TERRA
I versi che seguono hanno un fondamento
filosofico-esistenziale in una persona che, come me, rifiuta la civiltà
moderna, industriale, commerciale, scientifica e tecnologica. Nella poesia, nel
mio “ritorno alla terra”, cioè alla natura e alla vita che essa prevede, non
faccio una netta distinzione tra la vita del cacciatore-raccoglitore e quella
dell’agricoltore, perché entrambe, rispetto alla città e alla civiltà moderna,
sarebbero un enorme passo in avanti. Tuttavia riconosco la superiorità morale
della cultura di caccia e raccolta rispetto a quella agricola, perché essa
consente a piante e animali di vivere pienamente liberi la loro vita fino a
quando, per semplice “necessità”, l’uomo non uccide per procurarsi i prodotti
della caccia e della raccolta. In altri termini, la cultura dei
cacciatori-raccoglitori ha un senso della terra maggiormente etico rispetto a
quello dell’agricoltore. L’agricoltore e l’allevatore si possono considerare
allo stesso livello etico, nel senso che l’allevatore fa agli animali quello
che l’agricoltore fa alla piante, cioè pretendono di dominare il mondo vegetale
e quello animale, selezionano solo le specie che ritengono utili all’uomo e le
tengono in cattività, togliendo loro la libertà naturale e selvaggia: “La scrupolosa sorveglianza sulla varietà
delle piante trova il suo parallelo nell’addomesticamento degli animali, che
sfida pure la selezione naturale e ristabilisce il mondo organico e controllato
su un livello artificiale e degradato” (J.
Zerzan - “Primitivo attuale” - Agricoltura). Tuttavia sia l’agricoltura
industriale che l’allevamento industriale sono gravissime degradazioni
ulteriori della stessa agricoltura e dello stesso allevamento e trattano piante
e animali senza il minimo rispetto. Gli stessi prodotti che ne derivano, sia
animali che vegetali, sono pieni di veleni e alla fine privi di sapore e quasi
plastificati. Questo significa che si possono ottenere prodotti agricoli e da
animali in modo più rispettoso. In ogni caso non voglio qui affrontare questo problema
del rapporto tra mondo agricolo e mondo dei cacciatori-raccoglitori, essendo
esso nella poesia secondario. La principale contrapposizione presente nella
poesia è quella che Schmitt definirebbe contrapposizione tra “terra” e “mare”.
Schmitt ragiona in termini di Stato e questo non è condivisibile, ma anche
nelle tribù primitive e nomadi esisteva il problema della “terra”, il problema
dei “territori” di caccia e raccolta. Considerando che lo sfruttamento della
natura presso i popoli primitivi non era per nulla intensivo, appare ovvio che
un determinato territorio non era sufficiente a sfamare due tribù, ne
conseguiva che, nel “diritto alla terra”, la prima tribù occupante un
territorio impediva per diritto naturale, anche con la guerra, all’altra tribù di
invadere il suo territorio di caccia e raccolta. La stessa cosa avviene tra i
liberi animali selvatici. Ne sorgevano spesso, quindi, delle guerre tra le
tribù e questo spiega perché le guerre erano così frequenti. Ma non è che oggi
le guerre non siano frequenti, non solo nei termini ufficiali (come la cronaca
mondiale mostra), ma anche nei termini ufficiosi del mercato e dell’economia
mondiale (perché ufficialmente ci si ritiene in pace). Infatti, all’interno
della “pace” che governa l’economia mondiale, esiste una strisciante e continua
guerra economica tra i popoli e tra gli individui. Una guerra, però, gestita
dall’alto, da una prospettiva generale che risponde solo al tornaconto numerico
e speculativo dell’economia mondiale. E’ la barbarie capitalistica del mercato
globale. Ancora più mostruosa appare l’ipotesi per cui i popoli diventino degli
organi integrati (divisone del lavoro tra i popoli) di un organismo mondiale
chiamato “umanità”, anche perché bisognerebbe decidere quale popolo svolge il
ruolo della testa e quale quello dei piedi. Presso i popoli primitivi, se si
trattava di accogliere un fuoriuscito di un'altra tribù, lo si accoglieva, ma
il concetto di accoglienza di interi popoli, come si vorrebbe oggi da parte
della demagogia sia cristiana che della sinistra, non esisteva, perché contro
natura. Questo significa che i popoli hanno un diritto alla terra in cui
abitano, questo concetto sembra oggi messo in discussione da quello che Schmitt
chiamava “diritto marittimo” (capitalismo, cristianesimo, comunismo). Il mare,
dice Schmitt, secondo il vecchio diritto pubblico europeo era considerato
“libero”, cioè, tranne una certa distanza dalla costa, non a disposizione di
nessuno o a disposizione di tutti: “Il
mare rimane invece al di fuori di ogni ordinamento spaziale specificatamente
statale..E’ dunque libero da ogni tipo di autorità spaziale dello Stato. La
terraferma viene suddivisa secondo chiare linee di confini in territori statali
e spazi di dominio. Il mare non conosce altri confini che quelli delle coste.
Esso rimane l’unica superficie spaziale libera per tutti gli Stati e aperta al
commercio..Solo l’Inghilterra riuscì a passare da un’esistenza feudale e
terranea medievale a un’esistenza puramente marittima..In pace lo si può
dimenticare. Ma in guerra la libertà dei mari significa che l’intera superficie
degli oceani del globo resta aperta e libera a ogni potenza belligerante” (C. Schmitt - “Il nomos della terra” III,
3). Con la fine della Seconda guerra mondiale, il concetto di “mare” e
quello di “aria”, con l’eccezione dello “spazio aereo” dei vari Stati,
divennero similari, tanto è vero che la potenza marittima inglese venne
sostituita da quella statunitense che, per di più, vantava anche una grande
potenza aerea. Gli Stati Uniti sostituirono l’Inghilterra come portatori del
“diritto marittimo”. Il “diritto marittimo”, sia militare che commerciale, non
può essere gestito che dal più forte e tende a superare ogni limite. Esso,
quindi, si caratterizza, rispetto a quello terrestre, per la sua mancanza di
limiti, per cui scavalca il diritto dei singoli Stati, delle singole comunità,
dei singoli individui, con il diritto internazionale, allo stesso modo in cui
il commercio scavalca l’interesse delle singole comunità (sarebbe come se le
tribù primitive venissero gestite dall’alto) e allo stesso modo in cui
l’internazionalismo umanitario della sinistra o l’universalismo cristiano
scavalcano le singole comunità e il legittimo interesse dei singoli. Quando si
cacciano gli abitanti di un paese o di un quartiere cittadino per costruire una
strada, semplicemente è stato imposto il “diritto marittimo” sul “diritto alla
terra”. Viene imposto l’universalismo dell’impero e dell’indifferenziato della
comunicazione e del commercio: “Il
declino dello jus publicum Europaeum <Stati che si limitavano
reciprocamente sulla “terra”, declino evidente soprattutto dalla fine della
Seconda guerra mondiale a causa del trionfo dell’’illuminismo dell’impero
‘informale’ degli Stati Uniti d’America>
in un indifferenziato diritto mondiale non poteva più essere fermato. La
dissoluzione nel generale-universale era contemporaneamente la distruzione
dell’ordinamento globale della terra <diritto alla terra> fino a quel momento esistente..oltre,
dietro e accanto ai confini politico-statali tipici di un diritto
internazionale apparentemente solo interstatale, politico, si estendeva,
onnipervasivo, lo spazio di un’economia libera, ovvero non statale, che era
un’economia mondiale. Nell’idea di una libera economia mondiale era insito..il
superamento dei confini politico-statali” (C.
Schmitt - “Il nomos della terra” IV, 2). Nel “diritto marittimo” e
commerciale è insito il superamento di ogni distinzione locale riguardo alle
comunità e alle individualità. Individui e popoli diventano solo acquirenti e
venditori di un mercato globale. Questo annientamento delle diversità locali,
siano esse di comunità o individuali, è inaccettabile. Questo significa che,
nel “diritto marittimo”, individui e popoli devono essere sottomessi agli
interessi economici e commerciali di una casta internazionale. Tutti i
benpensanti che inveiscono contro i limiti che vengono messi ai migranti, che
se ne rendano conto o no, stanno al servizio non della comunità locale o del
loro interesse individuale, ma al servizio dell’economia mondiale, alla quale
non interessa affatto, nella sua teorica non distinzione ideologica (cristiana,
comunista e commerciale allo stesso tempo), l’esistenza di popoli e individui
diversi nei vari territori. Sparisce, in tal modo, il “diritto alla terra”. E’
proprio sulla realtà della diversità di individui e popoli che si basava il
“diritto alla terra”, ciò anche al di là dell’esistenza degli Stati, che, da
anarchico, mi auguro spariscano. Anzi, l’esistenza degli Stati garantisce un
ordine e una prepotenza sul territorio senza la quale non sarebbe neppure
possibile imporre il diritto internazionale e l’economia mondiale nei vari
luoghi, eppure questo diritto internazionale e l’economia mondiale non
riconoscono l’autorità delle comunità locali e limitate che pure sfruttano, in
virtù del fatto che il “diritto marittimo” non riconosce limiti. Chi più del
borghese, che investe i suoi soldi in tutte le parti del mondo, che ha case e
ville sparse in mille paesi diversi, che ignora i limiti della terra, è l’incarnazione
del “diritto marittimo”? Ma l’uomo di sinistra vuole un “diritto marittimo” per
i deboli e si fa complice del “diritto marittimo” dei forti. La gestione del
mondo dall’alto a favore dei deboli (che si difendono meglio contro autorità
solo locali) è un’illusione demagogica che presuppone o il “Grande fratello” o
la gestione del mondo fatta direttamente da “Dio”. La cancrena cristiana ha
bruciato il cervello dell’uomo di sinistra. Meglio, in modo anarchico, far
sparire gli Stati, così ogni individuo, ogni popolo, ogni piccola comunità si
impossessa di nuovo della sua casa, del suo terreno e del suo territorio e
imporrà ai mercanti e agli affaristi di sottostare alle leggi del territorio.
Sparisce il “libero commercio”, ma sparisce anche l’impero economico mondiale e
spariscono anche gli inviti contro natura dei cristiani e dei comunisti ad
accogliere interi popoli. Ecco, questa poesia, vuole riaffermare il “diritto
alla terra”, e con esso la “differenza” di popoli e individui, contro la
civiltà industriale e commerciale moderna. Il diritto alla terra presuppone dei
“limiti” e delle “differenze” (locali e individuali), se non sono quelli dei
confini statali, devono essere almeno quelli dei vari territori e delle varie
mura domestiche. Chi viola i territori di un popolo o le mura domestiche delle
persone, sia esso un povero migrante o un arrogante affarista borghese, deve
essere accolto con la guerra e non con la pace suicida di cristiani e
comunisti. I versi della mia poesia, poi, contrappongono la “terra” ai
“cittadini”, perché la città e l’urbanesimo in generale sono una manifestazione
concreta del potere commerciale e del “diritto marittimo”, infatti avere la
città come “centro” degli scambi equivale ad avere un “centro commerciale” dove
convergono le merci per gli acquisti e le vendite. Con l’estendersi
dell’urbanizzazione i punti commerciali si estendono sul territorio, anche
grazie al moltiplicarsi delle strade, ma si è ancora ben lontani dall’aver
trasformato l’intera terra in un centro commerciale, per questo motivo le città
sono ancora da considerare il “centro” del commercio e della logica “marittima”
della delocalizzazione. Nel Medioevo i centri non erano così estesi perché la
popolazione delle città non era ancora cresciuta in maniera esponenziale,
insopportabile per la “Terra”, così come è avvenuto con la società industriale.
Nel Medioevo l’unico luogo centrale era il “castello”, luogo di difesa, prima
di tutto, “locale”e non di pace a priori. Anche se il castello rappresenta un
potere feudale, in teoria si può dire che è migliore delle città, perché, se è
vero, come dicevano nel Medioevo, che “l’aria delle città rende liberi”, dato
che la città libera dal potere feudale, è anche vero che la città rappresenta,
non solo un nuovo potere in se stesso (città-Stato), ma soprattutto
l’affermarsi del “diritto marittimo” attraverso il suo estendere all’infinito
l’urbanizzazione mediante l’infinito commercio e mediante la versione sublimata
dell’infinito commercio, cioè la fratellanza universale cristiana, operaia, dei
poveri, ecc..
Nulla
amo
di
più nella vita,
di
una tavola rustica
bene
imbandita
e
l’aria libera
del
contadino
che
vede crescere
la
vite ed il pino,
che
coglie lieto
l’uva
matura
e
semina i solchi
dell’aratura,
che
contempla
i
mille colori
della
natura
coi
suoi odori,
amo
la vita
selvaggia
del bosco,
la
libertà nel rischio
io
riconosco,
e
poi girar gaio
lungo
le valli
con
cani e pecore,
mucche
e cavalli,
ma
tornar subito
al
mio casolare,
se
Lei non mi può
più
accompagnare:
amore,
animali,
terra,
campagna,
è
vita di cui
solo
un pazzo si lagna.
E
noi? Che siamo?
Topi
cittadini,
borghesi
avidi
solo
di quattrini,
siamo
autori
di
civili leggi urbane
e
siamo disumani
più
d’un pescecane,
amiamo
i robot
e
i burattini,
guastiamo
con la tecnica
i
bambini
e
nella tisi
donata
dal progresso,
il
grande amore
lo
chiamiamo “eccesso”,
noi
che di tutto
diciamo
“è superato”,
siamo
soltanto
escrementi
del creato.
(11/10/1983)