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martedì 10 maggio 2016

L’INDIVIDUO E’ UN ESSERE LOCALE O INTERNAZIONALE?


    L’individuo è un’entità fisica limitata, non è Dio che sta in ogni luogo, sta sempre in un luogo qui ed ora (hic et nunc). In codesto qui ed ora l’individuo si trova con la sua diversità personale. Che senso ha, allora, parlare della globalizzazione e della mondializzazione rispetto all’individuo? Certo l’individuo, con i mezzi di trasporto moderni, può anche viaggiare, ma, se non è un miliardario che ha ville e risorse in ogni paese che visita, comunque deve le sue risorse economiche a una qualche “comunità locale” che gliele garantisce. Veramente “indifferenti” alle comunità locali possono essere solo quei proprietari di mezzi economici (finanziari o industriali) che sono presenti o sono validi in tutti i paesi, cioè un’élite di sfruttatori. E’ chiaro, quindi, che per natura, sebbene cammini e possa camminare per alcuni chilometri, l’individuo è un essere “locale”. Con i mezzi di trasporto moderni si può certo spostare, ma, anche quando va a lavorare all’estero - da privilegiato emigrante o da migrante pezzente -, alla fine ha la casa e il lavoro, nonché alcune delle persone care, nel “luogo” dove è andato a vivere. Come emigrante i suoi affetti, i suoi interessi, la sua cultura si sdoppiano, perché porta con sé il segno di doppie culture e di affetti che, talvolta, non stanno nello stesso “luogo”. Ecco che allora l’individuo, magari alle feste comandate, ritorna nel “luogo” di origine e quindi vive uno sdoppiamento di affetti, interessi e cultura che fa capo a uno sdoppiamento di “luoghi”. Se non fosse una contraddizione, si potrebbe dire che, più che internazionale, un tale individuo è “doppiamente locale”. Ovviamente, con ciò, vive tutta la doppiezza della situazione e spesso incrocia i giudizi e i pregiudizi di “doppie culture” che entrano in contrasto tra di loro. Se si prescinde, però, da questi ritorni periodici nel “luogo” di nascita, in sostanza, sia pure, come si dice, all’estero, anche l’emigrante resta a vivere per tutto il resto dell’anno nel “luogo” dove si è trasferito. E’, comunque, un essere “locale”. La maggior parte della popolazione mondiale, però, per sua fortuna o sfortuna qui non interessa stabilirlo, rimane nel suo paese d’origine ed è proprio per questo che è possibile l’esistenza di comunità locali dove gli stessi emigranti si recano a vivere. L’internazionalità, fasulla, dell’emigrante presuppone, quindi, proprio l’esistenza della “comunità locale” dove recarsi a vivere. Ne consegue, perciò, che emigrante o meno che sia l’individuo vive, in maniera sdoppiata e incoerente l’emigrante, in maniera coerente il non emigrante, sempre in modo “locale”. E allora cos’è questa globalizzazione e questa mentalità distorta di tipo internazionale? E’, in realtà, l’interesse di poteri economici e religiosi forti, cioè di borghesi e preti. Si fa credere che esista per tutti una specie di area universale e umanitaria comune in cui tutti sono genericamente umani. In realtà, a seconda dei casi, nelle religioni si immagina che tutti siano, a forza o meno, convertiti al cristianesimo, all’islamismo, ecc., nel mercato globale, invece, si immagina che tutti gli individui siano genericamente solo dei venditori o dei compratori, cioè dei semplici operatori di mercato. In altri termini le élite di sfruttatori, religiosi, politici ed economici vivono dell’indifferenziato, cioè dell’indifferenza rispetto a individui e popoli, secondo il principio degenerato che il cristianesimo mostrò fin dalle sue origini, come dimostra la seguente affermazione di un anonimo cristiano del II secolo dopo Cristo: “I cristiani..adempiono a tutti i loro doveri di cittadini..con interiore distacco. Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è terra straniera” (Anonimo cristiano - “Lettera a Diogneto”). Questo principio di “indifferenza” tra individui e popoli è il segno distintivo dell’universalismo cristiano, ma è stato adottato anche dall’umanitarismo politico della sinistra e dall’economicismo del mercato globale borghese. Quando uno si sente “internazionale”, nella realtà, si sente “indifferente”, anche se non lo ammette. Non meraviglia che nelle città moderne regni l’indifferenza della “solitudine in compagnia”, è una conseguenza stessa del fatto che ognuno si sente indifferente nel momento in cui avverte come “estraneo” ogni aspetto “locale”. Il cristiano, il borghese, il comunista sono stranieri in patria. Questo non significa che la comunità locale debba prevaricare l’individuo singolo, ma quest’ultimo non può sentirsi indifferente per abito alla comunità locale. Gli individui, nella misura in cui sono diversi, non sono riducibili né alla comunità locale e nemmeno allo spirito universale delle religioni e del mercato internazionale, gli individui sono diversi e sono sempre “locali”, cioè stanno sempre in un “luogo”. Stando in un “luogo”, non possono non riferirsi alla “comunità locale” in cui vivono, comunità locale che, proprio perché si trova in “luoghi” diversi ed è composta da persone diverse, non può che essere diversa da tutte le altre comunità locali. Ma se, quindi, l’individuo è nel “luogo” dove si trova la sua persona fisica e perciò è a diretto contatto con la “comunità locale”, cos’è mai questo presunto carattere “internazionale” e “indifferenziato” di cui si farnetica? E’ una mistificazione di un èlite culturale (religiosa o politica) o economica che vive alle spalle degli schiavi, cioè delle comunità e individui “locali”. Questo significa che l’individuo deve, prima di tutto, fare gli interessi propri di sé come individuo singolo, poi deve fare gli interessi della “comunità locale” in cui vive, perché sono, almeno in parte, anche i suoi interessi. L’unico interesse che per l’individuo non esiste, a meno che non sia uno sfruttatore del prossimo in veste religiosa, politica o economica (umanitarismo, mercato globale, internazionalismo), è quello generale. Rivestirsi di un interesse globale è o ipocrisia da sfruttatore o demagogia.


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