Cerca nel blog

martedì 26 aprile 2016


TERRA

    I versi che seguono hanno un fondamento filosofico-esistenziale in una persona che, come me, rifiuta la civiltà moderna, industriale, commerciale, scientifica e tecnologica. Nella poesia, nel mio “ritorno alla terra”, cioè alla natura e alla vita che essa prevede, non faccio una netta distinzione tra la vita del cacciatore-raccoglitore e quella dell’agricoltore, perché entrambe, rispetto alla città e alla civiltà moderna, sarebbero un enorme passo in avanti. Tuttavia riconosco la superiorità morale della cultura di caccia e raccolta rispetto a quella agricola, perché essa consente a piante e animali di vivere pienamente liberi la loro vita fino a quando, per semplice “necessità”, l’uomo non uccide per procurarsi i prodotti della caccia e della raccolta. In altri termini, la cultura dei cacciatori-raccoglitori ha un senso della terra maggiormente etico rispetto a quello dell’agricoltore. L’agricoltore e l’allevatore si possono considerare allo stesso livello etico, nel senso che l’allevatore fa agli animali quello che l’agricoltore fa alla piante, cioè pretendono di dominare il mondo vegetale e quello animale, selezionano solo le specie che ritengono utili all’uomo e le tengono in cattività, togliendo loro la libertà naturale e selvaggia: “La scrupolosa sorveglianza sulla varietà delle piante trova il suo parallelo nell’addomesticamento degli animali, che sfida pure la selezione naturale e ristabilisce il mondo organico e controllato su un livello artificiale e degradato” (J. Zerzan - “Primitivo attuale” - Agricoltura). Tuttavia sia l’agricoltura industriale che l’allevamento industriale sono gravissime degradazioni ulteriori della stessa agricoltura e dello stesso allevamento e trattano piante e animali senza il minimo rispetto. Gli stessi prodotti che ne derivano, sia animali che vegetali, sono pieni di veleni e alla fine privi di sapore e quasi plastificati. Questo significa che si possono ottenere prodotti agricoli e da animali in modo più rispettoso. In ogni caso non voglio qui affrontare questo problema del rapporto tra mondo agricolo e mondo dei cacciatori-raccoglitori, essendo esso nella poesia secondario. La principale contrapposizione presente nella poesia è quella che Schmitt definirebbe contrapposizione tra “terra” e “mare”. Schmitt ragiona in termini di Stato e questo non è condivisibile, ma anche nelle tribù primitive e nomadi esisteva il problema della “terra”, il problema dei “territori” di caccia e raccolta. Considerando che lo sfruttamento della natura presso i popoli primitivi non era per nulla intensivo, appare ovvio che un determinato territorio non era sufficiente a sfamare due tribù, ne conseguiva che, nel “diritto alla terra”, la prima tribù occupante un territorio impediva per diritto naturale, anche con la guerra, all’altra tribù di invadere il suo territorio di caccia e raccolta. La stessa cosa avviene tra i liberi animali selvatici. Ne sorgevano spesso, quindi, delle guerre tra le tribù e questo spiega perché le guerre erano così frequenti. Ma non è che oggi le guerre non siano frequenti, non solo nei termini ufficiali (come la cronaca mondiale mostra), ma anche nei termini ufficiosi del mercato e dell’economia mondiale (perché ufficialmente ci si ritiene in pace). Infatti, all’interno della “pace” che governa l’economia mondiale, esiste una strisciante e continua guerra economica tra i popoli e tra gli individui. Una guerra, però, gestita dall’alto, da una prospettiva generale che risponde solo al tornaconto numerico e speculativo dell’economia mondiale. E’ la barbarie capitalistica del mercato globale. Ancora più mostruosa appare l’ipotesi per cui i popoli diventino degli organi integrati (divisone del lavoro tra i popoli) di un organismo mondiale chiamato “umanità”, anche perché bisognerebbe decidere quale popolo svolge il ruolo della testa e quale quello dei piedi. Presso i popoli primitivi, se si trattava di accogliere un fuoriuscito di un'altra tribù, lo si accoglieva, ma il concetto di accoglienza di interi popoli, come si vorrebbe oggi da parte della demagogia sia cristiana che della sinistra, non esisteva, perché contro natura. Questo significa che i popoli hanno un diritto alla terra in cui abitano, questo concetto sembra oggi messo in discussione da quello che Schmitt chiamava “diritto marittimo” (capitalismo, cristianesimo, comunismo). Il mare, dice Schmitt, secondo il vecchio diritto pubblico europeo era considerato “libero”, cioè, tranne una certa distanza dalla costa, non a disposizione di nessuno o a disposizione di tutti: “Il mare rimane invece al di fuori di ogni ordinamento spaziale specificatamente statale..E’ dunque libero da ogni tipo di autorità spaziale dello Stato. La terraferma viene suddivisa secondo chiare linee di confini in territori statali e spazi di dominio. Il mare non conosce altri confini che quelli delle coste. Esso rimane l’unica superficie spaziale libera per tutti gli Stati e aperta al commercio..Solo l’Inghilterra riuscì a passare da un’esistenza feudale e terranea medievale a un’esistenza puramente marittima..In pace lo si può dimenticare. Ma in guerra la libertà dei mari significa che l’intera superficie degli oceani del globo resta aperta e libera a ogni potenza belligerante” (C. Schmitt - “Il nomos della terra” III, 3). Con la fine della Seconda guerra mondiale, il concetto di “mare” e quello di “aria”, con l’eccezione dello “spazio aereo” dei vari Stati, divennero similari, tanto è vero che la potenza marittima inglese venne sostituita da quella statunitense che, per di più, vantava anche una grande potenza aerea. Gli Stati Uniti sostituirono l’Inghilterra come portatori del “diritto marittimo”. Il “diritto marittimo”, sia militare che commerciale, non può essere gestito che dal più forte e tende a superare ogni limite. Esso, quindi, si caratterizza, rispetto a quello terrestre, per la sua mancanza di limiti, per cui scavalca il diritto dei singoli Stati, delle singole comunità, dei singoli individui, con il diritto internazionale, allo stesso modo in cui il commercio scavalca l’interesse delle singole comunità (sarebbe come se le tribù primitive venissero gestite dall’alto) e allo stesso modo in cui l’internazionalismo umanitario della sinistra o l’universalismo cristiano scavalcano le singole comunità e il legittimo interesse dei singoli. Quando si cacciano gli abitanti di un paese o di un quartiere cittadino per costruire una strada, semplicemente è stato imposto il “diritto marittimo” sul “diritto alla terra”. Viene imposto l’universalismo dell’impero e dell’indifferenziato della comunicazione e del commercio: “Il declino dello jus publicum Europaeum <Stati che si limitavano reciprocamente sulla “terra”, declino evidente soprattutto dalla fine della Seconda guerra mondiale a causa del trionfo dell’’illuminismo dell’impero ‘informale’ degli Stati Uniti d’America> in un indifferenziato diritto mondiale non poteva più essere fermato. La dissoluzione nel generale-universale era contemporaneamente la distruzione dell’ordinamento globale della terra <diritto alla terra> fino a quel momento esistente..oltre, dietro e accanto ai confini politico-statali tipici di un diritto internazionale apparentemente solo interstatale, politico, si estendeva, onnipervasivo, lo spazio di un’economia libera, ovvero non statale, che era un’economia mondiale. Nell’idea di una libera economia mondiale era insito..il superamento dei confini politico-statali” (C. Schmitt - “Il nomos della terra” IV, 2). Nel “diritto marittimo” e commerciale è insito il superamento di ogni distinzione locale riguardo alle comunità e alle individualità. Individui e popoli diventano solo acquirenti e venditori di un mercato globale. Questo annientamento delle diversità locali, siano esse di comunità o individuali, è inaccettabile. Questo significa che, nel “diritto marittimo”, individui e popoli devono essere sottomessi agli interessi economici e commerciali di una casta internazionale. Tutti i benpensanti che inveiscono contro i limiti che vengono messi ai migranti, che se ne rendano conto o no, stanno al servizio non della comunità locale o del loro interesse individuale, ma al servizio dell’economia mondiale, alla quale non interessa affatto, nella sua teorica non distinzione ideologica (cristiana, comunista e commerciale allo stesso tempo), l’esistenza di popoli e individui diversi nei vari territori. Sparisce, in tal modo, il “diritto alla terra”. E’ proprio sulla realtà della diversità di individui e popoli che si basava il “diritto alla terra”, ciò anche al di là dell’esistenza degli Stati, che, da anarchico, mi auguro spariscano. Anzi, l’esistenza degli Stati garantisce un ordine e una prepotenza sul territorio senza la quale non sarebbe neppure possibile imporre il diritto internazionale e l’economia mondiale nei vari luoghi, eppure questo diritto internazionale e l’economia mondiale non riconoscono l’autorità delle comunità locali e limitate che pure sfruttano, in virtù del fatto che il “diritto marittimo” non riconosce limiti. Chi più del borghese, che investe i suoi soldi in tutte le parti del mondo, che ha case e ville sparse in mille paesi diversi, che ignora i limiti della terra, è l’incarnazione del “diritto marittimo”? Ma l’uomo di sinistra vuole un “diritto marittimo” per i deboli e si fa complice del “diritto marittimo” dei forti. La gestione del mondo dall’alto a favore dei deboli (che si difendono meglio contro autorità solo locali) è un’illusione demagogica che presuppone o il “Grande fratello” o la gestione del mondo fatta direttamente da “Dio”. La cancrena cristiana ha bruciato il cervello dell’uomo di sinistra. Meglio, in modo anarchico, far sparire gli Stati, così ogni individuo, ogni popolo, ogni piccola comunità si impossessa di nuovo della sua casa, del suo terreno e del suo territorio e imporrà ai mercanti e agli affaristi di sottostare alle leggi del territorio. Sparisce il “libero commercio”, ma sparisce anche l’impero economico mondiale e spariscono anche gli inviti contro natura dei cristiani e dei comunisti ad accogliere interi popoli. Ecco, questa poesia, vuole riaffermare il “diritto alla terra”, e con esso la “differenza” di popoli e individui, contro la civiltà industriale e commerciale moderna. Il diritto alla terra presuppone dei “limiti” e delle “differenze” (locali e individuali), se non sono quelli dei confini statali, devono essere almeno quelli dei vari territori e delle varie mura domestiche. Chi viola i territori di un popolo o le mura domestiche delle persone, sia esso un povero migrante o un arrogante affarista borghese, deve essere accolto con la guerra e non con la pace suicida di cristiani e comunisti. I versi della mia poesia, poi, contrappongono la “terra” ai “cittadini”, perché la città e l’urbanesimo in generale sono una manifestazione concreta del potere commerciale e del “diritto marittimo”, infatti avere la città come “centro” degli scambi equivale ad avere un “centro commerciale” dove convergono le merci per gli acquisti e le vendite. Con l’estendersi dell’urbanizzazione i punti commerciali si estendono sul territorio, anche grazie al moltiplicarsi delle strade, ma si è ancora ben lontani dall’aver trasformato l’intera terra in un centro commerciale, per questo motivo le città sono ancora da considerare il “centro” del commercio e della logica “marittima” della delocalizzazione. Nel Medioevo i centri non erano così estesi perché la popolazione delle città non era ancora cresciuta in maniera esponenziale, insopportabile per la “Terra”, così come è avvenuto con la società industriale. Nel Medioevo l’unico luogo centrale era il “castello”, luogo di difesa, prima di tutto, “locale”e non di pace a priori. Anche se il castello rappresenta un potere feudale, in teoria si può dire che è migliore delle città, perché, se è vero, come dicevano nel Medioevo, che “l’aria delle città rende liberi”, dato che la città libera dal potere feudale, è anche vero che la città rappresenta, non solo un nuovo potere in se stesso (città-Stato), ma soprattutto l’affermarsi del “diritto marittimo” attraverso il suo estendere all’infinito l’urbanizzazione mediante l’infinito commercio e mediante la versione sublimata dell’infinito commercio, cioè la fratellanza universale cristiana, operaia, dei poveri, ecc..


Nulla amo
di più nella vita,
di una tavola rustica
bene imbandita

e l’aria libera
del contadino
che vede crescere
la vite ed il pino,

che coglie lieto
l’uva matura
e semina i solchi
dell’aratura,

che contempla
i mille colori
della natura
coi suoi odori,

amo la vita
selvaggia del bosco,
la libertà nel rischio
io riconosco,

e poi girar gaio
lungo le valli
con cani e pecore,
mucche e cavalli,

ma tornar subito
al mio casolare,
se Lei non mi può
più accompagnare:

amore, animali,
terra, campagna,
è vita di cui
solo un pazzo si lagna.


E noi? Che siamo?
Topi cittadini,
borghesi avidi
solo di quattrini,

siamo autori
di civili leggi urbane
e siamo disumani
più d’un pescecane,

amiamo i robot
e i burattini,
guastiamo con la tecnica
i bambini

e nella tisi
donata dal progresso,
il grande amore
lo chiamiamo “eccesso”,

noi che di tutto
diciamo “è superato”,
siamo soltanto
escrementi del creato.

(11/10/1983)



mercoledì 20 aprile 2016

DOMANI

    “Domani è un altro giorno” è una frase famosa, resa ancor più popolare dal fatto di essere ripetutamente pronunciata dalla protagonista, Rossella O’Hara, del film del 1939 “Via col vento”, in particolare nel finale davanti a un tramonto. La frase può, certamente, avere un senso di stimolo alla vita dopo che essa ci ha riservato molte fatiche e molte delusioni. Nel film, però, Rossella appare un po’ egocentrica, in particolare nel fatto di voler conquistare l’amato Ashley, che aveva sposato un’altra donna. Insomma appare come una ragazza spregiudicata che insegue i suoi fini, proiettandosi nel futuro, senza troppi scrupoli. I versi che seguono intendono contestare proprio questo cinismo finalistico e proiettivo nel futuro. Anche se presa nel suo lato migliore la frase indica comunque un proiettarsi nel “futuro”. Ancora oggi non si fa altro che parlare di “futuro”, sembra che non esista altro che il futuro, per questo poi si fa molta retorica e demagogia intorno ai giovani, argomento molto sfruttabile politicamente. I giovani, naturalmente, troveranno la loro strada, non è necessario che la politica ne faccia un cavallo di battaglia, perché ciò equivale a sfruttare un normale cambio generazionale in modo demagogico. Il fatto è che il “futuro” è la “parola d’ordine” del “progressista” e quando scrivo “ordine” voglio proprio intendere il dogma che deve essere imposto e a cui tutti devono sottomettersi come ad un regime totalitario mentale e sociale. La parola “futuro” viene sfruttata dal commercio per vendere i prodotti e le tecnologie “del futuro”, come se bastasse aggiungere la parola “futuro” per far diventare obbligatori, o come minimo alla moda, i prodotti, le tendenze sociali, i comportamenti. Lo stesso successo delle nuove generazioni non può essere obbligatorio, perché ogni generazione deve avere solo quanto spetta ai suoi meriti. La parola “futuro” nella cultura progressista ha un barbaro valore “normativo”, detta legge, non rispetta la libertà, l’individuo non appare più libero di muoversi verso le scelte che sente sue, sia che appartengano al passato, sia che appartengano al futuro, sia che se ne freghino di tutto ciò. Questa corsa folle verso il “futuro”, che appiattisce il presente a semplice passaggio, mentre è l’unico tempo della realtà e della vita, sottopone gli individui ad uno stress continuo da “cambiamento” e "innovazione", perché il “futuro” equivale ad andare “oltre” in perpetuo, a dover raggiungere sempre una “méta”, senza un presente in cui riposare, come, a ragione, rimproverava Jonas a Heidegger (ma il problema non era solo di Heidegger, è qualcosa che ha le sue radici nelle basi illuministiche e progressiste della civiltà moderna): “se cerchiamo di sistemare..le categorie di esistenza di Heidegger..facciamo una scoperta sorprendente..la colonna sotto il termine ‘presente’ rimane quasi vuota..non c’è presente in cui riposare, soltanto la crisi tra passato e futuro” (H. Jonas - “La religione gnostica”). Chi parla continuamente di “futuro” non vede altro che questo passare dal passato al futuro, il progressista fa del passato un disvalore morale, mentre fa del futuro un valore morale. Questa ciarlataneria progressista deve finire. Essa non tiene minimamente conto della vecchiaia e della morte. Parlare di “futuro” ad un vecchio ad un certo punto diventa una vera e propria mancanza di rispetto. Il vecchio ha nei ricordi, spesso, i veri sostegni della sua stessa vita attuale, mentre il superficiale “andare sempre avanti”, verso il futuro, a volte indica una vuotezza d’animo sconcertante. Il vecchio, se solo ha una minimo di consapevolezza della sua condizione fisica, sa di non avere futuro e non è bello parlare ad una persona continuamente di quello che non può avere. Sarebbe come mettere una torta sotto il naso di chi muore di fame, sapendo di non potergliela dare. Questi concetti, che mi hanno portato fino a sentire la nausea verso il progressismo, mi erano chiari fin dal 1984, cioè a trentasei anni. A scuola ho anche cercato di farli comprendere con la sensibilità romantica che manca del tutto al progressista. La piccola poesiola era, appunto, una prima protesta: non parlate di “futuro” agli anziani e non imponetelo, perché imporre il “futuro” agli anziani significa escluderli dalla vita sociale. Sembra anzi che l’unica preoccupazione che il progressista ha verso gli anziani è che muoiano presto, così che il futuro, le nuove generazioni, possano trionfare. Forse è giunto il momento di creare un movimento anziani anti-progressista.


Domani è un altro giorno,
per te che vivi ancora,
non hai la morte intorno
e sarà tua l’aurora,

ma noi che siam vicini
a quella sepoltura
dove la vita stessa
di vivere ha paura,

col palmo della mano
nell’ultima dimora
noi cercheremo invano
                           la luce di un’aurora.                           



(15/11/1984)

mercoledì 13 aprile 2016

CIVILTA’ MODERNA

    Per chi, come me, ha fatto del sentimento una “filosofia sentimentale”, dato che il sentimento è una discriminazione affettiva, distingue un figlio, un padre, un’innammorata, un innamorato, ecc., esso, in modo inevitabile, si scontra con l’egualitarismo e l’universalismo allo stesso modo in cui il Romanticismo si scontrò con l’Illuminismo. Il sentimento, dunque, ha, di necessità, una radice aristocratica, ognuno si circonda di quelli che, per lui, sono i migliori, anche se questo non avviene per una scelta razionale, ma per circostanze che generano affettività. Il sentimento è figlio del caso, per fortuna, non della scienza. Il sentimento può esistere solo in questa discriminazione aristocratica, quando si pretende di amare tutti (cristianesimo) o di essere solidali con tutti (sinistra), è proprio il sentimento che si cancella. Chi ama tutti, non ama nessuno. Il fatto, quindi, che il sentimento nasca e seguiti a sussistere solo nella “discriminazione” è cosa che l’astrattezza razionale della moderna coscienza non riesce proprio a comprendere. Il sentimento, ovviamente, si estende con maggiore o minore profondità ad ambienti e popoli, non è indifferente ad ambienti e popoli, quindi discrimina anche ambienti e popoli. E’ nella natura individuale del sentimento, che vive sempre nell’hic et nunc. Il sentimento non comprende lo spirito universale, perché questo spirito universale è astratto: non distingue nulla e non discriminando un padre o una moglie da un estraneo, un ambiente caro da un ambiente che è estraneo, un popolo al quale, in qualche misura (mai del tutto, perché l’individuo viene prima dei popoli), si è legati da popoli estranei e perfino culturalmente ritenuti spregevoli, tutta questa indistinzione, si diceva, distrugge il sentimento e la sua realtà affettiva che si estende negli spazi concentrici dell’hic et nunc in cui l’individuo vive. La discriminazione personale, di ambiente, di popolo che il sentimento genera nell’hic et nunc ovunque, si rafforza discriminando, fino a farsi aristocratico: “il piacere aristocratico di dispiacere” (C. Baudelaire - “Razzi” XII). Se si vuole piacere a tutti, non si ama nessuno e non si riconosce l’affetto che persone specifiche hanno per noi. Ovviamente questa discriminazione aristocratica non può avere la pretesa di essere “assoluta”, deve essere cosciente di dover convivere con i sentimenti altrui e con le discriminazioni aristocratiche altrui. Ma cosa rende “assoluta” una discriminazione aristocratica? La ragione con il suo universalismo ed egualitarismo, è l’Illuminismo che rese assoluto il culto nazista della "aristocraticità" della razza germanica. Chi si attiene alla discriminazione aristocratica del sentimento sa che questa discriminazione si basa, come capitava nel Romanticismo, sulla diversità e quindi rifiuta l’ipotesi di un mondo tutto uguale e universale, ipotesi che porta una diversità a farsi assoluta, come fece il nazismo che voleva tutti “universalmente” e “ugualmente” tedeschi e nazisti e, nell’impossibilità, sottomessi ad essi (la sottomissione riafferma l’universalismo di una discriminazione). La ragione, non il sentimento, è portatrice di quello spirito tirannico che è l’assoluto universale. L’Illuminismo distrusse un’aristocrazia sociale storica, che era una gerarchia che rendeva assoluto il valore di certe famiglie a scapito di altre, ma creò il vuoto dell’egualitarismo e dell’universalismo. Questo vuoto razionale, che affermò il principio di eguaglianza e l’universale, ignorava la diversità e il fatto che il sentimento si atteneva proprio a quella discriminazione aristocratica che è la diversità naturale. Tale discriminazione, proprio perché non è assoluta e razionale, non comporta una gerarchia e quindi una sopraffazione verso altri individui. Non è una discriminazione sociale, bensì naturale, tuttavia comporta dei rapporti preferenziali che scavalcano la società e riguardo ai quali la società dovrebbe ritirarsi in buon ordine. Si tratta di discriminazioni legittimate dalla natura. Ovviamente questo lo comprese il Romanticismo, mentre l’Illuminismo non lo comprese affatto e ancora oggi borghesi, cristiani e comunisti seguitano a non capirlo. L’Illuminismo creò un calderone generale gestito dalla politica di parte (partiti) e dai giornali, politici e giornalisti si presentarono, mistificando, come rappresentanti del nuovo sovrano, che doveva essere l’“opinione pubblica”. L’“opinione pubblica” è una metafisica politica che sposta sul piano sociale quel principio di “uniformità” che la scienza aveva calato su tutta la natura, come sovrano non è una persona, non è un individuo, in pratica “non è”. L’unica “discriminante” che l’uniformità dell’universale, dell’egualitarismo, dell’opinione pubblica riconosce è quella numerica, quella del prezzo, del mercato, della statistica, non riconosce le discriminanti personali, naturali e sentimentali. L’“opinione pubblica”, non essendo rintracciabile da nessuna parte, diviene una forma personale che viene sostituita dall’uniformità della ragione. E’ un “entimema”, cioè una semplice “considerazione mentale”, una realtà fittizia data per scontata. L’“opinione pubblica”, come sovrano, quindi non esiste oppure è rappresentato dal “luogo comune”, dal “conformismo”, dalla “tirannia della maggioranza”, dal “si” (si dice, si fa), addirittura dalla “volgarità”, come sembrano dire Nietzsche e Baudelaire a proposito della grande città e dei giornali, grande città e giornali (mezzi mediatici) che sono classica espressione dell’Illuminismo e dell’astratto egualitarismo e universalismo. Grande città e giornali rappresentano quella che io, nei miei versi, ho chiamato “civiltà moderna”, qualcosa, cioè, di assolutamente volgare, superficiale, spregevole. Scrive Baudelaire: “Non capisco come possa una mano pura toccare un giornale senza una convulsione di disgusto!” (C. Baudelaire - “Il mio cuore messo a nudo” XLIV). Scrive Nietzsche: “Sputa piuttosto sulla porta della città e torna indietro!..Qui marciscono tutti i grandi sentimenti: qui soltanto sentimentucci scheletriti possono far rumore coi loro ossicini!..Non vedi le anime penzolare come stracci sudici e stracchi? E di questi stracci fanno anche giornali!” (F. Nietzsche - “Così parlò Zarathustra” - Del passar oltre). L’amore universale cristiano, il solidarismo globale comunista, il filantropismo illuminista, la civiltà moderna sono, appunto, quegli stracci con i quali fanno i giornali e tutti gli strumenti mediatici, sono il “marcire” stesso dei sentimenti.  La "civiltà moderna" è un inquinante terrificante del buon senso naturale.  Solo questo intendevo dire con i miei versi.



Civiltà moderna,
sanguinante altare,
che gl’individui immoli
e inghiotti come il mare,

meccanismo orrendo
di scienza e di paura,
uccidi il cuor nel calcolo,
tu sei la sua tortura,

tu vendi e compri tutto,
basta sol pagare,
vendi perfino l’anima,
che non sa più amare.

La dignità calpesti
nel benessere infernale,
i sentimenti soffochi,
sei superficiale,

con vanità e ricatti
corrompi ogni famiglia,
l’affetto misconosci
tra genitore e figlia,

l’amore lo macelli
nell’oceano dell’uguale,
la scienza poi lo trita
e lo vende ogni giornale,

d’insulti, di leggi,
di mostri e di catene,
con somma progressiva
ci carichi le schiene,

crei orride storture
turpi e intellettuali
e le deviazioni orribili
dei miti culturali,

ogni cuor soccombe
al feroce tuo ingranaggio,
l’anima si spegne,
diventa scarafaggio.

(9/1/1983)



lunedì 11 aprile 2016

L’INQUISIZIONE SCIENTIFICA

    Si parla, ormai da più di un secolo e mezzo, della società moderna come di una “civiltà scientifica”, oggi anche “tecnologica”, fino al punto che la realtà è diventata il punto di vista che la scienza e la tecnica hanno sulla realtà: “La scienza è ormai per noi il reale. Il suo punto di vista sul corpo che lo riproduce non come è vissuto da ciascuno di noi, ma come risulta dallo sguardo anatomico che l’ha sezionato..come si seziona qualsiasi oggetto, ci è divenuto così familiare che oggi ciascuno di noi non fa alcuna fatica a rinunciare alla propria esperienza e a svalutare il proprio punto di vista sul corpo per adottare il punto di vista della scienza e la sua definizione <falsamente> oggettiva..dove le uniche relazioni possibili sono quelle fisico-chimiche perché sono le sole che si possono esattamente calcolare. Ma quando la realtà è assorbita da quel modello di simulazione che è il discorso scientifico, la nostra vita non sarà più regolata dalla nostra esperienza, ma dai modelli che la generano, e il nostro corpo sarà costretto a vivere un’esistenza fantasma nell’organismo biologico che la scienza descrive. Ma da dove la scienza può aver ricavato la sua idea di corpo come aggregato di parti? Se è vero che non c’è proposizione scientifica che non si attenga rigorosamente all’esperienza, diciamo che l’unica esperienza da cui la scienza può aver tratto il suo concetto di corpo è l’esperienza della sua disgregazione nella morte..finché la scienza continuerà, contro ogni evidenza, a considerare il corpo come un <semplice> oggetto, come un aggregato di parti, e la società ad attenersi rigorosamente al dettato scientifico, saremo nell’impossibilità di comprendere qualcosa del corpo e della sua vita..Nostalgia del referente reale (la natura umana) da cui la scienza s’è da tempo liberata per produrre se stessa. Questo legame non è che un simulacro sotto cui si cela non la natura, ma la ragione stessa che produce la scienza. Siamo quindi in presenza di una nuova metafisica il cui grado di contraffazione per mancanza di referente reale non è inferiore a quello che caratterizzava le vecchie metafisiche della natura: semplicemente al ‘caldo’ e al ‘freddo’ di Telesio si sono sostituite quelle opposizioni binarie in cui si articola ogni metafisica del codice, compresa la metafisica del DNA, nuovo equivalente generale cui la scienza riconduce l’essenza della vita” (U. Galimberti - “Il corpo”). Già a fine Ottocento Nietzsche aveva denunciato i motivi non scientifici e neppure etici da cui nasce la scienza: “Proprio la paura delle bestie feroci fu quella che per tempo lunghissimo fu instillata nell’uomo..Questa lunga antica paura, divenuta infine raffinata, spirituale, intellettuale, oggi, mi sembra, si chiami: scienza” (F. Nietzsche - “Così parlò Zarathustra” - Della scienza), poi: “La scienza impartisce continuamente ordini, per esempio per la salute e per l’educazione: essa li motiva con le conseguenze nocive della disobbedienza” (F. Nietzsche - “Frammenti postumi” 1879-1881 - 3 (71)). Paura, saccenteria, ordini, obbedienza, ecco la scienza. Si tratta delle medesime componenti che stanno alla base delle religioni: tanto la religione che la scienza vorrebbero dare la “salvezza”, la “sicurezza”: questa esigenza, che mette del tutto da parte la necessità del coraggio del vivere, nasce in entrambi i casi dalla “paura” e ovviamente ciò che “protegge”, cioè religione e scienza, “comanda” anche, tende a pretendere “obbedienza”. Il carattere “repressivo” della scienza è della stessa natura di quello delle religioni. Di per sé religione e scienza sono dei mostruosi strumenti nelle mani di Stati totalitari. Religione e scienza rappresentano la struttura psicologico-sociale delle società barbare, cioè di quelle società che non rispettano la libertà individuale. Il “meccanicismo” scientifico e la metafisica che esso crea sulla testa della diversità e indipendenza individuale mi ha dato fastidio fin da quando ho cominciato a capire qualcosa e ricordo che già all’università mi ribellavo a certi ragionamenti di tipo scientifico di Kant e di Marx. Ho presentato, come voluminosa tesi di laurea nel 1977, un sistema filosofico (La filosofia dell’immediatezza sentimentale) proprio per distruggere logicamente il nesso di “causa ed effetto” che sta alla base della scienza. Penso anche di esserci riuscito, ma, ovviamente, nessuno ha letto approfonditamente il mio libro. All’epoca non conoscevo approfonditamente né Nietzsche e tanto meno il libro di Galimberti (uscito solo nel 1983), conoscevo bene solo Leopardi, che aveva tutta la mia ammirazione, ammirazione che provo ancora oggi. Ma avevo le idee chiare nei confronti della scienza e della tecnica che rappresentano il più grande pericolo attuale per la libertà delle persone, perfino più grande delle religioni. Non si può, infatti, ignorare che le religioni hanno conosciuto un profondo declino, mentre il fanatismo scientifico, tecnologico e artificiale è più forte che mai. I miei versi vogliono mostrare come la scienza si sia impadronita dei momenti fondamentali della nostra vita allo stesso modo in cui lo fece la religione: al posto del battesimo, ci sono le visite neonatali, al posto dell’estrema unzione ci sono le autopsie, al posto della nostra individualità ci sarebbe il DNA. C’è perfino chi già parla di determinare scientificamente anche i matrimoni. I fanatici più ottusi credono, addirittura, che la scienza possa sconfiggere la morte, dimostrando così di non aver capito nulla della realtà. La metafisica del DNA è talmente devastante che nei tribunali il DNA stesso viene considerato prova valida, anche in esclusiva, per condannare una persona o a morte, o all’ergastolo o a trent’anni. Siamo, palesemente, di fronte ad una barbarie poggiante su fondamenta scientifiche. Senza certificato medico non si viene assunti al lavoro, né ci si può assentare da esso. Senza il benestare della scienza medica non si può praticare alcuna attività agonistica, come se un individuo fosse un minorenne davanti allo scienziato e quindi non può assumersi in prima persona la responsabilità di quello che decide di fare o di non fare. Gli scienziati hanno la pretesa di effettuare un’educazione sessuale su base scientifica, che rappresenta, da un lato, una vera e propria castrazione sessuale, e da un altro lato una riduzione a schema uniforme di ciò che esiste e ha valore solo a livello di differenza personale, di istinto, di fantasia. Insomma, ovunque venga applicata, la scienza ignora la libertà, la diversità, l’individualità, sostituisce l’“incognita” della realtà e dell’infinita individualità con la falsità del “conosciuto” e dell’“uniforme”, come ben sosteneva Nietzsche: “Se è certo che una foglia non è mai perfettamente uguale a un’altra foglia, altrettanto certo è che il concetto di foglia si forma mediante un arbitrario lasciar cadere queste differenze individuali, mediante un dimenticare l’elemento discriminante, e suscita poi la rappresentazione che nella natura, all’infuori delle foglie, esiste un qualcosa che è ‘foglia’, quasi una forma primordiale, sul modello del quale sarebbero tessute, disegnate..tutte le foglie <pregiudizio che non si trova solo in Platone, ma, ad esempio, anche in Darwin, sia pure secondo il tempo e l’evoluzione>..Il trascurare ciò che vi è di individuale e di reale ci fornisce il concetto, allo stesso modo ci fornisce la forma, mentre la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile <qui Nietzsche è vicinissimo al modo romantico di intendere la natura e anche all’idea dell’‘Unico’ stirneriano>..Che cos’è dunque la verità <la scienza>? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente” (F. Nietzsche - “Su verità e menzogna in senso extra-morale”). La scienza riproduce, come a ragione ha scritto Galimberti, il corpo, quindi la vita, secondo il modello generale della morte e della fredda astrazione razionale. L’immagine della scienza come modello tratto dalla morte e dalle forme astratte razionali io, nell’ultima strofa, l’ho riprodotto con la visione dei marmi cimiteriali. Quanto all’educazione sessuale fatta dalla scienza è difficile immaginare qualcosa di più asessuato e castrante di un’educazione sessuale fatta scientificamente.



Se non sottostai
al potere della scienza,
di cibo e di lavoro
oggi resti senza,

e se dico che
la scienza io contesto,
sì nessun m’uccide,
ma senza pane resto.

Dice allora il medico:
“Se vuoi lavorare,
anche nel sedere
ti dobbiam guardare”:

l’attestato medico
al lavoro è una licenza,
 mancando della quale
c’è solo l’indigenza.

Il DNA è considerato
come una religione
per la quale poi
ti mettono in prigione,

lo scienziato è reo,
ha potere come il prete,
ovunque si discute
impone la sua rete,

ma egli più degli altri
ha paura della morte
e crede che la scienza
lo salvi da tal sorte,

così si fa pressante
e scientifica l’azione
religiosa non è più
ormai l’inquisizione.

Alfine in questo modo
si ripete anche la storia
che di inquisizioni
è solida memoria.

La scienza altera tutto,
perfino il sacro istinto,
annulla l’individuo
che risulta quasi estinto,

sei una persona
e ti trasforma in un concetto,
in un caso anatomico
disteso sopra un letto,

sta sempre in agguato
la visita sua medica,
come senza scrupoli
 la iena assai famelica.

La scienza vuole fare
l’educatrice anche sessuale,
come se il sesso fosse
uno schema generale,

come se fosse poi
un modello sociale
e non sempre soltanto
un amore personale,

il sesso invece è libero
perciò non va educato,
arrogante è la pretesa
che venga poi insegnato.

La scienza ignora sempre
cos’è la libertà,
dato che ignora sempre
la gran diversità,

il mondo del reale
non dà la conoscenza,
sfugge il diverso intero
alla nostra scienza,

l’educazione scientifica
è pratica mortuaria:
lapidi, marmi e forme
e poi molta statuaria.

(18/9/1982)