in capacità e progetti storici..Separata dal regno della produzione
materiale e dei bisogni materiali, l’immaginazione era un semplice gioco <spirito
romantico, cibo e poi gioco>,
impotente nel regno della necessità, e dedita soltanto ad una logica fantastica
e ad una fantastica verità <questa separazione tra realtà e fantasia è
troppo schematica, l’immaginazione può conciliarsi con la realtà naturale, nel
Romanticismo avvenne spesso, ma non si concilia con la 'produttività' economica
e sociale, che qui viene chiamata impropriamente ‘realtà’, come se la realtà
fosse esclusivamente la ‘realtà sociale’: è il vizio politico marxista che
sopravvive nella Scuola di Francoforte>.
Quando il progresso tecnologico annulla codesta separazione, esso investe le
immagini con la sua propria logica e la sua propria verità, riducendo la
facoltà libera della mente. Ma ciò riduce anche la lacuna tra immaginazione e
Ragione. Le facoltà antagonistiche diventano interdipendenti su un terreno
comune. Alla luce delle capacità della civiltà industriale avanzata, ogni gioco
dell’immaginazione non gioca forse con possibilità tecniche, che possono essere
messe alla prova per vedere se è possibile realizzarle? L’idea romantica di una
‘scienza dell’immaginazione’ sembra assumere un aspetto più che mai empirico <pratico,
tecnologico, più che estetico>. Il
carattere scientifico e razionale dell’Immaginazione è stato da lungo tempo
riconosciuto nella matematica, nelle ipotesi e negli esperimenti delle scienze
fisiche. Esso è stato parimenti riconosciuto nella psicoanalisi, che si fonda
in teoria sul presupposto della razionalità specifica dell’irrazionale;
l’immaginazione compresa e interpretata diventa, dopo essere orientata in una
nuova direzione, una forza terapeutica.. L’immaginazione non è rimasta immune
al processo di reificazione..Razionale è l’immaginazione che può diventare l’a
priori della ricostruzione e del riorientamento dell’apparato
produttivo..Liberare l’immaginazione in modo che possano esserle concessi tutti
i suoi mezzi di espressione presuppone la repressione di molte cose che ora son
libere e perpetuano una società repressiva” (H. Marcuse - “L’uomo a una dimensione”). L’immaginazione,
intesa come libertà romantica, è stata messa al servizio della ragione, come
produzione economica, come regola organizzativa. In questo senso essa potenzia
a dismisura la capacità repressiva dell’apparato produttivo e organizzativo,
potenza la razionalità. In effetti, questo è proprio quello che ha teorizzato
il Novecento, dopo aver superato i trionfalismi della ragione e della scienza
tipici, rispettivamente, dell’Illuminismo e del Positivismo. E’ chiaro che, per
la liberazione, l’immaginazione deve tornare nel suo ambito naturale, che è
quello romantico del libero individuo e della solare natura. Ma allora, a maggior
ragione, l’unica strada da percorrere è quella romantica e delle sue
ribellioni. Il panteismo romantico non sopporta teocrazie, ma questo sembra che
i cervelli incancreniti nell’Illuminismo non lo capiscano. Per questo la Scuola
di Francoforte cerca vie di liberazione senza vedere l’uscita. Suo merito è la
denuncia del totalitarismo che si cela nella razionalità forte della scienza e
della tecnica. Ma si usciva appena dalla Seconda guerra mondiale e dagli orrori
provocati dai totalitarismi, c’era molta più sensibilità verso il problema
rispetto a oggi. Oggi si gioca con gli strumenti tecnologici allo stesso modo
in cui lo farebbe un bambino deficiente. Che il connubio
razionalità-immaginazione sia pericolosissimo è fuori di dubbio, rende la
razionalità meno statica e meno prevedibile e quindi costringe ad uno stress da
inseguimento bestiale. L’innovazione tecnologica continua, che ci assedia da
ogni parte, è frutto, appunto, dell’immaginazione messa al servizio della
ragione. Per cui oggi “liberare l’immaginazione” può significare soltanto
“liberare l’immaginazione dalla ragione e dalla tecnica”.
Dice Marcuse: “Oggi, l’opposizione alla pianificazione dal centro in nome di una
democrazia liberale che è negata nella realtà serve da sostegno ideologico per
interessi repressivi. La possibilità di realizzare un’autentica
autodeterminazione degli individui dipende da un effettivo controllo sociale
sulla produzione e distribuzione delle cose necessarie..Su questo punto la razionalità
tecnologica, spogliata delle sue caratteristiche sfruttatrici, è il solo
criterio e guida valido per pianificare e sviluppare le risorse da porre a
disposizione di tutti. L’autodeterminazione nella produzione e distribuzione
dei beni e dei servizi vitali sarebbe rovinosa..L’autodeterminazione sarà reale
nella misura in cui le masse si saranno dissolte in individui liberi” (H. Marcuse - “L’uomo a una dimensione”).
Il passo, estremamente confuso, sembra dire che la democrazia liberale esprime,
mediante il suo apparato amministrativo e tecnologico, intenti repressivi,
mentre un controllo dal “centro” (il solito “centralismo democratico” delle
dittature di sinistra?) sulla produzione e distribuzione pone le risorse a
disposizione di tutti e determinerebbe una vera autodeterminazione degli
individui. Se si partisse dall’autodeterminazione, questa sarebbe rovinosa,
perché, per essere reale, gli individui dovrebbero superare la condizione di “massa” per diventare, appunto, “individui liberi”. Ma per poter diventare
“individui liberi” gli individui
devono diventare “un Soggetto storico
essenzialmente nuovo”, giacché, se i lavoratori restano quello che sono nel
capitalismo, anche il socialismo fallirà: “dove
queste classi <lavoratrici>
sono diventate un sostegno del modo di vivere stabilito, la loro ascesa al
controllo prolungherebbe tal modo di vivere in un quadro diverso <comunista>” (H.
Marcuse - “L’uomo a una dimensione”). Sembra un progetto marxista
spostato oltre il marxismo: stando la cultura attuale l’autodeterminazione di
individui liberi non è possibile, perché i lavoratori proseguirebbero, in altra
forma (quella politica dell’ideologia comunista), le caratteristiche repressive
della società borghese. Occorre, quindi, che l’individuo diventi "libero" ed esca
dagli schemi della massa e dei lavoratori figli del capitalismo. Se questo può
apparire giusto, viene da chiedersi, allora, perché contrapporre la
centralizzazione produttiva e la democrazia liberale, sono entrambe
“repressive” là dove non è nato il nuovo individuo libero. Sarebbe un
centralismo democratico che si appoggia ai politici e allo Stato oppure sarebbe
la visione dello Spirito santo. L’individuo libero esclude tanto la democrazia
liberale quanto il centralismo produttivo, anzi esclude perfino la storia,
perché ogni individuo avrebbe una storia a sé e non esisterebbe più una storia
ufficiale dei politici e dei potenti. C’è una sorta di nostalgia dell’individuo
libero, ma non lo si vede nella tradizione romantica e anarchica, perché è
confuso all’interno di schemi olistici illuministici che sperano di salvare la
modernità e il benessere prodotto dall’apparato tecnologico. Dimenticando che
quest’ultimo è repressivo per la natura e anche per il suo gestore, cioè
l’uomo. Oggi non si può essere più moderni e rivoluzionari assieme, cioè volere
la civiltà e la non repressione assieme, significa volere la botte piena e la
moglie ubriaca. La labilità del discorso diventa imbarazzante là dove è Marcuse
stesso ad ammettere che la conquista tecnologica della natura va di pari passo
con la riduzione della libertà dell’uomo: “con
l’avanzare della conquista tecnologica della natura aumenta la conquista
dell’uomo da parte dell’uomo; e tale conquista riduce la libertà, che è un a
priori necessario della liberazione” (H.
Marcuse - “L’uomo a una dimensione”). Ma, se le cose stanno così, il
problema è la modernità tecnologica, non la distinzione tra assetto liberale e
socialista. Se non si riduce il potere di dominio dell’uomo sulla natura, non
si riduce nemmeno il potere di dominio dell’uomo sull’uomo, che si tratti di
democrazia liberale o di centralismo sul controllo della produzione non cambia
nulla. Né si vede come possa esistere una “razionalità
tecnologica, spogliata delle sue caratteristiche sfruttatrici” là dove è
assodato che la “conquista tecnologica
della natura aumenta la conquista dell’uomo da parte dell’uomo”. Qui c’è
qualche incongruenza. Solo il superamento della “razionalità tecnologica”, dunque della “conquista tecnologica della natura”, può portare al superamento
della “conquista dell’uomo da parte
dell’uomo”. Una prospettiva illuministica rimane qui sempre “strabica”,
vede la compatibilità di tecnologia e non repressione, solo perché ora la
tecnologia è a priori cattiva (capitalismo?) e ora è a priori buona (socialismo
fatto dall’uomo nuovo?). Ma le cose non stanno nei termini del buono o cattivo,
la tecnologia produce dominio comunque e, non solo può essere diretta sia sulla
natura che sull’uomo (come la storia dimostra), ma comprime la libertà dell’uomo
anche come gestore stesso della tecnologia, perché induce ad appiattire i modi
di pensare e i comportamenti per adattarli allo strumento tecnico che è
diventato necessario per comunicare con gli altri o dominare qualcosa. Non
esiste una società tecnologica non repressiva, questo capirono i romantici, per
questo divennero amanti delle epoche arcaiche, eroiche, allorché la vita era
segnata dal destino e non dalla voglia padronale della tecnologia.
Dice Marcuse: “Davanti all’efficienza onnipresente del sistema dato di vita <cioè
del progressista sistema di controllo organico-tecnologico>, le alternative di chi discerne tale
necessità sono sempre apparse utopistiche” (H.
Marcuse - “L’uomo a una dimensione”). In effetti il sistema
amministrato e tecnico, essendo fortemente protettivo, fino a rendere
“impotenti” le singole persone, distrugge, con la relativa facilità del suo
benessere e il terrore assoluto costituito dalla morte, ogni ipotesi di
liberazione dal sistema, rende tali ipotesi automaticamente delle “utopie”. Non
a caso il Romanticismo è stato relegato nella “letteratura”, l’anarchia
nell’utopia pura, spesso accompagnata anche da un concetto che, bene o male, è
entrato prepotentemente nella storia, cioè il concetto di “democrazia”. La
“democrazia”, in quanto eterna incompiuta, è relegata nell’utopia quanto
l’anarchia. Certo, fino a quando porremo davanti a noi solo il benessere, la
paura della morte, l’ansia di dominio che ne deriva e di cui l’apparato
tecnologico sembra fornirci gli strumenti, nel momento stesso in cui ci rende
più innocui ed inermi, non faremo altro che andare avanti nel dominio
psicologico dell’ideologia moderna che bolla come “utopia” tutto quello che non
ha le radici nella ragione strumentale dell’Illuminismo. Eppure, come
dimostrano i terremoti e le altre catastrofi naturali, bastano pochi minuti per
far saltare tutto. Dunque non è che “non si può”, la verità è che “non si
vuole”, perché la volontà dell’opinione pubblica è “drogata” dal “medium”
razionale, che fornisce l’impressione illusoria di dominare tutto. La
divulgazione scientifica ha fatto più danni dei monaci predicatori. La
repressione stessa è vista come strumento di salvezza.
Dice Marcuse: “Ma se il carattere astratto del rifiuto è il risultato della
reificazione totale, allora il terreno concreto per il rifiuto deve ancora
esistere, poiché la reificazione è un’illusione. Allo stesso proposito,
l’unificazione degli opposti nel mezzo della razionalità tecnologica deve
essere, con tutta la sua realtà, una unificazione illusoria, che non elimina né
la contraddizione tra la produttività crescente ed il suo uso repressivo, né il
bisogno vitale di risolvere la contraddizione..Le tendenze totalitarie della
società unidimensionale rendono inefficaci le vie ed i mezzi tradizionali di protesta;
forse perfino pericolosi, perché mantengono l’illusione della sovranità
popolare..Tuttavia, al di sotto della base popolare conservatrice vi è il
sostrato dei reietti..La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e
quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del
gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato” (H. Marcuse - “L’uomo a una dimensione”). Non si tratta di far
rivivere “opposti”, la dialettica è essa stessa un gioco che porta alla
“reificazione”, perché il lato oggettivo non è svincolato ed è fortemente
assorbito nell’apparato razionale, nella dialettica “il reale è razionale”. Per
mostrare che la “reificazione” è un’illusione, bisogna togliere dalla realtà il
trucco, cioè il gioco razionale e questo non può farlo la ragione. La ragione
critica può, al massimo, far entrare in contraddizione la “ragione
strumentale”, ma di più non fa: se non si riconosce un’altra guida che si
oppone alla ragione strumentale, quest’ultima, prima o poi, ritorna più forte
di prima. Questa guida, diceva Nietzsche, è il “Sé”, il “corpo”, il quale, al
contrario dei deliri psicologici dell’Es, getta la persona immediatamente nella
realtà naturale (non sapendo neppure leggere i messaggi sociali, se non
capitasse che la mente, acculturata, intervenisse), come un bambino appena
nato, pilotato soltanto dai suoi naturali e primordiali sentimenti e istinti.
Questa è la guida da ritrovare e per ritrovarla bisogna saper estraniarsi dai
modelli sociali. La natura è il vero luogo del “reietto” che Marcuse cerca per colpire il sistema dal di fuori. Ma questa
figura nell’Ottocento è sempre esistita: è il poeta estraneo alla società, è
l’anarchico individualista che vuole solo rapporti personali, è il superuomo
nicciano amante del destino. Sembra che questi marxisti revisionisti nel
passato sappiano vedere solo l’Illuminismo. Il poeta di Baudelaire non è forse
un oppositore che colpisce “dal di fuori” il sistema sociale? E’ letteratura?
Volete un metodo scientifico per colpire dal di fuori un sistema scientifico?
E’ il vecchio pregiudizio marxista del “socialismo scientifico” che viene
fuori? Insomma si vuole spegnere un fuoco gettandoci sopra della benzina. Il
sistema unidimensionale creato dalla ragione, dalla scienza e dalla tecnica, si
supera solo superando la ragione, la scienza e la tecnica, ma, se seguitate a
chiamare letteratura o utopia, tutto quello che supera la ragione, la scienza e
la tecnica non se ne esce fuori. Il poeta romantico è un primo esempio di
individuo che “colpisce il sistema dal di
fuori”: “Spesso, per divertirsi,
l’equipaggio/ cattura degli albatri, grandi uccelli dei mari/../ Non appena li
lasciano liberi sulle plance <la nave simboleggia la società>,/ questi re dell’azzurro, maldestri e
sconcertati/ trascinano con pena le loro grandi ali bianche/ sul ponte, come
remi abbandonati./ Questo signor dei venti, come si mostra inabile!/ Poco fa
così bello, quant’è mai brutto e comico!/.../ Così il poeta,../ ../ l’esiliato
quaggiù, tra gii scherni del volgo/ l’ali sue da gigante gli fanno goffo il
passo” (C. Baudelaire - “I fiori del
male” - “L’albatro”). Ma il poeta romantico è fuori del sistema anche
quando scrive in prosa: “La libertà
individuale, ciò è la dignità. Gli spiriti comuni non hanno mai compreso e non
comprenderanno mai questo” (A. de Vigny
- “Diario di un poeta” 1847). Il Romanticismo non è solo il luogo dei
cimiteri, tanto meno è il luogo delle chiese, il suo panteismo è sensuale e
posto “al di fuori” del sistema sociale, come ben intravide il tardo romantico
tedesco Heine: “il sensualismo..può
affermarsi anche come risultato del panteismo - e allora è un fenomeno bello,
splendido” (H. Heine - “Per la storia
della religione e della filosofia in Germania”). Proprio da qui partì
l’istanza dionisiaca di Nietzsche, ma sempre da questo risvolto estetico,
materiale e individuale, partì l’anarchismo, l’unico autentico senza riserve
illuministe (cioè socialiste o capitaliste), vale a dire
l’anarco-individualismo: “l’individualità
propria non ha alcuna unità di misura estranea, poiché non è affatto
un’idea..L’uomo reale è soltanto l’uomo inumano <cioè individuo ‘unico”
e non riducibile all’astrazione razionale detta specie>” (M.
Stirner - “L’Unico e la sua proprietà”). Dunque la Scuola di
Francoforte (nonostante i suoi meriti critici), come l’intera società moderna,
è superata già in partenza, dalla tradizione romantica, anarchica e
arcaicizzante dell’Ottocento: Romanticismo, Leopardi, Stirner, Nietzsche. Il
Novecento sarebbe meglio non nominarlo.
Novembre 2015 (C. De Cristofaro)
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