4) “E
fu rivelato a Mosé ‘..costruisci l’Arca davanti ai nostri occhi e secondo
quanto ti abbiamo rivelato, e non mi rivolgere più parole in favore degli
iniqui, poiché saranno tutti affogati’. E Noè si mise a costruire l’Arca” (X, 36-39)
Il
passo conferma tre cose: la prima è che Maometto ammette la presenza di
rivelazioni precedenti, che, ovviamente, saranno perfezionate dalla sua. La
seconda è che l’Antico Testamento, in cui è compresa la narrazione del Diluvio
universale, è il testo sacro di suo maggior gradimento e che meglio si adatta
ad essere compreso da un popolo di nomadi del deserto relativamente
urbanizzato, ancora paganeggiante e soprattutto provinciale. Ma l’Antico
Testamento, lo abbiamo già fatto notare, ha sostanzialmente una psicologia
pagano-mesopotamica e il passo conferma questa connessione. Infatti la terza
cosa da notare è che il racconto del Diluvio universale è presente, non solo
nell’Antico Testamento e quindi nella Bibbia, ma anche nei racconti della
letteratura mesopotamica e si trova sia in versione sumerica che accadica, cioè
risalente ad età più antiche (prima del 2.000 a.C) e poi in età babilonese
(dopo il 2.000 a.C). In particolare il Noè più famoso è inserito all’interno
del racconto delle peripezie di Gilgames (questo ispiratore del modello Ulisse
e dell’Odissea) e si chiama Uta-napisti. Attraverso l’influenza ebraica e
cristiana, Maometto (la stessa cosa capita anche ai cristiani) introduce ne “Il
Corano” un racconto di derivazione pagana e idolatrica senza rendersene conto.
Gli dei decisero di uccidere tutti gli uomini, si trattava degli dei
mesopotamici Enlil, Ninurti, Ea, ecc.. Ea, però, avvisa Uta-napisti e lo invita
a costruire una grande barca dove raccogliere gli animali: “Distruggi la tua casa per farti una barca;/ rinuncia alle tue
ricchezze per salvarti la vita;/…/Ma imbarca con te/ esemplari di tutti gli
esseri viventi” (“L’epopea di Gilgamesh”
- Testo babilonese - XI, 24-28). E’ attestato storicamente, ma le
religioni sembrano ignorare le origini storiche dei loro “libri sacri”, che sia
in epoca sumerico-babilonese che in epoca romana-ebraica popoli nomadi si
trovassero nelle zone desertiche limitrofe all’area mesopotamica e all’area
palestinese, zona quest’ultima allora occupata dagli ebrei. Appare ovvio,
quindi, che l’apparato letterario e religioso mesopotamico, ebraico, cristiano
venisse in contatto con questi popoli e che questi popoli, culturalmente
provinciali, lo abbiano assimilato solo in epoca tarda e che all’epoca di
Maometto questi racconti delle civiltà più vicine erano stati assimilati al
punto che Maometto, da ultimo nuovo profeta, ne da per scontata la conoscenza
almeno generica. Sul carattere storico e provinciale de “Il Corano”, cioè delle
sue derivazioni storiche, ovviamente i fedeli islamici non amano parlare, così
come ebrei e cristiani non amano parlare delle derivazioni mesopotamiche
dell’Antico Testamento. Questo atteggiamento fa parte del fanatismo ideologico
delle religioni, specie di quelle basate su una “rivelazione divina”, perché
mette in discussione proprio questa derivazione divina dei racconti.
L’ideologia, perciò, non si arrende nemmeno di fronte all’evidenza, cioè, in
questo caso, alla Storia.
5) “diranno:
‘Lo ha inventato lui!’..Chi preferisce la vita sulla terra con tutti i suoi
adornamenti, sulla terra noi ripagheremo loro le azioni e non verranno, sulla
terra, defraudati. Ma son quelli che nella vita dell’Oltre non avranno che
fuoco, e annullate saranno le opere loro fatte nel mondo, e vanificate le loro
azioni. Sarà forse simile a loro colui che si basa su una prova chiara
venutagli dal Signore e che ha dietro di sé un Testimonio divino e avanti a sé
il libro di Mosé..?” (XI, 13-17)
C’è
qui l’ennesima conferma del fatto che Maometto ammetta delle rivelazioni precedenti.
Ancora un volta l’Antico Testamento, il libro di Mosè, è l’antecedente
preferito di Maometto. La cosa è chiara se si pensa, non solo all’influenza
avuta dall’area palestinese sui popoli grezzi del deserto fin dall’antichità e
fino all’epoca romana, ma soprattutto se si pensa che, dopo la deportazione
romana degli ebrei, sicuramente alcuni ebrei andarono a vivere nelle zone
desertiche, cosa testimoniata dallo stesso Maometto. Il passo, però, denota una
certa insicurezza (che si potrebbe intendere come umiltà dell’ultimo arrivato)
di Maometto che spiega il suo frequente ricorrere a citazioni delle precedenti
rivelazioni. Per altro un atteggiamento simile era presente anche in Mani. Far
proprie le rivelazioni precedenti, non solo significava non negare la realtà
del fatto che tutti sapevano della loro esistenza, ma significava farne propria
l’autorità. Maometto aveva bisogno di autorità presso un popolo di nomadi, di
pagani, di ebrei trasferitisi, come rivela quella “excusatio non petita, accusatio manifesta”, cioè quella “scusa non
richiesta”, che è un’“accusa manifesta” del fatto che Maometto aveva difficoltà
a fa riconoscere la sua autorità. Ma ciò si mostra anche con l’ascetismo
tollerante che Maometto mostra, allorché dice che coloro che sono attaccati
alle opere terrene non verranno disturbati (se violano le regole coraniche
pratiche vengono disturbati lo stesso), anche se, però, precisa che nell’al di
là verranno condannati. Il fatto è che l’al di là appare una figura piuttosto
debole, anche se può chiedere come sacrifici la morte. Insomma una vita
quotidiana ascetica non è ben configurata, ma l’autorità di Allah può tutto. Il
modello più specifico è l’Antico Testamento, in cui Jahvé è signore
intollerante per principio, ma i compensi sono ancora molto spesso terreni.
Ascetismo debole, dunque, non autoritarismo debole. In ogni caso le
prescrizioni di Allah sono indiscutibili e in questa misura l’ascetismo è
assoluto. Maometto sa che un ascetismo rigoroso non è adatto a quella cultura
di nomadi del deserto, ex-pagani ed ebrei e per altro sembra qualcosa di
lontano anche dalla stessa mentalità maomettana. Preoccupa l’affermazione per
cui le opere dei non credenti “saranno
annullate”, perché tale affermazione giustifica la distruzione delle opere
storiche pagane, cose che gli integralisti islamici hanno fatto sia in
Mesopotamia che a Palmira. Le religioni dette superiori (in barbarie?) non
hanno senso storico e sono intolleranti anche verso la diversità storica (vedi
quella pagana), la storia, per esse, rimane ingabbiata dentro l’orizzonte del
libro sacro e dei suoi precedenti, tutto il resto è fango.
6) “Noè,
quando Ci chiamò da prima, e Noi l’esaudimmo..E Davide ancora e Salomone..Noi
facemmo comprendere il giusto giudizio a Salomone” (XXI, 76-79)
Non
ci possono essere dubbi circa il fatto che la mentalità islamica sviluppa un
dualismo gnostico moderato perché il suo orizzonte principale di dipendenza e
di ragionamento è quello dell’Antico Testamento. Ma lo Jahvé dell’Antico
Testamento diveniva più misericordioso mano mano che si avvicinava all’epoca
cristiana, tuttavia non divenne mai cristiano (e i cristiani fanno una lettura
allegorica, cioè falsa, dell’Antico Testamento), rimase sempre quel “Dio
geloso” che gli gnostici rifiutarono per coerenza, ma che Maometto non rifiuta
affatto, perché per un popolo la cui sopravvivenza nel deserto era sempre stata
qualcosa di terribile, si prestava meglio l’idea di un Dio irascibile, ma
tendenzialmente universale, cosa che avrebbe rafforzato, come avvenne, le varie
tribù. Ancora oggi il mondo mussulmano è un mondo tribale inserito in un
progetto religioso universale e intollerante. L’Islam, specie sunnita, è tanto
pratico per quanto autoritario, non ha precisamente la vocazione ascetica
radicale, tranne che nel martirio, nel fatto, cioè, che in esso si incarna la
volontà di Allah. Sebbene gli islamici rifiutino l’incarnazione, Maometto,
infatti, fu solo un profeta, proprio nel martirio, come capitò anche ai
cristiani, si manifesta la possessione divina più radicale e ormai del tutto
ascetica.
7) “E
così coi malvagi noi operiamo. Esseri che, quando si diceva loro: ‘Non v’è
altro dio che Allah’ s’ergevano superbi e dicevano ‘Dovremo abbandonare gli
iddii nostri, per un poeta pazzo?’” (XXXVII, 34-36)
Il
passo mostra le difficoltà che ebbe Maometto per far riconoscere la sua
autorità, ma mostra anche che Maometto si trovava di fronte a dei pagani. Mostra
anche che Maometto usò la diffusione dell’Antico Testamento presso i popoli
arabi, ma, ovviamente, incorniciato in una struttura teorica universalizzante
che derivava sia dal cristianesimo e sia dalla presenza dei vari Imperi, da
quello romano a quello bizantino ecc. Non bisogna dimenticare che Maometto vive
tra il 571 e il 632 dopo Cristo, quindi proprio ai margini, sia spaziali che
temporali, della diffusione del cristianesimo e della presenza degli imperi. Il
Corano è un prodotto storico ritardato delle civiltà dell’epoca, ritardato
perché il popolo che l’ha prodotto era un popolo provinciale, molto vicino
all’area culturale ebraica e mesopotamica. E’, quindi, chiaro che in esso
convergono spunti di varia tendenza, ma quella ebraico-mesopotamica è
certamente la più forte.
8) “E
se questo Libro venisse davvero d’appresso Allah e voi gli negaste fede e
qualcuno dei figli d’Israele testimoniasse della sua identità con le altre
scritture..? (XLVI, 10)
Il
passo conferma sia le difficoltà che Maometto incontrò nell’affermare la sua
autorità e sia la dipendenza, in particolare, dalla cultura ebraica, al punto
che qui si suppone che faccia riferimento ad un particolare ebreo, tale Abd
Allah ibn Salam, che si sarebbe convertito all’Islam. La cultura ebraica
vetero-testamentaria, però, occorre ricordarlo, rimanda ad una psicologia autoritaria
mesopotamica, la quale, quindi, sopravvive sia nel cristianesimo, dove è in
conflitto con la psicologia gnostica neo-testamentaria, che nell’islamismo, nel
quale, data la moderazione ascetica, la psicologia autoritaria mesopotamica
incontra meno ostacoli teorici. Nella pratica l’autoritarismo sussiste sia nel
cristianesimo che nell’islamismo (nel protestantesimo, però, l’autoritarismo si
fa gnostico, cioè spirituale e abbandona, perciò, il mondo terreno,
identificandosi con Dio, anche se poi ogni credente finisce per avere un
poliziotto all’interno della sua anima; l’islamismo ha ancora bisogno di una
figura terrena, ma il suo gnosticismo gli impedisce di avere una figura unica,
sarebbe idolatria, così ogni credente può essere “iman” purché gli venga
riconosciuta un’autorità, per cui il tratto gnostico, nell’islamismo, è
anti-idolatrico, quindi anti-cattolico, ma non è protestantesimo, perché il
fatto che ognuno sia fedele riconosce, di volta in volta, una distinzione in
persone particolari in base ad un principio di autorità non vincolato ad una precisa
gerarchia).
9) “Ti
faremo declamare il Corano e tu non lo dimenticherai..Ammonisci dunque, ché
utile sarà il Mònito. Lo accoglierà chi teme. Lo fuggirà il malvagio, che
brucerà nel fuoco immenso..Ma voi preferite la vita terrena, ma è l’altra che è
più bella, più lunga. Ché queste cose son tutte scritte nelle pagine antiche,
le pagine di Mosé e di Abramo” (LXXXVII, 6-19)
Il
passo mostra, oltre all’orrore del far imparare le cose a memoria, ancora una
volta la preferenza verso l’Antico Testamento o una sua maggiore conoscenza. Ma
proprio in questa sura si manifesta un dualismo cielo-terra che è di tipo
gnostico, anche se può derivare dal manicheismo o perfino dallo zoroastrismo.
Tuttavia l’elemento gnostico non si diffonde per tutto “Il Corano”, anche se è
presente nei momenti essenziali (ad esempio nel rifiuto dell’idea che Dio si
incarni in Gesù Cristo), si fa presente, tuttavia, in modo particolare,
allorché serve a rafforzare il principio di autorità che viene fissato in
astratto nel Dio unico e superiore ad ogni cosa, cioè Allah. Per cui anche dove
si fa presente l’elemento gnostico, esso è sempre a rimorchio di una psicologia
guida che è di tipo autoritario, cioè ebraico-mesopotamica o
pagano-mesopotamica.
Digiuno
(e astinenza)
1) “O
voi che credete! V’è prescritto il digiuno, come fu prescritto a quelli che
vennero prima di voi, nella speranza che voi possiate divenir timorati di
Allah, per un numero determinato di giorni; ma chi di voi è malato o si trovi
in viaggio, digiunerà in seguito per altrettanti giorni. Quanto agli abili che
lo rompano, lo riscatteranno col nutrire un povero..E il mese di
Ramadan..digiunate per tutto quel mese, e chi è malato o in viaggio digiuni in
seguito per altrettanti giorni. Allah desidera agio per voi, non disagio, e
vuole che compiate il numero dei giorni e che glorifichiate Allah..V’è
permesso, nelle notti del mese del digiuno, d’accostarvi alle vostre donne:
esse sono una veste per voi e voi una veste per loro. Allah sapeva che voi
ingannavate voi stessi, e s’è rivolto misericorde su di voi, condonandovi quel
rigore; pertanto ora giacetevi pure con loro e desiderate liberamente quel che
Allah vi ha concesso, bevete e mangiate, fino a quell’ora dell’alba in cui
potrete distinguere un filo bianco da un filo nero, poi compite il digiuno fino
alla notte e non giacetevi con le vostre donne, ma ritiratevi in preghiera nei
luoghi d’orazione” (II, 183-187)
Il
tema del “digiuno” introduce un aspetto ascetico o del sacrificio. L’ascetismo,
in genere, suppone un dualismo molto marcato rispetto al mondo terreno, quasi
il tentativo di fare una vita del tutto spirituale a immagine e somiglianza
dell’al di là e di Dio stesso. In questo senso né il digiuno islamico e nemmeno
i vari digiuni popolari cristiani hanno un senso di forte ascetismo. Ciò che
vuole essere popolare non può essere troppo punitivo in termini terreni. Per
questo, poi, il mondo cristiano, contrariamente a quello islamico, ha finito
per distinguere almeno due livelli (anche di più) spirituali dell’essere
cristiano: quello popolare e quello sacerdotale. Il protestantesimo fu anch’esso
un compromesso tra le esigenze naturali e popolari e quelle spirituali: essendo
sacerdoti tutti i cristiani, l’accoppiamento sessuale in vista della
procreazione era concessa a tutti, ma, nel contempo, al di fuori della
procreazione, vi doveva essere una certa castità. Idea malata della sessualità
condivisa anche dal cattolicesimo. E’ ovvio che i vincoli di castità fossero
quasi ovunque disattesi. Il digiuno e la castità, limitati nel tempo o a
determinate occasioni, possono apparire e sono un “ascetismo moderato”, anche
se fastidioso, tuttavia sono pur sempre “ascetismo”. Quindi è chiaro che nel
passo de “Il Corano” emerge il condizionamento ascetico di provenienza o
neo-testamentaria o manichea. Ma è altrettanto chiaro che l’elemento ascetico è
pilotato dall’elemento ebraico-mesopotamico, cioè autoritario, perché non serve
ad assumere un vero abito spirituale per somigliare sempre di più all’eventuale
carattere trascendente di Allah (carattere, per altro, mal definito: manca un
vera “teologia negativa” ne “Il Corano”), come vorrebbe un ascetismo forte, ma
serve soprattutto per ribadire l’autorità di Allah, nel segno del “timore”: “nella speranza che voi possiate divenir
timorati di Allah”. L’ascetismo, quindi, cioè la componente
cristiano-gnostica, è al servizio della componente ebraico-mesopotamica, cioè
di un divinità sul modello di Jahvé, il cui scopo, come nella divinità ebraica,
è soprattutto quello politico di ottenere una compattezza delle tribù arabiche.
Se non fosse che l’universalismo cristiano e manicheo avevano già superato il
livello etnico, si potrebbe pensare che Allah è la riproduzione di Jahvè come
Dio etnico. Ma l’elemento etnico era ormai superato, gli arabi si erano, per
secoli, confrontati con Imperi, da quello persiano a quello macedone, da quello
romano a quello bizantino o dei Parti, quindi era ovvio che l’unità etnica
delle tribù arabiche dovesse portare ad una forza di espansione imperiale: si
giunse, infatti, non a caso, alla formazione dell’Impero arabo. Insomma l’Islam
e l’imperialismo arabo furono entrambi la conseguenza dei gravi pregiudizi dei
tempi. Che Allah sia simile a Jahvé lo dimostra anche il fatto che Maometto si
preoccupa di chiarire che “Allah desidera
agio per voi, non disagio”, il che mostra di trattarsi di un “ascetismo
moderato”, quasi non ben compreso, qualcosa che somiglia fin troppo ai compensi
terreni che Jahvé donava al popolo ebraico nell’Antico Testamento. In tutti i
casi, sia i compensi che le punizioni, nonché il digiuno, cioè il carattere
ascetico, fanno capo all’autorità di Allah e servono solo per ribadirla in
continuazione. L’astinenza dal cibo e dal sesso sono dei “sacrifici” donati
alla divinità presi direttamente dalla propria vita corporea, sono ascetismo,
ma nel segno del “sacrificio”, cioè di uno sviluppo che deriva dallo stesso
mondo pagano così disprezzato, sono da collocare nella linea
pagano-mesopotamica che, attraverso gli ebrei, arriva direttamente a Maometto.
Dal passo, inoltre, non si possono non
ricavare due cattive impressioni: la prima riguarda le modalità dell’astinenza
da cibo e sesso, la seconda riguarda la sessualità femminile. Partiamo dalla
seconda impressione: per quanto Maometto chiarisca che le donne “sono una veste per voi e voi una veste per
loro”, dando l’impressione di un’apparente parità sessuale, il passo è del
tutto impostato al maschile, e se, per estensione, i divieti sul cibo si
possono facilmente intendere riservati anche alle donne, non può non infastidire
il fatto che sembra non riconoscersi alcuna sessualità femminile. L’astinenza
sessuale è sempre “astinenza dalle donne”, mai “dagli uomini”. Che il mondo
islamico abbia grosse difficoltà a riconoscere una sessualità alle donne è
cosa, purtroppo, nota e negarlo è da ipocriti. La donna araba, a livello
pubblico, somiglia più a una suora che ad una donna. Che a manifestare
chiaramente la sessualità femminile ci sia sempre stato qualche problema in
tutte le religioni è cosa altrettanto nota. Ma non più accettabile né dai
cristiani e né dai mussulmani. Manifestare liberamente la sessualità, poi, non
vuol dire che c’è l’equivalenza con la prostituta, i bigotti schiavizzati dalle
religioni pensano facilmente conseguenze del genere. E lo pensano anche le donne
molto cristiane e molto islamiche, tali, cioè, che hanno subito il lavaggio del
cervello. Per quello che riguarda le modalità di astinenza dal cibo e dal
sesso, occorre dire che, da un punto di vista della coerenza ascetica, le
modalità sono piuttosto ipocrite. Non mangiare e non fare sesso di giorno, ma
puoi farlo di notte. Come se giorno e notte fossero periodi diversi come quelli
di altri pianeti. Ma Maometto sapeva bene che sacrifici del genere, specie se
durano un mese, vengono facilmente disattesi, e allora l’autorità di Allah
spariva del tutto, anziché rafforzarsi con le astinenze. Di qui l’espediente di
ricorrere alla differenza giorno-notte, necessario affinché l’imperativo
dell’astinenza potesse essere seguito dal popolo, perché Maometto sapeva
benissimo che, altrimenti, i credenti avrebbero ingannato loro stessi in mille
forme di ipocrisia: “Allah sapeva che voi
ingannavate voi stessi”. Per evitare i comportamenti ipocriti dei fedeli di
fronte a imperativi di astinenza così rigorosi, Maometto preferisce essere non
rigoroso lui stesso. In tale modo, però, genera solo scomodità, non astinenza
vera e propria. La scomodità serve lo stesso a ribadire l’autorità di Allah?
Non è chiaro. Però appare certo che l’ipocrisia riguardo all’astinenza sembra confermata
dallo stesso Corano: Maometto, per anticipare l’ipocrisia, detta un imperativo
che sembra ipocrita esso stesso, un imperativo che non è un imperativo, che,
piuttosto che negare il cibo e il sesso, sembra, invece, negare il “giorno”. La
credulità popolare viene ingannata con piccoli e non nobili espedienti.
L’ascetismo islamico è una presa in giro, è piuttosto un mezzo per ribadire
l’unico vero interesse de “Il Corano”, cioè l’autorità fine a se stessa. Che
tutto questo venga descritto con un linguaggio “poetico”, non toglie una
virgola al contenuto inaccettabile.
Divorzio
(e ripudio)
1) “A
coloro che giurano di separarsi dalle loro donne è imposta un’attesa di quattro
mesi. Se ritornano sul loro proposito, ebbene Allah è indulgente e perdona, e
se poi saranno confermati nella loro decisione di divorziarle, Allah ascolta e
conosce. Quanto alle divorziate, attendano, prima di rimaritarsi, per tre
periodi mestruali. E non è loro lecito nascondere quel che Allah ha creato nel
loro ventre..Ché è più giusto che i loro mariti le riprendano quando si trovano
in questo stato, se vogliono riappacificarsi. Esse agiscano coi mariti come i
mariti agiscono con loro, con gentilezza; tuttavia gli uomini sono un gradino
più in alto, e Allah è potente e saggio. Il ripudio v’è concesso due volte: poi
dovete o ritenerla con gentilezza presso di voi, o rimandarla con dolcezza; e
non v’è lecito riprendervi nulla di quel che avete loro dato..se temono di non
poter osservare le leggi di Allah, non sarà peccato se la moglie si riscatterà
pagando..Dunque se uno ripudia per la terza volta la moglie essa non potrà più
lecitamente tornare da lui se non sposa prima un altro marito; il quale a sua
volta la divorzia, non sarà peccato se i due coniugi si ricongiungano, se
pensano di poter osservare le leggi di Allah..E quando ripudiate le donne e
siano giunte al termine fissato per il ripudio, ritenetele con gentilezza o con
gentilezza rimandatele, e non trattenetele a forza iniquamente, perché chi fa
ciò fa ingiustizia a se stesso. Non prendete a gabbo i segni di Allah..e temete
Allah e sappiate che Allah sa tutto. E quando ripudiate le donne e siano giunte
al termine fissato per il ripudio, non impedite loro di sposare i loro mariti,
se s’accordano fra loro umanamente..E le madri divorziate allatteranno i loro
figli per due anni pieni se il padre vuole completare l’allattamento, e il
padre è obbligato a fornir loro gli alimenti e le vesti, con gentilezza;
comunque nessuno può essere obbligato a fare più di quanto può..Se poi i due coniugi
vorranno interrompere l’allattamento di comune accordo..non faranno alcun
peccato; né farete alcun peccato se darete ad allattare i vostri figli a una
nutrice..Se qualcuno di voi muore e lascia delle mogli, queste attenderanno per
quattro mesi e dieci giorni..Non v’è nulla di male se farete proposte di
matrimonio a queste donne, o se celerete questa intenzione nei vostri
cuori..Ma..non decidete di unirvi con loro in matrimonio finché la prescrizione
non sia giunta al suo termine, e sappiate che Allah conosce quel che avete in
cuore, badate! Ma sappiate che Dio è pietoso e clemente. Non v’è nulla di male
se ripudierete le donne prima di averle toccate o prima di aver loro fissato
una dote; ma assegnate loro mezzi per vivere..E se le ripudierete prima di averle
toccate, ma avete già assegnato loro una dote, una metà di questa resterà a
loro, a meno che non vi rinuncino..Alle ripudiate spettano mezzi di sussistenza
secondo onestà: è un dovere per i timorati di Dio” (II, 226-241)
Si tratta del passo più lungo riguardante
il divorzio che sia presente ne “Il Corano”. Vi sono, in via preliminare, quattro
sensazioni fastidiose in generale. La prima consiste nel fatto che appare evidente
una forsennata volontà di “regolamentare” tutto, il che serve, in ogni caso,
per affermare l’autorità di un potere autoritario che viene ad essere imposto
mediante l’idea astratta della divinità, cioè Allah. La sottomissione a tale
idea è totale: è questo il carattere “mongolico” di cui parlava Stirner.
Proprio perché la sottomissione all’idea agisce più in senso giuridico e
autoritario (in questo l’islamismo è l’erede dell’ebraismo), anziché in senso
ascetico, per certi aspetti l’islamismo è meno medievale dell’ascetismo
cristiano del Medioevo, più vicino alla modernità, ma rimane medievale per lo
spirito con il quale legifera, ignorando una laicità terrena recuperata
attraverso i grandi passi che l’Occidente ha fatto: recupero della classicità,
Illuminismo, Romanticismo, rivoluzione sessuale. Cose che, ovviamente, sono a
rischio anche in Occidente in virtù di rinascite cristiane e anche di un
eccesso di regolamentazione di derivazione politica e scientifica. Una cosa è
certa: la volontà di regolamentare tutto, presente ne “Il Corano”, non è molto
dissimile, nello spirito, dal diritto di famiglia del moderno Occidente. La
seconda sensazione fastidiosa è che il “divorzio” si presenta ne “Il Corano”
nella forma del “ripudio” della donna da parte del maschio. Ciò sembra denotare
una forma di maschilismo almeno di principio, come conferma l’ottusa
affermazione per cui “gli uomini sono un
gradino più in alto”. Intendiamoci, ogni divorzio è un ripudio, anche se è
bilaterale. Ma qui è l’unilateralità del ripudio che fornisce una sensazione
fastidiosa. Va, tuttavia, notato che il ripudio islamico, così come il divorzio
in Occidente, permette alla donna di “cadere in piedi” e alla fine di trovarsi
spesso in condizioni migliori dell’uomo. In altri termini la donna trova forme
di protezione, per molte donne rassicuranti, che potrebbe non trovare in un
mondo più libero per lei. Il ripudio, infatti, comporta una serie di obblighi
di mantenimento da parte dell’uomo, così come accade nella maggior parte dei
divorzi nel mondo occidentale, fino al punto di uomini ridotti ad andare a mangiare
alla mensa dei poveri. Ovviamente, per chi ragiona in termini di libertà,
questa dichiarata superiorità dell’uomo e questa iper-protezione della donna
sono altrettanto inaccettabili. La terza sensazione fastidiosa consiste nel
fatto che Allah, anche quando appare clemente e misericordioso, è sempre un
principio di autorità brutale. La clemenza e la misericordia, certo eredità
neo-testamentaria, in fondo sono proprio le virtù di chi è ritenuto il
legittimo rappresentante di un potere mostruoso. Da Babilonia all’Antico
Testamento fino a “Il Corano”, ma anche nel cristianesimo, la misericordia e la
clemenza sono la virtù di un potere che pretende una sottomissione assoluta.
Insomma la clemenza e la misericordia sono l’aspetto benevolo della barbarie,
cioè di un potere tirannico. La cultura mesopotamica, quella ebraica, quella
cristiana, quella islamica sono questa barbarie. Confermato, dunque, che
clemenza e misericordia non eliminano, ma confermano, il dispotismo divino di
Allah, appare ovvio, di conseguenza, che non dobbiamo meravigliarci se il
rapporto uomo-Allah sia basato soprattutto sul “timore”. La paura di Allah è il
vero motore della religione islamica, un principio inconciliabile con tutto il
processo, non ancora terminato, di liberazione dell’individuo dell’Occidente. L’eventuale
islamizzazione dell’Occidente sarebbe un ritorno alla barbarie, per cui davvero
non si capisce cosa si intenda per “integrazione”: si dà per scontato che gli
islamici abbandonino “Il Corano”? E’ una presunzione molto pericolosa. La quarta
sensazione fastidiosa è che la regolamentazione presume un comportamento
scorretto sia da parte degli uomini che delle donne e anzi lascia intendere una
certa violenza fisica o verbale, come rammenta lo stesso Maometto con il suo
continuo ripetere “con gentilezza”.
Come si vede violenza e barbarie tirannica vanno particolarmente d’accordo,
l’una richiama l’altra: non c’è violenza che non porti alla necessità di un
potere assoluto e tirannico, non c’è potere assoluto e tirannico che non presuma
la violenza. Che le unioni e le separazioni tra uomini e donne avvengano solo
sul piano della “libertà” sembra cosa sconosciuta tanto al mondo islamico
quanto al mondo occidentale moderno.
Chiarito che nell’Islam il divorzio è,
prima di tutto, un ripudio della donna da parte dell’uomo, vediamo quali sono
le principali “regole” che stabilisce “Il Corano” in relazione al divorzio:
1)
per ottenersi il divorzio devono passare quattro mesi; il periodo sembra
imposto per una meditazione, infatti, subito dopo Maometto precisa le due
ipotesi, cioè o ripensamento e riappacificazione o conferma della separazione;
2)
le donne prima di maritarsi di nuovo devono attendere tre cicli mestruali (tre
mesi?) e non devono nascondere il figlio avuto con il precedente marito che
portano in grembo; la prescrizione sembra voler tutelare da inganni il marito
successivo della donna;
3)
“Il Corano” sembra augurarsi una riappacificazione quando la donna attende un
figlio dal marito. Insomma il figlio sembra attenuare il diritto al divorzio che
viene, per altro, confermato. E’ un punto in cui l’Islam tende ad avvicinarsi
al divieto di divorzio della religione cattolica. La presenza del figlio
attenua i diritti dei genitori. Essere genitori è, dunque, una vita di
sacrificio per il figlio? Una vita a metà? Il figlio ha diritto ad essere
cresciuto, non a limitare i diritti dei genitori, questo va detto in
particolare contro l’attuale atteggiamento legislativo e giudiziario
dell’Occidente;
4)
il ripudio o divorzio è possibile, senza complicazioni, solo per due volte e,
nel caso in cui la donna lasci il marito, quest’ultimo non può riprendersi le
cose e la dote che le ha donato (conferma della protezione della donna);
5)
Il ripudio può avvenire anche una terza volta, ma solo a certe condizioni: queste
prevedono che la donna non possa tornare indietro se non dopo aver sposato un
altro uomo e aver divorziato da questo altro marito. A noi occidentali ciò
sembra assurdo, giacché proprio il fatto che abbia sposato un altro uomo ci
appare come impossibilità a tornare indietro e anche se è previsto il divorzio
da questo secondo uomo, tutto ci appare come una complicazione barocca. Occorre
ricordare, tra l’altro, che l’Islam non prevede il reato di “bigamia” ed
ammette la poligamia. La cosa si spiega come una forma di iper-protezione della
donna e con il fatto che a disporre il divorzio è l’uomo unilateralmente. In
altri termini, se un uomo divorzia e poi riaccetta la donna, quest’ultima viene
a trovarsi in una condizione di sospensione per cui non può riprendersi la dote
(il gioco tra ripudio e nuova accettazione della donna può spingere
quest’ultima a rinunciare alla restituzione della dote). La preoccupazione de
“Il Corano” per i mezzi di sussistenza della donna è costante, visto che la
donna è sempre mantenuta da un uomo (l’idea che la donna lavori per suo conto e
specialmente in luoghi pubblici, è idea non islamica ed è idea inconciliabile
con la cultura occidentale e con l’idea di un’autonomia economica di base della
donna). Proprio per questo la legge coranica impone il dovere di sposarsi di
nuovo, perché in tal modo la dote deve essere restituita comunque e poi viene
tutelato il mantenimento della donna grazie al nuovo marito. E’ ovvio che, nel
caso in cui la donna ritorni dal primo marito, il nuovo marito sia spesso una
persona che si presta a fare da finto nuovo marito. Su questo la letteratura
islamica si è spesso molto divertita. Ma, se il ritorno dal primo marito non
avviene, la dote restituita diventa un bene prezioso per il sostentamento della
donna e il dovere di mantenimento della donna va in carico automaticamente al
nuovo marito, finto o vero che sia, visto che l’impegno è comunque preso verso
Allah. Le femministe, a ragione, direbbero che in tal modo diventa palese che
la donna è accolta da un uomo perché pagata con la dote e con il mantenimento,
per cui la donna sposata verrebbe a trovarsi nella medesima condizione di una
prostituta. Certo il mantenimento è un’offesa alla donna, ma anche un ingiusto
perso per l’uomo, per questo la dote e il mantenimento sono immorali da ogni
punto di vista. Ma, se una donna, per necessità contingenti, ritiene di dover
fare la casalinga, non si può sostenere che venga mantenuta dal marito e quindi
ricavarne che la casalinga e la prostituta si equivalgano. La donna che fa la
casalinga lavora e in ogni caso si dedica a persone particolari, il che elimina
di per sé l’equivalenza con la prostituzione. Fare la casalinga è un lavoro, ma
non una professione, non si fa la casalinga per tutti, per questo poi non può
essere riconosciuto come lavoro pubblico, cioè fatto a un pubblico di clienti o
di fruitori di servizi. Equiparare casalinga e prostituta equivarrebbe a
ragionare come fa l’islamico che reputa di per sé la donna come una mantenuta.
Il modo in cui l’Islam intende la donna è ingiusto verso la dignità delle donne
e carica gli uomini di pesi di mantenimento che non gli spettano. Spesso, poi,
la donna nell’Islam, almeno quello più ricco, non fa neppure la casalinga, ma
fa la “signora”, che è cosa ben diversa, anche se appare come una “signora in
gabbia”, ma molte donne, se la gabbia è dorata, adorano starci.
6)
La donna poi deve allattare il figlio dopo il divorzio per due anni se il padre
vuole che sia completato l’allattamento. Possono, però, di comune accordo
interrompere l’allattamento e allora c’è l’affido alla nutrice.
7)
In caso di morte del marito le donne non potranno sposarsi prima quattro mesi e
dieci giorni. E’ un periodo di lutto. La cosa inaccettabile per noi è che sia
obbligatorio. La brevità del lutto si spiega per due motivi principalmente: il
primo è quella protezione della donna che abbiamo già notato. Se la donna è
mantenuta da un uomo, quando questo muore, la donna non ha più chi la mantiene.
Il secondo motivo è che presso le popolazioni arabiche dell’epoca non c’era la
sovrappopolazione, ma la scarsità delle nascite, per cui più il periodo di
lutto è lungo più si restringe la possibilità di fare figli. Poi ci può essere
anche un interesse personale della donna o di qualche uomo, da questo punto di
vista appare chiaro che “Il Corano” è una religione autoritaria, ma pratica,
non si può fare a meno di rammentare la distinzione che face Marx tra ebrei e
cristiani, che vale anche per gli islamici, messi al posto degli ebrei: “Il cristiano era fin da principio l’ebreo
teorizzante; l’ebreo è perciò il cristiano pratico” (K. Marx - “La questione ebraica”). Ai pratici, cioè agli ebrei
e agli islamici, quindi il principio ascetico metafisico non interessa in
quanto tale, cioè in quanto spostamento in una effettiva e piena vita
spirituale, ma solo in quanto si presta a giustificare l’esistenza di un essere
“superiore” e “onnipotente”, che possa fungere da assoluto e indiscutibile
principio di “autorità”: l’al di là conta, in senso pratico, solo in quanto è,
per l’al di qua, Jahvé o Allah (eredi dei dio mesopotamico Enlil), vale a dire
“obbedisci e striscia come individuo”. Un principio inaccettabile.
8)
Il divorzio-ripudio può avvenire anche prima di aver consumato il matrimonio,
sia prima che l’uomo abbia consegnato la dote e sia dopo. Nel caso di ripudio
dopo aver consegnato la dote, nella circostanza di un matrimonio non consumato,
l’uomo può riavere solo una metà della dote, per il già noto principio che,
anche se il matrimonio non è stato consumato, la donna conserva un qualche
diritto alla dote perché “Il Corano” si preoccupa certamente della sussistenza
delle donne. Questo spiega anche le molte adesioni femminili alla religione
islamica, donne, evidentemente, più preoccupate della loro protezione e
sussistenza che della propria dignità personale e individuale. Donne pronte al
martirio giacché la protezione vi è nell’al di qua e nell’al di là, nel nome di
Allah. Un nome, appunto, come disse Herder, polemizzando con il teismo di
Jacobi (e l’Islam è iper-teista): “E se
tu riduci questo concetto supremo, intimo, onnicomprensivo ad un puro nome,
allora sei tu ateo, non Spinoza” (J. G.
Herder - “Lettera a F. H. Jacobi” del 20/12/1784). Herder era panteista
e riteneva il teismo basato su un puro “nome” addirittura una forma non
confessata di ateismo. Da questo punto di vista gli islamici e gli ebrei
sarebbero atei. Ma degli atei sottomessi ad un nome-idea astratta (Jahvé,
Allah, Dio, Umanità che sia) sono comunque degli schiavi, direbbe Nietzsche.
9)
L’onere del mantenimento e della tutela delle donne nell’Islam sembra vada di
pari passo con l’affermazione della superiorità maschile: 1) “gli uomini sono un gradino più in alto”,
2) “è più giusto che i loro mariti le
riprendano quando si trovano in questo stato <incinta>”, 3) “non v’è lecito riprendervi nulla di quel che avete loro <alle
mogli> dato <come dote>”, 4) “il padre è obbligato a fornir loro <alle madri divorziate che
allattano> gli alimenti e le vesti”,
5) “assegnate loro <alle donne da
cui si è divorziato senza consumare il matrimonio> mezzi per vivere”, 6) “se le
ripudierete prima di averle toccate, ma avete già assegnato loro una dote, una
metà di questa resterà a loro”, 7) “Alle
ripudiate spettano mezzi di sussistenza secondo onestà: è un dovere per i
timorati di Dio”. Tutto questo, rispetto all’individuo, è ingiusto nei
confronti sia dell’uomo che della donna. L’idea che tra uomo e donna vi sia,
nell’unione, un sodalizio di autonomia, tutela e mantenimento reciproco,
proprio in virtù dell’individualità completa di ognuno dei due, è ignota a “Il
Corano” e forse alle religioni in generale.
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