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domenica 6 dicembre 2015

PASSI CORANICI (4°, 5°, 6° - parti già pubblicate su facebook)


4) “E fu rivelato a Mosé ‘..costruisci l’Arca davanti ai nostri occhi e secondo quanto ti abbiamo rivelato, e non mi rivolgere più parole in favore degli iniqui, poiché saranno tutti affogati’. E Noè si mise a costruire l’Arca” (X, 36-39)

Il passo conferma tre cose: la prima è che Maometto ammette la presenza di rivelazioni precedenti, che, ovviamente, saranno perfezionate dalla sua. La seconda è che l’Antico Testamento, in cui è compresa la narrazione del Diluvio universale, è il testo sacro di suo maggior gradimento e che meglio si adatta ad essere compreso da un popolo di nomadi del deserto relativamente urbanizzato, ancora paganeggiante e soprattutto provinciale. Ma l’Antico Testamento, lo abbiamo già fatto notare, ha sostanzialmente una psicologia pagano-mesopotamica e il passo conferma questa connessione. Infatti la terza cosa da notare è che il racconto del Diluvio universale è presente, non solo nell’Antico Testamento e quindi nella Bibbia, ma anche nei racconti della letteratura mesopotamica e si trova sia in versione sumerica che accadica, cioè risalente ad età più antiche (prima del 2.000 a.C) e poi in età babilonese (dopo il 2.000 a.C). In particolare il Noè più famoso è inserito all’interno del racconto delle peripezie di Gilgames (questo ispiratore del modello Ulisse e dell’Odissea) e si chiama Uta-napisti. Attraverso l’influenza ebraica e cristiana, Maometto (la stessa cosa capita anche ai cristiani) introduce ne “Il Corano” un racconto di derivazione pagana e idolatrica senza rendersene conto. Gli dei decisero di uccidere tutti gli uomini, si trattava degli dei mesopotamici Enlil, Ninurti, Ea, ecc.. Ea, però, avvisa Uta-napisti e lo invita a costruire una grande barca dove raccogliere gli animali: “Distruggi la tua casa per farti una barca;/ rinuncia alle tue ricchezze per salvarti la vita;/…/Ma imbarca con te/ esemplari di tutti gli esseri viventi” (“L’epopea di Gilgamesh” - Testo babilonese - XI, 24-28). E’ attestato storicamente, ma le religioni sembrano ignorare le origini storiche dei loro “libri sacri”, che sia in epoca sumerico-babilonese che in epoca romana-ebraica popoli nomadi si trovassero nelle zone desertiche limitrofe all’area mesopotamica e all’area palestinese, zona quest’ultima allora occupata dagli ebrei. Appare ovvio, quindi, che l’apparato letterario e religioso mesopotamico, ebraico, cristiano venisse in contatto con questi popoli e che questi popoli, culturalmente provinciali, lo abbiano assimilato solo in epoca tarda e che all’epoca di Maometto questi racconti delle civiltà più vicine erano stati assimilati al punto che Maometto, da ultimo nuovo profeta, ne da per scontata la conoscenza almeno generica. Sul carattere storico e provinciale de “Il Corano”, cioè delle sue derivazioni storiche, ovviamente i fedeli islamici non amano parlare, così come ebrei e cristiani non amano parlare delle derivazioni mesopotamiche dell’Antico Testamento. Questo atteggiamento fa parte del fanatismo ideologico delle religioni, specie di quelle basate su una “rivelazione divina”, perché mette in discussione proprio questa derivazione divina dei racconti. L’ideologia, perciò, non si arrende nemmeno di fronte all’evidenza, cioè, in questo caso, alla Storia.

5) “diranno: ‘Lo ha inventato lui!’..Chi preferisce la vita sulla terra con tutti i suoi adornamenti, sulla terra noi ripagheremo loro le azioni e non verranno, sulla terra, defraudati. Ma son quelli che nella vita dell’Oltre non avranno che fuoco, e annullate saranno le opere loro fatte nel mondo, e vanificate le loro azioni. Sarà forse simile a loro colui che si basa su una prova chiara venutagli dal Signore e che ha dietro di sé un Testimonio divino e avanti a sé il libro di Mosé..?” (XI, 13-17)

C’è qui l’ennesima conferma del fatto che Maometto ammetta delle rivelazioni precedenti. Ancora un volta l’Antico Testamento, il libro di Mosè, è l’antecedente preferito di Maometto. La cosa è chiara se si pensa, non solo all’influenza avuta dall’area palestinese sui popoli grezzi del deserto fin dall’antichità e fino all’epoca romana, ma soprattutto se si pensa che, dopo la deportazione romana degli ebrei, sicuramente alcuni ebrei andarono a vivere nelle zone desertiche, cosa testimoniata dallo stesso Maometto. Il passo, però, denota una certa insicurezza (che si potrebbe intendere come umiltà dell’ultimo arrivato) di Maometto che spiega il suo frequente ricorrere a citazioni delle precedenti rivelazioni. Per altro un atteggiamento simile era presente anche in Mani. Far proprie le rivelazioni precedenti, non solo significava non negare la realtà del fatto che tutti sapevano della loro esistenza, ma significava farne propria l’autorità. Maometto aveva bisogno di autorità presso un popolo di nomadi, di pagani, di ebrei trasferitisi, come rivela quella “excusatio non petita, accusatio manifesta”, cioè quella “scusa non richiesta”, che è un’“accusa manifesta” del fatto che Maometto aveva difficoltà a fa riconoscere la sua autorità. Ma ciò si mostra anche con l’ascetismo tollerante che Maometto mostra, allorché dice che coloro che sono attaccati alle opere terrene non verranno disturbati (se violano le regole coraniche pratiche vengono disturbati lo stesso), anche se, però, precisa che nell’al di là verranno condannati. Il fatto è che l’al di là appare una figura piuttosto debole, anche se può chiedere come sacrifici la morte. Insomma una vita quotidiana ascetica non è ben configurata, ma l’autorità di Allah può tutto. Il modello più specifico è l’Antico Testamento, in cui Jahvé è signore intollerante per principio, ma i compensi sono ancora molto spesso terreni. Ascetismo debole, dunque, non autoritarismo debole. In ogni caso le prescrizioni di Allah sono indiscutibili e in questa misura l’ascetismo è assoluto. Maometto sa che un ascetismo rigoroso non è adatto a quella cultura di nomadi del deserto, ex-pagani ed ebrei e per altro sembra qualcosa di lontano anche dalla stessa mentalità maomettana. Preoccupa l’affermazione per cui le opere dei non credenti “saranno annullate”, perché tale affermazione giustifica la distruzione delle opere storiche pagane, cose che gli integralisti islamici hanno fatto sia in Mesopotamia che a Palmira. Le religioni dette superiori (in barbarie?) non hanno senso storico e sono intolleranti anche verso la diversità storica (vedi quella pagana), la storia, per esse, rimane ingabbiata dentro l’orizzonte del libro sacro e dei suoi precedenti, tutto il resto è fango.

6) “Noè, quando Ci chiamò da prima, e Noi l’esaudimmo..E Davide ancora e Salomone..Noi facemmo comprendere il giusto giudizio a Salomone” (XXI, 76-79)

Non ci possono essere dubbi circa il fatto che la mentalità islamica sviluppa un dualismo gnostico moderato perché il suo orizzonte principale di dipendenza e di ragionamento è quello dell’Antico Testamento. Ma lo Jahvé dell’Antico Testamento diveniva più misericordioso mano mano che si avvicinava all’epoca cristiana, tuttavia non divenne mai cristiano (e i cristiani fanno una lettura allegorica, cioè falsa, dell’Antico Testamento), rimase sempre quel “Dio geloso” che gli gnostici rifiutarono per coerenza, ma che Maometto non rifiuta affatto, perché per un popolo la cui sopravvivenza nel deserto era sempre stata qualcosa di terribile, si prestava meglio l’idea di un Dio irascibile, ma tendenzialmente universale, cosa che avrebbe rafforzato, come avvenne, le varie tribù. Ancora oggi il mondo mussulmano è un mondo tribale inserito in un progetto religioso universale e intollerante. L’Islam, specie sunnita, è tanto pratico per quanto autoritario, non ha precisamente la vocazione ascetica radicale, tranne che nel martirio, nel fatto, cioè, che in esso si incarna la volontà di Allah. Sebbene gli islamici rifiutino l’incarnazione, Maometto, infatti, fu solo un profeta, proprio nel martirio, come capitò anche ai cristiani, si manifesta la possessione divina più radicale e ormai del tutto ascetica.

7) “E così coi malvagi noi operiamo. Esseri che, quando si diceva loro: ‘Non v’è altro dio che Allah’ s’ergevano superbi e dicevano ‘Dovremo abbandonare gli iddii nostri, per un poeta pazzo?’” (XXXVII, 34-36)

Il passo mostra le difficoltà che ebbe Maometto per far riconoscere la sua autorità, ma mostra anche che Maometto si trovava di fronte a dei pagani. Mostra anche che Maometto usò la diffusione dell’Antico Testamento presso i popoli arabi, ma, ovviamente, incorniciato in una struttura teorica universalizzante che derivava sia dal cristianesimo e sia dalla presenza dei vari Imperi, da quello romano a quello bizantino ecc. Non bisogna dimenticare che Maometto vive tra il 571 e il 632 dopo Cristo, quindi proprio ai margini, sia spaziali che temporali, della diffusione del cristianesimo e della presenza degli imperi. Il Corano è un prodotto storico ritardato delle civiltà dell’epoca, ritardato perché il popolo che l’ha prodotto era un popolo provinciale, molto vicino all’area culturale ebraica e mesopotamica. E’, quindi, chiaro che in esso convergono spunti di varia tendenza, ma quella ebraico-mesopotamica è certamente la più forte.

8) “E se questo Libro venisse davvero d’appresso Allah e voi gli negaste fede e qualcuno dei figli d’Israele testimoniasse della sua identità con le altre scritture..? (XLVI, 10)

Il passo conferma sia le difficoltà che Maometto incontrò nell’affermare la sua autorità e sia la dipendenza, in particolare, dalla cultura ebraica, al punto che qui si suppone che faccia riferimento ad un particolare ebreo, tale Abd Allah ibn Salam, che si sarebbe convertito all’Islam. La cultura ebraica vetero-testamentaria, però, occorre ricordarlo, rimanda ad una psicologia autoritaria mesopotamica, la quale, quindi, sopravvive sia nel cristianesimo, dove è in conflitto con la psicologia gnostica neo-testamentaria, che nell’islamismo, nel quale, data la moderazione ascetica, la psicologia autoritaria mesopotamica incontra meno ostacoli teorici. Nella pratica l’autoritarismo sussiste sia nel cristianesimo che nell’islamismo (nel protestantesimo, però, l’autoritarismo si fa gnostico, cioè spirituale e abbandona, perciò, il mondo terreno, identificandosi con Dio, anche se poi ogni credente finisce per avere un poliziotto all’interno della sua anima; l’islamismo ha ancora bisogno di una figura terrena, ma il suo gnosticismo gli impedisce di avere una figura unica, sarebbe idolatria, così ogni credente può essere “iman” purché gli venga riconosciuta un’autorità, per cui il tratto gnostico, nell’islamismo, è anti-idolatrico, quindi anti-cattolico, ma non è protestantesimo, perché il fatto che ognuno sia fedele riconosce, di volta in volta, una distinzione in persone particolari in base ad un principio di autorità non vincolato ad una precisa gerarchia).

9) “Ti faremo declamare il Corano e tu non lo dimenticherai..Ammonisci dunque, ché utile sarà il Mònito. Lo accoglierà chi teme. Lo fuggirà il malvagio, che brucerà nel fuoco immenso..Ma voi preferite la vita terrena, ma è l’altra che è più bella, più lunga. Ché queste cose son tutte scritte nelle pagine antiche, le pagine di Mosé e di Abramo” (LXXXVII, 6-19)

Il passo mostra, oltre all’orrore del far imparare le cose a memoria, ancora una volta la preferenza verso l’Antico Testamento o una sua maggiore conoscenza. Ma proprio in questa sura si manifesta un dualismo cielo-terra che è di tipo gnostico, anche se può derivare dal manicheismo o perfino dallo zoroastrismo. Tuttavia l’elemento gnostico non si diffonde per tutto “Il Corano”, anche se è presente nei momenti essenziali (ad esempio nel rifiuto dell’idea che Dio si incarni in Gesù Cristo), si fa presente, tuttavia, in modo particolare, allorché serve a rafforzare il principio di autorità che viene fissato in astratto nel Dio unico e superiore ad ogni cosa, cioè Allah. Per cui anche dove si fa presente l’elemento gnostico, esso è sempre a rimorchio di una psicologia guida che è di tipo autoritario, cioè ebraico-mesopotamica o pagano-mesopotamica.    

Digiuno (e astinenza)

1) “O voi che credete! V’è prescritto il digiuno, come fu prescritto a quelli che vennero prima di voi, nella speranza che voi possiate divenir timorati di Allah, per un numero determinato di giorni; ma chi di voi è malato o si trovi in viaggio, digiunerà in seguito per altrettanti giorni. Quanto agli abili che lo rompano, lo riscatteranno col nutrire un povero..E il mese di Ramadan..digiunate per tutto quel mese, e chi è malato o in viaggio digiuni in seguito per altrettanti giorni. Allah desidera agio per voi, non disagio, e vuole che compiate il numero dei giorni e che glorifichiate Allah..V’è permesso, nelle notti del mese del digiuno, d’accostarvi alle vostre donne: esse sono una veste per voi e voi una veste per loro. Allah sapeva che voi ingannavate voi stessi, e s’è rivolto misericorde su di voi, condonandovi quel rigore; pertanto ora giacetevi pure con loro e desiderate liberamente quel che Allah vi ha concesso, bevete e mangiate, fino a quell’ora dell’alba in cui potrete distinguere un filo bianco da un filo nero, poi compite il digiuno fino alla notte e non giacetevi con le vostre donne, ma ritiratevi in preghiera nei luoghi d’orazione” (II, 183-187)

Il tema del “digiuno” introduce un aspetto ascetico o del sacrificio. L’ascetismo, in genere, suppone un dualismo molto marcato rispetto al mondo terreno, quasi il tentativo di fare una vita del tutto spirituale a immagine e somiglianza dell’al di là e di Dio stesso. In questo senso né il digiuno islamico e nemmeno i vari digiuni popolari cristiani hanno un senso di forte ascetismo. Ciò che vuole essere popolare non può essere troppo punitivo in termini terreni. Per questo, poi, il mondo cristiano, contrariamente a quello islamico, ha finito per distinguere almeno due livelli (anche di più) spirituali dell’essere cristiano: quello popolare e quello sacerdotale. Il protestantesimo fu anch’esso un compromesso tra le esigenze naturali e popolari e quelle spirituali: essendo sacerdoti tutti i cristiani, l’accoppiamento sessuale in vista della procreazione era concessa a tutti, ma, nel contempo, al di fuori della procreazione, vi doveva essere una certa castità. Idea malata della sessualità condivisa anche dal cattolicesimo. E’ ovvio che i vincoli di castità fossero quasi ovunque disattesi. Il digiuno e la castità, limitati nel tempo o a determinate occasioni, possono apparire e sono un “ascetismo moderato”, anche se fastidioso, tuttavia sono pur sempre “ascetismo”. Quindi è chiaro che nel passo de “Il Corano” emerge il condizionamento ascetico di provenienza o neo-testamentaria o manichea. Ma è altrettanto chiaro che l’elemento ascetico è pilotato dall’elemento ebraico-mesopotamico, cioè autoritario, perché non serve ad assumere un vero abito spirituale per somigliare sempre di più all’eventuale carattere trascendente di Allah (carattere, per altro, mal definito: manca un vera “teologia negativa” ne “Il Corano”), come vorrebbe un ascetismo forte, ma serve soprattutto per ribadire l’autorità di Allah, nel segno del “timore”: “nella speranza che voi possiate divenir timorati di Allah”. L’ascetismo, quindi, cioè la componente cristiano-gnostica, è al servizio della componente ebraico-mesopotamica, cioè di un divinità sul modello di Jahvé, il cui scopo, come nella divinità ebraica, è soprattutto quello politico di ottenere una compattezza delle tribù arabiche. Se non fosse che l’universalismo cristiano e manicheo avevano già superato il livello etnico, si potrebbe pensare che Allah è la riproduzione di Jahvè come Dio etnico. Ma l’elemento etnico era ormai superato, gli arabi si erano, per secoli, confrontati con Imperi, da quello persiano a quello macedone, da quello romano a quello bizantino o dei Parti, quindi era ovvio che l’unità etnica delle tribù arabiche dovesse portare ad una forza di espansione imperiale: si giunse, infatti, non a caso, alla formazione dell’Impero arabo. Insomma l’Islam e l’imperialismo arabo furono entrambi la conseguenza dei gravi pregiudizi dei tempi. Che Allah sia simile a Jahvé lo dimostra anche il fatto che Maometto si preoccupa di chiarire che “Allah desidera agio per voi, non disagio”, il che mostra di trattarsi di un “ascetismo moderato”, quasi non ben compreso, qualcosa che somiglia fin troppo ai compensi terreni che Jahvé donava al popolo ebraico nell’Antico Testamento. In tutti i casi, sia i compensi che le punizioni, nonché il digiuno, cioè il carattere ascetico, fanno capo all’autorità di Allah e servono solo per ribadirla in continuazione. L’astinenza dal cibo e dal sesso sono dei “sacrifici” donati alla divinità presi direttamente dalla propria vita corporea, sono ascetismo, ma nel segno del “sacrificio”, cioè di uno sviluppo che deriva dallo stesso mondo pagano così disprezzato, sono da collocare nella linea pagano-mesopotamica che, attraverso gli ebrei, arriva direttamente a Maometto.

    Dal passo, inoltre, non si possono non ricavare due cattive impressioni: la prima riguarda le modalità dell’astinenza da cibo e sesso, la seconda riguarda la sessualità femminile. Partiamo dalla seconda impressione: per quanto Maometto chiarisca che le donne “sono una veste per voi e voi una veste per loro”, dando l’impressione di un’apparente parità sessuale, il passo è del tutto impostato al maschile, e se, per estensione, i divieti sul cibo si possono facilmente intendere riservati anche alle donne, non può non infastidire il fatto che sembra non riconoscersi alcuna sessualità femminile. L’astinenza sessuale è sempre “astinenza dalle donne”, mai “dagli uomini”. Che il mondo islamico abbia grosse difficoltà a riconoscere una sessualità alle donne è cosa, purtroppo, nota e negarlo è da ipocriti. La donna araba, a livello pubblico, somiglia più a una suora che ad una donna. Che a manifestare chiaramente la sessualità femminile ci sia sempre stato qualche problema in tutte le religioni è cosa altrettanto nota. Ma non più accettabile né dai cristiani e né dai mussulmani. Manifestare liberamente la sessualità, poi, non vuol dire che c’è l’equivalenza con la prostituta, i bigotti schiavizzati dalle religioni pensano facilmente conseguenze del genere. E lo pensano anche le donne molto cristiane e molto islamiche, tali, cioè, che hanno subito il lavaggio del cervello. Per quello che riguarda le modalità di astinenza dal cibo e dal sesso, occorre dire che, da un punto di vista della coerenza ascetica, le modalità sono piuttosto ipocrite. Non mangiare e non fare sesso di giorno, ma puoi farlo di notte. Come se giorno e notte fossero periodi diversi come quelli di altri pianeti. Ma Maometto sapeva bene che sacrifici del genere, specie se durano un mese, vengono facilmente disattesi, e allora l’autorità di Allah spariva del tutto, anziché rafforzarsi con le astinenze. Di qui l’espediente di ricorrere alla differenza giorno-notte, necessario affinché l’imperativo dell’astinenza potesse essere seguito dal popolo, perché Maometto sapeva benissimo che, altrimenti, i credenti avrebbero ingannato loro stessi in mille forme di ipocrisia: “Allah sapeva che voi ingannavate voi stessi”. Per evitare i comportamenti ipocriti dei fedeli di fronte a imperativi di astinenza così rigorosi, Maometto preferisce essere non rigoroso lui stesso. In tale modo, però, genera solo scomodità, non astinenza vera e propria. La scomodità serve lo stesso a ribadire l’autorità di Allah? Non è chiaro. Però appare certo che l’ipocrisia riguardo all’astinenza sembra confermata dallo stesso Corano: Maometto, per anticipare l’ipocrisia, detta un imperativo che sembra ipocrita esso stesso, un imperativo che non è un imperativo, che, piuttosto che negare il cibo e il sesso, sembra, invece, negare il “giorno”. La credulità popolare viene ingannata con piccoli e non nobili espedienti. L’ascetismo islamico è una presa in giro, è piuttosto un mezzo per ribadire l’unico vero interesse de “Il Corano”, cioè l’autorità fine a se stessa. Che tutto questo venga descritto con un linguaggio “poetico”, non toglie una virgola al contenuto inaccettabile.

Divorzio (e ripudio)

1) “A coloro che giurano di separarsi dalle loro donne è imposta un’attesa di quattro mesi. Se ritornano sul loro proposito, ebbene Allah è indulgente e perdona, e se poi saranno confermati nella loro decisione di divorziarle, Allah ascolta e conosce. Quanto alle divorziate, attendano, prima di rimaritarsi, per tre periodi mestruali. E non è loro lecito nascondere quel che Allah ha creato nel loro ventre..Ché è più giusto che i loro mariti le riprendano quando si trovano in questo stato, se vogliono riappacificarsi. Esse agiscano coi mariti come i mariti agiscono con loro, con gentilezza; tuttavia gli uomini sono un gradino più in alto, e Allah è potente e saggio. Il ripudio v’è concesso due volte: poi dovete o ritenerla con gentilezza presso di voi, o rimandarla con dolcezza; e non v’è lecito riprendervi nulla di quel che avete loro dato..se temono di non poter osservare le leggi di Allah, non sarà peccato se la moglie si riscatterà pagando..Dunque se uno ripudia per la terza volta la moglie essa non potrà più lecitamente tornare da lui se non sposa prima un altro marito; il quale a sua volta la divorzia, non sarà peccato se i due coniugi si ricongiungano, se pensano di poter osservare le leggi di Allah..E quando ripudiate le donne e siano giunte al termine fissato per il ripudio, ritenetele con gentilezza o con gentilezza rimandatele, e non trattenetele a forza iniquamente, perché chi fa ciò fa ingiustizia a se stesso. Non prendete a gabbo i segni di Allah..e temete Allah e sappiate che Allah sa tutto. E quando ripudiate le donne e siano giunte al termine fissato per il ripudio, non impedite loro di sposare i loro mariti, se s’accordano fra loro umanamente..E le madri divorziate allatteranno i loro figli per due anni pieni se il padre vuole completare l’allattamento, e il padre è obbligato a fornir loro gli alimenti e le vesti, con gentilezza; comunque nessuno può essere obbligato a fare più di quanto può..Se poi i due coniugi vorranno interrompere l’allattamento di comune accordo..non faranno alcun peccato; né farete alcun peccato se darete ad allattare i vostri figli a una nutrice..Se qualcuno di voi muore e lascia delle mogli, queste attenderanno per quattro mesi e dieci giorni..Non v’è nulla di male se farete proposte di matrimonio a queste donne, o se celerete questa intenzione nei vostri cuori..Ma..non decidete di unirvi con loro in matrimonio finché la prescrizione non sia giunta al suo termine, e sappiate che Allah conosce quel che avete in cuore, badate! Ma sappiate che Dio è pietoso e clemente. Non v’è nulla di male se ripudierete le donne prima di averle toccate o prima di aver loro fissato una dote; ma assegnate loro mezzi per vivere..E se le ripudierete prima di averle toccate, ma avete già assegnato loro una dote, una metà di questa resterà a loro, a meno che non vi rinuncino..Alle ripudiate spettano mezzi di sussistenza secondo onestà: è un dovere per i timorati di Dio” (II, 226-241)

    Si tratta del passo più lungo riguardante il divorzio che sia presente ne “Il Corano”. Vi sono, in via preliminare, quattro sensazioni fastidiose in generale. La prima consiste nel fatto che appare evidente una forsennata volontà di “regolamentare” tutto, il che serve, in ogni caso, per affermare l’autorità di un potere autoritario che viene ad essere imposto mediante l’idea astratta della divinità, cioè Allah. La sottomissione a tale idea è totale: è questo il carattere “mongolico” di cui parlava Stirner. Proprio perché la sottomissione all’idea agisce più in senso giuridico e autoritario (in questo l’islamismo è l’erede dell’ebraismo), anziché in senso ascetico, per certi aspetti l’islamismo è meno medievale dell’ascetismo cristiano del Medioevo, più vicino alla modernità, ma rimane medievale per lo spirito con il quale legifera, ignorando una laicità terrena recuperata attraverso i grandi passi che l’Occidente ha fatto: recupero della classicità, Illuminismo, Romanticismo, rivoluzione sessuale. Cose che, ovviamente, sono a rischio anche in Occidente in virtù di rinascite cristiane e anche di un eccesso di regolamentazione di derivazione politica e scientifica. Una cosa è certa: la volontà di regolamentare tutto, presente ne “Il Corano”, non è molto dissimile, nello spirito, dal diritto di famiglia del moderno Occidente. La seconda sensazione fastidiosa è che il “divorzio” si presenta ne “Il Corano” nella forma del “ripudio” della donna da parte del maschio. Ciò sembra denotare una forma di maschilismo almeno di principio, come conferma l’ottusa affermazione per cui “gli uomini sono un gradino più in alto”. Intendiamoci, ogni divorzio è un ripudio, anche se è bilaterale. Ma qui è l’unilateralità del ripudio che fornisce una sensazione fastidiosa. Va, tuttavia, notato che il ripudio islamico, così come il divorzio in Occidente, permette alla donna di “cadere in piedi” e alla fine di trovarsi spesso in condizioni migliori dell’uomo. In altri termini la donna trova forme di protezione, per molte donne rassicuranti, che potrebbe non trovare in un mondo più libero per lei. Il ripudio, infatti, comporta una serie di obblighi di mantenimento da parte dell’uomo, così come accade nella maggior parte dei divorzi nel mondo occidentale, fino al punto di uomini ridotti ad andare a mangiare alla mensa dei poveri. Ovviamente, per chi ragiona in termini di libertà, questa dichiarata superiorità dell’uomo e questa iper-protezione della donna sono altrettanto inaccettabili. La terza sensazione fastidiosa consiste nel fatto che Allah, anche quando appare clemente e misericordioso, è sempre un principio di autorità brutale. La clemenza e la misericordia, certo eredità neo-testamentaria, in fondo sono proprio le virtù di chi è ritenuto il legittimo rappresentante di un potere mostruoso. Da Babilonia all’Antico Testamento fino a “Il Corano”, ma anche nel cristianesimo, la misericordia e la clemenza sono la virtù di un potere che pretende una sottomissione assoluta. Insomma la clemenza e la misericordia sono l’aspetto benevolo della barbarie, cioè di un potere tirannico. La cultura mesopotamica, quella ebraica, quella cristiana, quella islamica sono questa barbarie. Confermato, dunque, che clemenza e misericordia non eliminano, ma confermano, il dispotismo divino di Allah, appare ovvio, di conseguenza, che non dobbiamo meravigliarci se il rapporto uomo-Allah sia basato soprattutto sul “timore”. La paura di Allah è il vero motore della religione islamica, un principio inconciliabile con tutto il processo, non ancora terminato, di liberazione dell’individuo dell’Occidente. L’eventuale islamizzazione dell’Occidente sarebbe un ritorno alla barbarie, per cui davvero non si capisce cosa si intenda per “integrazione”: si dà per scontato che gli islamici abbandonino “Il Corano”? E’ una presunzione molto pericolosa. La quarta sensazione fastidiosa è che la regolamentazione presume un comportamento scorretto sia da parte degli uomini che delle donne e anzi lascia intendere una certa violenza fisica o verbale, come rammenta lo stesso Maometto con il suo continuo ripetere “con gentilezza”. Come si vede violenza e barbarie tirannica vanno particolarmente d’accordo, l’una richiama l’altra: non c’è violenza che non porti alla necessità di un potere assoluto e tirannico, non c’è potere assoluto e tirannico che non presuma la violenza. Che le unioni e le separazioni tra uomini e donne avvengano solo sul piano della “libertà” sembra cosa sconosciuta tanto al mondo islamico quanto al mondo occidentale moderno.

    Chiarito che nell’Islam il divorzio è, prima di tutto, un ripudio della donna da parte dell’uomo, vediamo quali sono le principali “regole” che stabilisce “Il Corano” in relazione al divorzio:

1) per ottenersi il divorzio devono passare quattro mesi; il periodo sembra imposto per una meditazione, infatti, subito dopo Maometto precisa le due ipotesi, cioè o ripensamento e riappacificazione o conferma della separazione;

2) le donne prima di maritarsi di nuovo devono attendere tre cicli mestruali (tre mesi?) e non devono nascondere il figlio avuto con il precedente marito che portano in grembo; la prescrizione sembra voler tutelare da inganni il marito successivo della donna;

3) “Il Corano” sembra augurarsi una riappacificazione quando la donna attende un figlio dal marito. Insomma il figlio sembra attenuare il diritto al divorzio che viene, per altro, confermato. E’ un punto in cui l’Islam tende ad avvicinarsi al divieto di divorzio della religione cattolica. La presenza del figlio attenua i diritti dei genitori. Essere genitori è, dunque, una vita di sacrificio per il figlio? Una vita a metà? Il figlio ha diritto ad essere cresciuto, non a limitare i diritti dei genitori, questo va detto in particolare contro l’attuale atteggiamento legislativo e giudiziario dell’Occidente;

4) il ripudio o divorzio è possibile, senza complicazioni, solo per due volte e, nel caso in cui la donna lasci il marito, quest’ultimo non può riprendersi le cose e la dote che le ha donato (conferma della protezione della donna);

5) Il ripudio può avvenire anche una terza volta, ma solo a certe condizioni: queste prevedono che la donna non possa tornare indietro se non dopo aver sposato un altro uomo e aver divorziato da questo altro marito. A noi occidentali ciò sembra assurdo, giacché proprio il fatto che abbia sposato un altro uomo ci appare come impossibilità a tornare indietro e anche se è previsto il divorzio da questo secondo uomo, tutto ci appare come una complicazione barocca. Occorre ricordare, tra l’altro, che l’Islam non prevede il reato di “bigamia” ed ammette la poligamia. La cosa si spiega come una forma di iper-protezione della donna e con il fatto che a disporre il divorzio è l’uomo unilateralmente. In altri termini, se un uomo divorzia e poi riaccetta la donna, quest’ultima viene a trovarsi in una condizione di sospensione per cui non può riprendersi la dote (il gioco tra ripudio e nuova accettazione della donna può spingere quest’ultima a rinunciare alla restituzione della dote). La preoccupazione de “Il Corano” per i mezzi di sussistenza della donna è costante, visto che la donna è sempre mantenuta da un uomo (l’idea che la donna lavori per suo conto e specialmente in luoghi pubblici, è idea non islamica ed è idea inconciliabile con la cultura occidentale e con l’idea di un’autonomia economica di base della donna). Proprio per questo la legge coranica impone il dovere di sposarsi di nuovo, perché in tal modo la dote deve essere restituita comunque e poi viene tutelato il mantenimento della donna grazie al nuovo marito. E’ ovvio che, nel caso in cui la donna ritorni dal primo marito, il nuovo marito sia spesso una persona che si presta a fare da finto nuovo marito. Su questo la letteratura islamica si è spesso molto divertita. Ma, se il ritorno dal primo marito non avviene, la dote restituita diventa un bene prezioso per il sostentamento della donna e il dovere di mantenimento della donna va in carico automaticamente al nuovo marito, finto o vero che sia, visto che l’impegno è comunque preso verso Allah. Le femministe, a ragione, direbbero che in tal modo diventa palese che la donna è accolta da un uomo perché pagata con la dote e con il mantenimento, per cui la donna sposata verrebbe a trovarsi nella medesima condizione di una prostituta. Certo il mantenimento è un’offesa alla donna, ma anche un ingiusto perso per l’uomo, per questo la dote e il mantenimento sono immorali da ogni punto di vista. Ma, se una donna, per necessità contingenti, ritiene di dover fare la casalinga, non si può sostenere che venga mantenuta dal marito e quindi ricavarne che la casalinga e la prostituta si equivalgano. La donna che fa la casalinga lavora e in ogni caso si dedica a persone particolari, il che elimina di per sé l’equivalenza con la prostituzione. Fare la casalinga è un lavoro, ma non una professione, non si fa la casalinga per tutti, per questo poi non può essere riconosciuto come lavoro pubblico, cioè fatto a un pubblico di clienti o di fruitori di servizi. Equiparare casalinga e prostituta equivarrebbe a ragionare come fa l’islamico che reputa di per sé la donna come una mantenuta. Il modo in cui l’Islam intende la donna è ingiusto verso la dignità delle donne e carica gli uomini di pesi di mantenimento che non gli spettano. Spesso, poi, la donna nell’Islam, almeno quello più ricco, non fa neppure la casalinga, ma fa la “signora”, che è cosa ben diversa, anche se appare come una “signora in gabbia”, ma molte donne, se la gabbia è dorata, adorano starci.

6) La donna poi deve allattare il figlio dopo il divorzio per due anni se il padre vuole che sia completato l’allattamento. Possono, però, di comune accordo interrompere l’allattamento e allora c’è l’affido alla nutrice.

7) In caso di morte del marito le donne non potranno sposarsi prima quattro mesi e dieci giorni. E’ un periodo di lutto. La cosa inaccettabile per noi è che sia obbligatorio. La brevità del lutto si spiega per due motivi principalmente: il primo è quella protezione della donna che abbiamo già notato. Se la donna è mantenuta da un uomo, quando questo muore, la donna non ha più chi la mantiene. Il secondo motivo è che presso le popolazioni arabiche dell’epoca non c’era la sovrappopolazione, ma la scarsità delle nascite, per cui più il periodo di lutto è lungo più si restringe la possibilità di fare figli. Poi ci può essere anche un interesse personale della donna o di qualche uomo, da questo punto di vista appare chiaro che “Il Corano” è una religione autoritaria, ma pratica, non si può fare a meno di rammentare la distinzione che face Marx tra ebrei e cristiani, che vale anche per gli islamici, messi al posto degli ebrei: “Il cristiano era fin da principio l’ebreo teorizzante; l’ebreo è perciò il cristiano pratico” (K. Marx - “La questione ebraica”). Ai pratici, cioè agli ebrei e agli islamici, quindi il principio ascetico metafisico non interessa in quanto tale, cioè in quanto spostamento in una effettiva e piena vita spirituale, ma solo in quanto si presta a giustificare l’esistenza di un essere “superiore” e “onnipotente”, che possa fungere da assoluto e indiscutibile principio di “autorità”: l’al di là conta, in senso pratico, solo in quanto è, per l’al di qua, Jahvé o Allah (eredi dei dio mesopotamico Enlil), vale a dire “obbedisci e striscia come individuo”. Un principio inaccettabile.

8) Il divorzio-ripudio può avvenire anche prima di aver consumato il matrimonio, sia prima che l’uomo abbia consegnato la dote e sia dopo. Nel caso di ripudio dopo aver consegnato la dote, nella circostanza di un matrimonio non consumato, l’uomo può riavere solo una metà della dote, per il già noto principio che, anche se il matrimonio non è stato consumato, la donna conserva un qualche diritto alla dote perché “Il Corano” si preoccupa certamente della sussistenza delle donne. Questo spiega anche le molte adesioni femminili alla religione islamica, donne, evidentemente, più preoccupate della loro protezione e sussistenza che della propria dignità personale e individuale. Donne pronte al martirio giacché la protezione vi è nell’al di qua e nell’al di là, nel nome di Allah. Un nome, appunto, come disse Herder, polemizzando con il teismo di Jacobi (e l’Islam è iper-teista): “E se tu riduci questo concetto supremo, intimo, onnicomprensivo ad un puro nome, allora sei tu ateo, non Spinoza” (J. G. Herder - “Lettera a F. H. Jacobi” del 20/12/1784). Herder era panteista e riteneva il teismo basato su un puro “nome” addirittura una forma non confessata di ateismo. Da questo punto di vista gli islamici e gli ebrei sarebbero atei. Ma degli atei sottomessi ad un nome-idea astratta (Jahvé, Allah, Dio, Umanità che sia) sono comunque degli schiavi, direbbe Nietzsche.

9) L’onere del mantenimento e della tutela delle donne nell’Islam sembra vada di pari passo con l’affermazione della superiorità maschile: 1) “gli uomini sono un gradino più in alto”, 2) “è più giusto che i loro mariti le riprendano quando si trovano in questo stato <incinta>, 3) “non v’è lecito riprendervi nulla di quel che avete loro <alle mogli> dato <come dote>, 4) “il padre è obbligato a fornir loro <alle madri divorziate che allattano> gli alimenti e le vesti”, 5) “assegnate loro <alle donne da cui si è divorziato senza consumare il matrimonio> mezzi per vivere”, 6) “se le ripudierete prima di averle toccate, ma avete già assegnato loro una dote, una metà di questa resterà a loro”, 7) “Alle ripudiate spettano mezzi di sussistenza secondo onestà: è un dovere per i timorati di Dio”. Tutto questo, rispetto all’individuo, è ingiusto nei confronti sia dell’uomo che della donna. L’idea che tra uomo e donna vi sia, nell’unione, un sodalizio di autonomia, tutela e mantenimento reciproco, proprio in virtù dell’individualità completa di ognuno dei due, è ignota a “Il Corano” e forse alle religioni in generale.                      

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