SUL SENSO DI GIUSTIZIA
- Che la “pena” sia una punizione “rieducativa” mirante al reinserimento sociale della “pecorella smarrita” è un concetto illuministico-cristiano che non può appartenere a Leopardi come non apparteneva a Nietzsche. La rieducazione è interesse sociale e non individuale. Chi ha subito un danno vuole la restituzione di un danno, è una “violenza giusta” di fronte alla “violenza ingiusta” subita. Ciò può anche concepirsi come “vendetta”, ma dettata dall’ira: alla base della pena e della giustizia, per la singola vittima della violenza, c’è l’ira: “Senza crudeltà non v’è festa..e anche nella pena v’è tanta aria di festa” (F. Nietzsche - “Genealogia della morale” - 2° dis. 6). La società, invece, vuole “narcotizzare” l’ira della vittima e la demonizza come “vendetta”, per far sì che la gestione del potere sociale resti comoda. La pena come rieducazione è interesse del potere sociale, non di chi ha subito l’ingiustizia. L’ira si deve intendere come reazione ad una violenza subita, come giustizia. Un orso che reagisce con una zampata ad una zampata subita sta facendo giustizia mediante la pena. L’animale, certo, a lungo andare dimentica, l’uomo no. Leopardi condanna la vendetta perché nella società “stretta” si creano le condizioni di vendette continue all’infinito: è la memoria, la convivenza vicina con il violento che genera questa catena di vendette, mentre in natura la cosa si esaurisce in poco tempo. C’è la reazione immediata: pena, giustizia, vendetta vengono esercitate immediatamente o mai più. Leopardi, quindi, non condanna la vendetta in se stessa, ma la catena delle vendette, trova la vendetta presa all’istante, al di fuori della sua socializzazione, naturale tanto che trova ovvio lo spirito di vendetta e ne condanna solo l’eternità e la catena sociale: “Chi non sa che cosa possa nell’uomo lo spirito di vendetta? Il quale rende eterna l’ira e l’odio verso i suoi simili..Or questo spirito ch’è inevitabile in qualunque società umana stretta, fu ignoto all’uomo primitivo, è ignoto a qualunque altro animale, in cui l’ira non dura più di qualunque altra passione momentanea, e la ricordanza dell’ingiuria più dell’ira” (G. Leopardi - “Zibaldone” 3795). Dunque, per Leopardi, all’ingiuria segue l’ira, momentanea o durevole che sia (l’uomo, però, ha più memoria). L’ira dell’individuo che ha subito l’ingiuria sta, quindi, alla base del desiderio di giustizia, quindi della pena, vendetta o no che sia. La convergenza tra Leopardi e Nietzsche è chiara. L’interesse sociale non c’entra nulla con la giustizia e la pena, è solo l’interesse del potere. Come era interesse della logica cristiana creare il “Purgatorio” (l’equivalente della pena per l’ottica totalitaria del potere sociale), in modo che la pecorella smarrita rientri nell’ovile del Paradiso, cioè della società perbenista. La pena come rieducazione annienta la giustizia per l’individuo, neppure lo calcola, tanto è vero che tende al “perdono” per confermare l’onnipotenza di Dio, cioè laicamente della società: “Che vivano e prosperino: sono ancora abbastanza forte per permettermelo!” (F. Nietzsche - “Genealogia della morale” - 2° dis. 10). Finché non si arriva all’indifferenza verso l’ingiuria subita dal singolo individuo, all’abolizione della giustizia, come nel perdono cristiano, nei continui sconti di pena della legge e alla grazia: “Questa autosoppressione della giustizia: è noto con quale bel nome essa viene chiamata: grazia <perdono>” (F. Nietzsche - “Genealogia della morale” - 2° dis. 10).